Vorrei dire: bye bye Borges. Vorrei dire, per dare altro gas al fausto anniversario, chiudiamo Borges nel mausoleo dei grandi, releghiamolo tra le mummie, possiamo farne a meno. Imitato, criticato, adorato, pubblicato fino all’infima filastrocca cucita sul calzino sinistro, salutiamo Borges come qualcosa di passato, di spassionatamente vecchio. Invece. Borges ha inventato una formula narrativa semplice & perfetta, cristallina, come un proiettile di diamante – direbbe Marlon Brando/Kurtz – che perfora il cranio del Novecento ma pure quello del nuovo millennio. Comunque sia, non ne puoi fare a meno: Borges ti frega sempre, i suoi racconti sono sciarade circolari, sono rebus salutari, e a me capita di rileggerli per ritrovare una postura letteraria adatta, per ricongiungermi a una disciplina, come si entra in monastero e il silenzio, grato, ci fa camminare più eretti, cuce le labbra, rende avidi gli occhi.
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Scrittura limpida, lucida, da moralista francese, ed erudizione, enigmistica trascendentale. Machiavelli nel corpo di un bramino, Montagne nella sfera di un sufi, Hemingway con un cervello da talmudista, Kafka incrociato a Fozio. Borges è talmente originale che quando si tratta di parlare di sé, rimanda sempre ad altri, i suoi santi – un gesto che non ha nulla dell’umile protervia, ma è gratitudine. Così, grazie a Borges, sono sinceramente andato a Henry James e all’Edda, a Ray Bradbury e a Stevenson e a Plotino, a Marcel Schwob e a Beowulf, a Dante, al Corano, a Walt Whitman, a Kafka e a Thomas Carlyle, a Melville e a Mark Twain, e anche se ciascuno di questi, in fondo, non ha alcuna parentela letteraria con Borges, che li evoca per sovranismo enciclopedico, poco importa, perché il verbo è tutto e tutti, dice il grande cieco di Buenos Aires, stiamo scrivendo lo stesso poema, a cui siamo avvinti e di cui non siamo padroni.
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Poi, bisogna andare a Buenos Aires per capire che dietro ogni vicolo puoi trovare il solido platonico e nel frinire delle lame, nel tubare delle automobili, si cela la cifra che svela il cosmo e lo fa diventare un granello di sabbia sotto l’unghia del pollice. Penso sia anche una questione di spazi: l’ossessione dell’infinito, degli specchi, dell’implacabilità eterna, del libro sconfinato, è coltivata dal figlio di una austera arpia che traduce la Mansfield e Faulkner, in una città ‘parigina’ cresciuta sulla melmosa foce del Rio della Plata, in una terra sconfinata, patagonica, tra tango e florilegio di ghiacciai, nella feconda nostalgia di un passato europeo.
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Ciascuno ha i suoi. Certamente L’Aleph (uscito 70 anni fa) è la quintessenza dell’opera di Borges, per alcuni lo è Finzioni: qualcuno preferisce La biblioteca di Babele, altri Tlön, Uqbar, Orbis Tertius, c’è chi ama alla follia La casa di Asterione e chi L’immortale. Borges da un incendio purificatore avrebbe salvato Il libro di sabbia. Io ammetto la mia passione per un racconto che si intitola Tigri azzurre, anche se, alternativamente, Borges mi piace da ogni lato, anche quel libro che si chiama Atlante. Le sue poesie non vanno lette come poesie – altrimenti modeste – ma come peculiari appendici ai suoi racconti, chiose, chiodi lirici, nodi che fanno dei libri di Borges un’unica grande opera.
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Sylvia Iparraguirre, maestra della letteratura argentina, già allieva di Borges all’Università, amica, lo ricorda nel suo libro autobiografico, La vida invisible, “la genuina, esemplare modestia di Borges posso testimoniarla in prima persona e riguarda uno degli argomenti borghesiani per antonomasia: lo scrittore che vuole scomparire, che vuole essere inghiottito nell’oblio. Quando suo padre gli diede da leggere The Invisible Man di H.G. Wells, Borges gli disse che voleva diventare così, l’uomo invisibile; quell’invisibilità si connette al desiderio di occultarsi nel nulla, di ‘smettere di essere Borges’. Il tema lo portava a raccontare la storia, che ho ascoltato direttamente da lui, di quell’andaluso che quando gli chiesero il nome rispose: ‘Sempre lo stesso, il problema è il tempo che passa’, risposta che, secondo Borges, contrastava tutti gli affanni della fama”. Mi sembra interessante, e in qualche modo analogo, ciò che Borges rivelò intervistato da Liliana Heker: “Quando ero giovane ero incline alla tristezza, a teatralizzare me stesso; volevo essere Amleto o Raskol’nikov, e ora non più”.
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Lego la nada a nadie: è l’ultimo verso di una poesia, Il suicida, raccolta in La rosa profonda. “Lascio il nulla a nessuno”, traduce Domenico Porzio, inevitabilmente perdendo l’assonanza mistica tra nada e nadie – dove il nulla ha sempre un nitore mistico (gola-caverna di Dio), e nessuno l’esito di una nitidezza (lo è Ulisse, dopo la verifica del mostro). Quando scavi nell’opera di Borges ne trovi molteplici, un Borges per ogni giorno, per ogni comodino. Condannato a non sparire, ci ha consegnato un’opera, però, alla fine della quale non scopriamo altro che il nostro smarrimento, un enigma in scroscio. (d.b.)
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Susan Sontag amava Jorge Luis Borges, lo riteneva lo scrittore più influente del secondo Novecento, un rivoluzionario. “Mi manchi. Continui a fare la differenza. Alcuni di noi non abbandoneranno la Grande Biblioteca. Continuerai a essere il nostro eroe”, gli scrive, nel 1996, in una lettera oltremondana, che celebra i dieci anni dalla morte del grande scrittore. Nel 1985 i due si incontrarono, dialogando pubblicamente nel contesto della “Feria del Libro di Buenos Aires”. La trascrizione del dialogo, inedita in Italia, è stata pubblicata su El Clarin per festeggiare i 120 anni dalla nascita di Borges (tra le tante manifestazioni in atto in Argentina, segnalo il ciclo di convegni organizzato dalla Fundación Internacional Jorge Luis Borges). Eccone alcuni stralci.
Forse sono solo un impostore. Involontario. “Non sono modesto, sono semplicemente lucido. Mi stupisce essere conosciuto. Sono trascorsi cinquant’anni, la gente mi nota, ho smesso di essere un uomo invisibile. Eppure, questo è per me uno sforzo terribile. A volte penso di essere una specie di superstizione, ora piuttosto diffusa. In ogni momento puoi scoprire che sono un impostore, in ogni caso, un impostore involontario”.
Se non ci fossero Emerson, Melville, James, non esisterei. “Se penso alle personalità che il New England ha dato al mondo – forse gli astrologi possono aiutarmi – e comincio ad elencare, Emerson, Melville, Thoreau, Henry James, Emily Dickinson, penso che se non ci fossero non esisteremmo, penso che siamo una proiezione di quella costellazione nata in New England”.
Elogio del rileggere. “Penso che uno scrittore sia influenzato da tutto il passato, non solo di quello di un paese e di una lingua, ma anche da scrittori che non ha letto, che non appartengono alla sua lingua… Ho perso la vista nel 1955 e da allora mi dedico alla rilettura più che alla lettura. La rilettura è una attività importante, perché rinnova un testo: il libro è uno, ma noi non siamo mai gli stessi nel momento della rilettura. ‘Non ci si bagna due volte nello stesso fiume’, dice Eraclito. Il fiume scorre, Eraclito scorre, e io sono quel vecchio Eraclito che fa il bagno non nello stesso fiume, ma in un altro, e ringrazio la frescura di quelle acque”.
Forse non scriviamo altro che la stessa storia. “L’originalità è impossibile. Si può variare leggermente il passato, uno scrittore può avere una nuova intonazione, una sfumatura, nient’altro. Forse ogni generazione non scrive che lo stesso poema, non racconta che la stessa storia, ma con una piccola, preziosa differenza: l’intonazione, la voce, ed è sufficiente”.
Per l’isola deserta voglio un’enciclopedia. “Amo la letteratura scandinava, le saghe, l’Edda islandese… ma tutta la letteratura è stupefacente. Immaginare il mondo senza Verlaine, senza Hugo, sarebbe molto triste, sarebbe impossibile. Ma perché astenersi da qualcosa? Perché essere un asceta delle biblioteche? Le biblioteche ci danno una felicità continua, una felicità accessibile. Forse, se fossi Robinson Crusoe, il libro che mi porterei sull’isola sarebbe la Storia della filosofia occidentale di Bertrand Russell. Certo, se potessi trasportare una enciclopedia sarebbe meglio, dato che per un uomo curioso e ozioso come me la lettura dell’enciclopedia è quella migliore”.
Tutto è finzione. “La filosofia è una finzione, il mondo intero è una finzione, senza alcun dubbio, è una finzione”.
Voglio imparare il giapponese. “Sto cercando di studiare il giapponese, ma è una lingua così complessa che gli idiomi occidentali paragonati al giapponese sono come il guaraní rispetto allo spagnolo. È una lingua piena di sfumature, gli haiku sono saggiamente ambigui, come i libri di Henry James. Nell’haiku si vuole cogliere il momento. La totale assenza di metafore significa che ogni cosa è unica, che nulla può essere paragonato ad altro. Eppure, i contrasti abbondano. Un bellissimo haiku recita, ‘Sopra la grande campana di bronzo si è posata una farfalla’. La campana imperturbabile, duratura, e la farfalla soave, effimera: creano un contrasto senza confronto”.
Per dare autenticità, aggiungo un errore. “Tutto ciò che pubblico, per quanto appaia imperfetto, presuppone almeno dieci o quindici bozze. Non riesco a scrivere senza bozze, ma nell’ultima versione aggiungo un errore evidente, per rendere tutto spontaneo. Per me sarebbe impossibile non scrivere. So da sempre che il mio destino, come lettore o come scrittore, è connesso alla letteratura”.
Non mi importa vendere, voglio sognare. “Ammetto di essere stato conquistato dall’esempio di Emily Dickinson: scrivere senza pubblicare. Però ho commesso qualche imprudenza. In un’occasione ho chiesto ad Alfonso Reyes che senso avesse pubblicare: mi ha risposto, ‘Pubblichiamo per non passare la vita a correggere le bozze’. Penso che avesse ragione. Ogni volta che viene pubblicato un mio libro, non so cosa gli succede, non leggo nulla di ciò che è scritto intorno a lui. Non so se vende o meno. Cerco semplicemente di sognare altre cose, di scrivere un libro diverso, anche se di solito è molto simile al precedente”.
Vorrei distruggere tutto quello che ho scritto. “Come si può parlare di ‘edizione definitiva’? Come può un autore non lamentarsi di un aggettivo, di una virgola? Assurdo. Vorrei distruggere tutto ciò che ho scritto. Salverei soltanto un libro, Il libro di sabbia, e forse La cifra… il resto può essere dimenticato”.
Voglio fondare la Setta dei Lettori. “Scrittori ce ne sono molti, ma di lettori pochi, quasi nessuno. Dobbiamo fondare una Setta dei Lettori, una società segreta dei lettori”.
*In copertina: Jorge Luis Borges fotografato da Ferdinando Scianna, a Palermo, nel 1984