11 Settembre 2023

Diventare tigre, affrontare gli inferi. William Blake maestro del dottor Jekyll e di Dorian Gray

Dopo il successo de Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde (1886), Robert Louis Stevenson riceve diverse lettere da parte di spiritisti e teosofi che lo esortano a confessare il ricorso alla magia nera. Vi è anche quella recapitata da una contessa tedesca, che lo ravvisa sulle conseguenze disastrose dell’esporsi alle forze che gli avrebbero consentito di evocare il suo doppio oscuro. A quel tempo, lo scrittore aveva già patito le sofferenze derivate dalle emorragie polmonari, che tuttavia non erano riuscite a inibire l’ispirazione che da quel dolore trasse tutto il suo fermento creativo. Nel corso della degenza, infatti, Stevenson scrive un gran numero di racconti, lettere e saggi, completando il suo romanzo più celebre in soli tre giorni.

Il tema della doppiezza esistenziale era già stato affrontato nel racconto Markheim e nei drammi Deacon Brodie (1882) e Macaire (1885). Ma in Strange Case of Dr Jekyll and Mr Hyde, Stevenson riesce finalmente ad evocare quella creatura che tanto sconcertò i lettori vittoriani, ai quali due anni dopo venne somministrata un’altra grande e indigesta dose di provocazione letteraria: Il ritratto di Dorian Gray. Stando alle considerazioni di G. K. Chesterton, che nel suo L’età vittoriana nella letteratura indaga il compromesso intellettuale diffuso fra gli artisti vissuti sotto la regina Vittoria, si potrebbe ben dire come la concitazione teosofica dei lettori di Stevenson sia una delle tante forme assunte dalla soggezione morale che gravava sulla società in epoca vittoriana.

Di insuperabile efficacia è quanto tramandato a questo proposito da Oscar Wilde, che a mezzo del suo Lord Henry ci rammenta:

«Il terrore della società, che è la base della morale, e il terrore di Dio, che è il segreto delle religioni. Sono queste le due leggi che ci governano».

L’assioma wildiano sembra quasi voler giustificare a posteriori la scelta di Henry Jekyll di ingerire la pozione per emanciparsi dalla morale vittoriana, e di gettarsi a braccia aperte sui vizi e le trasgressioni che a lungo avevano alimentato il suo fuoco interiore. In altre parole, la pozione avrebbe messo fine all’età dell’innocenza del dottor Jekyll.

Dell’innocenza Stevenson sembra però non volersene occupare. L’intera vicenda si svolge in una Londra spettrale, dove nessuno si è salvato. Le voci dei personaggi sono alterate dalle vibrazioni del terrore e dello sconcerto, vibrazioni che risalgono allo stomaco dei lettori vittoriani. Per le calle della metropoli inglese, si può però avvertire la presenza di chi ha viaggiato nel tempo ed è apparso per dire ciò che Stevenson non ha detto a proposito dell’innocenza. È il fantasma di William Blake.

Circa un secolo prima, il poeta e incisore inglese aveva concepito i suoi Canti dell’innocenza e dell’esperienza (1794), di cui tra le altre cose ci importa recuperare il commento che Thomas S. Eliot formula nel saggio The sacred wood (1921), dove l’autore giudica lo spirito di Blake al contempo onesto e sgradevole.

«In un mondo troppo timoroso di essere onesto – scrive Eliot – la peculiare onestà di Blake risulta terrificante. La sua onestà cospira contro il mondo perché è sgradevole. La poesia di Blake ha ovvero la sgradevolezza della grande poesia».

Quella sgradevolezza, Stevenson l’aveva quasi interamente assegnata al signor Hyde, ma una dose minore era già presente nella persona del dottor Jekyll, che nel romanzo ci viene presentato prossimo ad emanciparsi dall’innocenza, e dalla repressione vittoriana, nonché certo di voler accettare la corruzione delle libertà. «In verità – scrive Jekyll – il mio peggior difetto era una certa irrequieta gaiezza di temperamento». E ancora, «quando raggiunsi l’età della riflessione, mi ritrovai più coinvolto in una ridesta doppiezza esistenziale».   

Henry Jekyll sembra quasi ereditare il posto occupato da William Blake nella società inglese del secolo precedente.

«Non c’era niente che distraesse Blake dai suoi interessi – scrive ancora Eliot –. Non ambizioni di genitori o mogli, non esigenze sociali, non tentazioni del successo. Non fu neppure esposto al pericolo dell’imitazione di se stesso o di un altro. Furono queste le circostanze che lo resero innocente».

Tuttavia, Jekyll non solo intende sacrificare l’agnello dell’innocenza (il “little lamb” di Blake) ma trova perfino il modo di evocare l’altro: la tigre (“the tyger”) dei canti dell’esperienza.

Curiosamente, Eliot nasce due anni dopo la pubblicazione de Lo strano caso del Dr. Jekyll e Mr. Hyde (1888), e due anni prima dell’uscita de Il ritratto di Dorian Gray di Wilde, l’altro grande emancipato dell’età vittoriana. Come Jekyll, Gray pose fine alla sua innocenza stipulando il patto col diavolo. E come Stevenson, anche Wilde – seppur con più gravi conseguenze – scandalizzò l’Inghilterra vittoriana, che non riusciva a far a meno di leggere nei vizi di Hyde e di Gray, le due creature faustiane, la forma assunta dalle pulsioni sessuali represse. A questo proposito, Stevenson ebbe a dire:

«La gente è così piena di stupidità e lussuria repressa che non riesce a pensare ad altro che al sesso».

Stevenson e Wilde hanno intrattenuto un rapporto diversamente tormentato con la propria innocenza. Per il primo è stata l’occasione di lasciarsi possedere dalle storie che nei giorni di immobilità – fin da giovane soffrì di gravi problemi di salute – ne ispirarono l’immaginazione e lo convinsero a voler diventare uno scrittore. Per il secondo, l’innocenza ha rappresentato un peso da cui liberarsi, al fine di poter esibire la propria brillantezza e risolvere la vulnerabilità di cui soffrivano certi intelletti in età vittoriana, inibiti dalla morale e isolati rispetto al potere esclusivo degli artisti emancipati di godere della vita come fosse un’opera d’arte. Wilde ha sacrificato l’agnello per diventare la tigre che bramava essere, anche al costo di perdere quella stessa libertà agognata da Henry Jekyll, altro intelletto tenuto all’oscuro dai piaceri degli eccessi e dell’estetica.

Ecco dunque perché la perdita dell’innocenza, il patto col diavolo, la libertà perduta – e poi riconquistata – non possono che trovare la miglior chiave di lettura in William Blake, illustratore dell’Inferno di Dante e autore oltre che dei Canti dell’innocenza e dell’esperienza anche de Il matrimonio del cielo e dell’inferno, dove gli inferi divengono il luogo in cui la doppia vocazione, creatrice e distruttrice, esalta l’intelletto creativo e lo scalpitante spirito libertario degli artisti.

«Reprimono il desiderio solo quelli che lo hanno tanto debole da poterlo reprimere. L’elemento repressivo ne usurpa allora il posto e fa da guida a chi non sa volere. Così frenato, il desiderio si fa gradualmente passivo fino a non più essere che ombra di sé».

Come nella Londra di Stevenson e Wilde (dove l’autore dublinese ha scontato la prigionia), nell’inferno di Blake «le prigioni sono costruite con le pietre della legge, i bordelli con i mattoni della religione». Gli artisti che trovano il coraggio di agire, ingerendo la pozione e accordandosi col diavolo, possono finalmente liberarsi dall’impotenza degli innocenti: «Chi desidera ma non agisce, alleva pestilenza». Divenire la tigre che preda l’esperienza: «Le tigri dell’ira sono più sagge dei cavalli dell’istruzione». Ed essere così finalmente liberi: «La strada dell’eccesso, porta al palazzo della saggezza».

Tuttavia, le sorti di Jekyll e Gray concorrono ad avallare quanto sostenuto da Chesterton a proposito degli esteti che scelgono di ingerire il siero contro la vulnerabilità di cui soffrono gli innocenti.

«È inutile che l’esteta si ostini a rivendicare l’isolata individualità dell’artista ben distinta dall’atteggiamento che egli assume nei confronti della propria epoca. Quell’atteggiamento è la sua individualità. Gli uomini non sono mai individui se sono soli».

Jekyll e Grey mettono fine alla propria esperienza di libertà. Il suicidio diviene l’ultimo privilegio concesso dal creatore dell’agnello e della tigre, che ha permesso loro di liberarsi dal peso schiacciante della spudorata coscienza di cui si erano lasciati possedere. Come la tigre di Blake, Jekyll e Grey concorrono a completare il ritratto della natura umana: privo di speculazioni morali o di retoriche autoreferenziali così per come l’ha concepito un fine ritrattista come Oscar Wilde.

«Un artista dovrebbe creare cose belle senza metterci niente della sua vita. Viviamo in un’epoca in cui gli uomini considerano l’arte come una forma di autobiografia. Abbiamo perso il senso astratto della bellezza».

Enrico Picone

Gruppo MAGOG