Secondo William Blake l’immaginazione ci consente di percepire la vita oltre la fisicità in quanto facoltà indipendente, o meglio immortale. L’occhio interno si apre nella sfera immaginativa, dove ha luogo la creazione. “Il mondo dell’immaginazione è il mondo dell’eternità, che è la vera realtà”, scrive il poeta. È facoltà indipendente e ci permea mentre siamo nel corpo, abitando un luogo/non luogo, la cui percezione, o intuizione, necessita della quarta dimensione immaginativa, e dunque non è né visibile, né tracciabile in altro modo.
La visionarietà è un’incursione profonda nel reale, in una lucidità impossibile con altri canoni, e una determinazione estrema a comprendere l’ubicazione del male, legata all’incomprensione interiore, e dunque fatale perdita di comprensione del mondo. Prima della creazione dell’uomo (e quindi dopo la morte) non c’è il caos, ma l’eternità. Questa dichiarazione di guerra all’uomo positivista, nell’evidenza delle troppe mancate risposte, contiene il punto più interessante nella ricerca del luogo della risposta, l’altrove dimensionale, più che di un ragionamento sulla risposta.
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Golgonooza, la città della creazione di Blake, cui tende ogni speranza, nel suo essere salvezza, non ha ubicazione, nel volgersi e superare tutti i punti cardinali, ma solo possibilità intuitiva. Vengono in mente le strutture fatiscenti abbondate nel loro orrido scheletro di fronte a qualche luogo di bellezza stupefacente. Davanti ai cancelli di Golgonooza, della libertà visionaria, stanno a guardia i temibili giganti biblici Og e Anak, che vigilano imperterriti per chiuderci all’eterno.
Golgonooza è la città mai finita dell’infinito, che opera nell’arte e creazione, ed è dentro ciascuno di noi.
Babilonia è invece la città della repressione e dell’impero, che annienta Golgonooza come sconfitta dell’anima (che è murata nei suoi mattoni), in una resa dannata senza la potenza dell’ispirazione nell’esperienza, condanna alla morte eterna: “Le mura di Babilonia sono anime degli uomini, le sue porte i gemiti delle Nazioni, le sue Torri le miserie di famiglie un tempo felici, e le sue strade sono lastricate di distruzione, le sue case sono costruite con la Morte, i suoi palazzi con l’inferno e la tomba, le sue sinagoghe con i tormenti di disperazione sempre più atroce, definita e levigata con crudele sapienza”. La sfida si muove nella spiritualità.
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A Londra, secondo Blake, possiamo sia trovare lo spirito, nascosto tra i vicoli e le case, indescrivibile a qualsiasi mappa, in una città possibile, verissima e immaginata, che nasconde Golgonooza, ma allo stesso modo, se perdiamo questa vista, Londra, cieca e vecchia, si trasformerà nella mendicante più infima a cercare l’impossibile conforto sulle strade di Babilonia. Gerusalemme, quarta e ultima città, è il luogo interiore in cui potremo vivere, quando troveremo il mondo che abita l’eternità: “Nella immensa eternità ogni forma emana la propria unica luce e la forma è visione divina e la luce il suo abito. Gerusalemme si trova in ciascuno di noi: un tabernacolo del perdono reciproco, vesti maschili e femminili. E Gerusalemme è chiamata libertà tra i bambini di Albione”.
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Queste città sono dentro ogni uomo, sono esse stesse uomini, soltanto noi le possiamo creare, e vedere e ubicarle dove l’impossibile si fa vero. Per accedere a Golgonooza l’uomo deve raggiungere un certo stato di percezione, impossibile a livello di superficie o competenza strumentale. Il fatto di passare dall’innocenza, all’esperienza, alla possibile visione (anche come sogno) e all’eternità, non è un percorso necessariamente temporale, è soprattutto una spirale interiore.
Ulro, il livello più basso dell’uomo caduto, abita la terra come un morto vivente, è il regno dello spettro, lo spettro della razionalità senz’anima. È il mondo dei falsi miti, della superficialità e della violenza, laddove ogni priorità è confusa e ogni salvezza perduta. Qui governa Urizen e abitiamo Babilonia.
Tramite la Generazione, uno stadio poco superiore, ossia un’esperienza che inizia a comprendere e a completarsi con gesto d’amore, e nel perdono, si apre la strada della creazione, e si può raggiungere Beulah.
Beulah è il luogo dove “i contrari sono ugualmente veri”, spiega Blake, la Gerusalemme finalmente senza conflitti, in cui tutto si compone, è “un tenero universo lunare” le cui braccia tendono all’infinito. La frammentazione dell’incomprensione si supera, e da essa sono generati anche i sogni, la parte migliore di noi, slegata all’esperienza e aperta sulla luce. È anche la condizione in cui si comincia a concepire il poetico impossessandosi della dimensione del sogno.
Eden, l’ultimo stadio umano, la realizzazione divina, corrisponde a Golgonooza, qui compiamo la “lacerazione del velo dove dimorano i morti”, non come fallace costruzione esterna nel tempo e nel mondo finito, ma come illuminazione dell’oscurità.
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Ulro e Generazione nascono dal fallimento della condizione creativa inferiore: quando non riusciamo a credere in Beulah, per il dubbio, la crisi, la disperazione, e non riusciamo a risvegliarci dalla morte. Il finito non è più un’opportunità ma una gabbia, e costruiamo noi stessi la tomba di ogni nostra salvezza. Ma oltre che quattro stadi per accedere alla visione, questi sono anche quattro stati d’animo, esattamente come le quattro città.
Lo stesso discorso vale per i quattro Zoa: Tharmas, Luvah, Urizen e Urthona, che rappresentano l’energia istintiva, le emozioni, la ragione e l’immaginazione, e quindi, ancora una volta, il nostro mondo interiore. E insieme il nostro corpo che lo contiene: il cuore, i genitali, la testa e le gambe.
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Tutta la poesia di Blake rappresenta una lotta interiore, il mondo esterno viene a coincidere con la nostra capacità di abitarlo, abitando noi stessi. Los, emanazione del regno caduto di Urthona, l’immaginazione, e figlio dello Spettro, il raziocinio senz’anima (che nasce a sua volta da Tharmas, ossia l’istinto primordiale in Blake), incontra enormi difficoltà per conquistare la spiritualità, e compie sforzi incessanti per mantenere in vita Golgonooza, di cui è il protettore, e continuamente la sua struttura avanza e crolla, rabbuia e si illumina di nuovo, emerge e affonda. Proprio come noi.
Ogni contributo dato nella storia dalla creazione artistica, dal pensiero creativo, e da qualsiasi gesto di bene, serve alla realizzazione. Ogni tassello rafforza la spinta per aprire i cancelli, e ogni repressione, cedimento, rinuncia, li fa richiudere.
Golgonooza conserva tutto il bene, nemmeno una goccia ne è andata sprecata, ma in un istante può di nuovo scomparire, ed è talmente legata alla nostra intuizione che Blake non la disegna mai, come sarebbe impossibile disegnare l’inconscio o l’Es.
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Secondo Blake Urizen, la ragione condotta senza anima, fa domande stupide, perché non hanno risposta: quale sarebbe dunque la domanda intelligente, o meglio, possibile? Non è facile intuirlo, ma Blake ci offre la risposta, più vicina al mundus imaginalis di Henry Corbin (da non confondere con l’irreale, o l’utopico) che alle categorie psichiche moderne e da noi interiorizzate.
Il mundus imaginalis ha un’estensione, come insegna la tradizione teosofica, che è oltre la sfera spaziale, in cui il termine dove perde d’importanza, mentre tutto si concentra nella percezione, nell’intuizione del luogo, nella relazione tra il visibile e l’invisibile, che non è irreale.
Golgonooza è stata sempre equiparata a un mandala, che secondo Carl Gustav Jung rappresenta le trasformazioni psichiche, la guarigione dal caos, da lui definito “formazione, evoluzione della mente eterna, infinita creazione, ossia il Sé nella sua interezza”. Nonché alla realizzazione dell’archetipo dell’immaginazione. Allo stesso modo, Babilonia potrebbe rappresentare l’archetipo junghiano del leader, Londra l’esploratore e Gerusalemme il saggio.
In Golgonooza si evidenzia anche, tramite l’esercizio di immaginazione, la fluidificazione tra conscio e inconscio bramata e mai conquistata da Sigmund Freud.
Tutte le città blakiane, gli stati umani, gli Zoa, stanno negli stessi luoghi ossessivamente studiati dai fondatori della moderna psicanalisi e psicologia del profondo. Og e Anak somigliano molto ai blocchi che per Freud sono le nevrosi che ci impediscono di cogliere l’essenza delle cose. Urizen rispecchia il Super Io: la morte di ogni speranza di infinito e di felicità, il rigore senza cuore, la ragione senza anima, e l’Es, gli impulsi primordiali, potrebbero corrispondere a Tharmas, che può generare vita ma non illuminata, se non si accompagna agli altri Zoa.
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Ma la più diffusa concezione interiore di oggi, ha perso alcuni elementi fondamentali in Blake. Per Blake, la salvezza è insita nel profondo magma primordiale, che contiene appunto l’infinito piuttosto che il caos, anzi, di più, è da esso generata, esattamente come la razionalità. Se nell’inconscio Freud intravedeva solo minacce, Blake ne indicò il luogo/non luogo da cui parte la rigenerazione e a cui ritorna nella sua compiutezza. Dov’è finita nella psicologia moderna la salvezza?
Nella profondità Freud ci è andato, per tentare di illuminarlo, ma non ha mai creduto nella salvezza, bensì nella correzione. È la razionalità a dover dominare il caos, e interpretare il luogo ancora più raffinato di Beulah: il sogno.
Freud ha nella sua genialità creato una delle più potenti ossessioni della modernità: la guarigione, identificandola in regole da ripristinare ogni volta ci fosse una pulsione, o una visione, deviante, e insopportabile alla vita regolata della morale borghese. Per Jung l’ombra deve affiorare, deve essere portata alla luce, lui sembra restare in superficie, illuminando il fondo, senza però avere mai la certezza di cosa possa essere rimasto nascosto, e rinnegando a sua volta la salvezza, ritenendo inevitabile riconoscerci negli schemi. Lo schema che piana ogni sospetto e ingloba ogni mancanza.
La condanna è maggiore di quanto possa sembrare: non sembra che la salvezza siamo soltanto destinati a non trovarla, se non magari dopo la morte, ma che proprio non esista.
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Blake invece va nel profondo e succhia la luce, non vuole eliminare l’ombra (in fondo lo stesso Satana può morire solo nel mondo caduto, così come ci è nato), ma intende illuminarla restando nello stesso luogo. L’ombra è lo specchio della luce. Blake credeva nella salvezza, intuizione completamente scomparsa, così come nel perdono. Blake amava Gesù perché ha infranto i comandamenti, e perché non credeva nei precetti morali, ma nel perdono.
L’eternità si conquista illuminando.
Se per Freud il sogno, o il suo non luogo, cura, nascondendo intenzionalmente il proprio significato, e per Jung svela tra rappresentazione e simboli, per Blake salva.
Se la domanda è come sconfiggere il dolore, per Blake il dolore non si sconfigge, ma si illumina nel dramma eterno della luce.
Nel sogno è custodita l’eternità, laddove il tempo, il tempo che scandisce i nostri limiti, non significa niente, o meglio, disperdendosi significa tutto, senza alcun problema per la ragione. Ma la cesura, il cancello, la porta che si chiude, ad ogni risveglio, crea l’ombra e la mancata risposta. Siamo eterni nel sogno, ma siamo consapevoli del sogno, per la necessità della ragione, solo nella razionalità della veglia. Questo per Blake è l’errore, il macigno.
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A Golgonooza si entra attraverso la Porta di Luban (la vagina), e nel centro della città ci sono i telai dorati delle donne e le fornaci del maschio, i riferimenti sessuali sono chiari, e indicano la nascita, ma pur se da un atto fisico, la nascita è quella di un nuovo mondo dell’anima. La spinta creativa nasce dall’energia sessuale, solo se vissuta in felicità e libertà. Los chiede di abbandonarsi, essendo lui stesso in trasformazione, alla ricerca, valicando tutti i canoni razionali, e ogni tipo di repressione per ritrovare infine nel mondo interiore l’eternità perduta, e il corpo dell’Universo.
“Le pietre di Golgonooza rappresentano la pietà, e i mattoni ben lavorati gli affetti, smaltati con amore e gentilezza, e le piastrelle scolpite in oro sono il lavoro di mani misericordiose: le travi e i travetti sono il perdono. La malta e il cemento sono le lacrime dell’onestà: i chiodi e le viti e i pilastri di ferro sono lusinghe ben costruite, e parole ben congegnate, fissate con decisione, mai dimenticate. Consolante è sempre il ricordo: l’umiltà dei pavimenti. I soffitti sono la devozione: il ringraziamento dei focolari”.
Le strade, le costruzioni, le persone che si incrociano sono le idee, i pensieri, i sentimenti. Non dovremmo chiederci dov’è Golgonooza, o cos’è. Nemmeno chi è, o anche quando è: la domanda è impossibile, perché l’immortalità contiene ogni domanda e risposta, e sono quindi categorie a lei estranee.
Questo abbandono consente il viaggio nella vagina al contrario, per ritrovare l’eternità. L’abbandono possibile è suggerito dai materiali e dai pilastri che sorreggono la città: l’amore e la gentilezza, il perdono e la pazienza, le parole “ben congegnate”, ossia nel loro potere di tramite alla visione, offuscata dai demoni. Gli elementi che difendono la città utilizzano tutta l’energia del sole, la luce salvifica.
Ci sono a guardia 64000 ninfe, lo stesso numero di fate, geni e gnomi. Le 4 porte di accesso sono controllate da tori, leoni, ruote e cherubini, e le sue periferie rappresentano le paure che ci perdono. Ci sono i terremoti e i ghiacci infernali che generano l’oscuro, le nebbie intorno alle vie d’accesso, che somigliano alla nostra invincibile ansia, che in Blake poteva essere vinta riconoscendola come lo stato d’animo cieco di chi vaga nell’oscuro, e non come un male necessario alla natura umana.
Le pulsioni sessuali represse portano l’uomo a proiettarsi all’esterno, a sublimare in produttività, secondo Freud, rendendo l’uomo giorno dopo giorno sempre più feroce e distruttivo, traducendolo in un impulso di morte che non permette la realizzazione del centro in Golgonooza. Anche secondo Blake l’infelicità è legata alla repressione sessuale, la guerra stessa, per lui, ne è il più evidente frutto, e soprattutto, essa impedisce l’accesso alla quarta dimensione.
L’interpretazione è simile ma ancora una volta c’è una differenza importante: la possibilità di salvezza, in Blake, una schiavitù senza speranza per Freud.
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Il problema di domande e risposte resta, è sempre più esasperato man mano che si evidenzia che niente basta, di umane droghe e illusioni, mentre si potenzia sempre più la richiesta di abbandono.
Guardandosi intorno, osservando con sguardo diverso, sembrerebbe emergere dappertutto. La fuga dalla razionalità, il cercare rimedio all’oscuro in luoghi sempre più astrusi che sembra una condanna, parte forse dalla premessa più sbagliata, dall’inganno più profondo, che l’uomo sia dannato, sia egli stesso il suo male di vivere, a lui connaturato, da cui i metodi sconnessi.
Noi non fuggiamo da, ma fuggiamo per compiere a ritroso quel viaggio.
Il luogo dell’ombra è anche il luogo delle visioni: le pulsioni incontrollabili che ci rendono feroci, secondo Freud, si trasformano in amore secondo Blake.
I due si contraddicono benché operino sullo stesso piano: all’esterno non c’è niente, se non quello che decidiamo di costruire o distruggere noi, tutto è interno, insieme alla risposta, o alla sua mancanza.
Francesca Ricchi