09 Aprile 2018

Bisogna guardare dentro il binocolo delle stimmate. Come ha fatto (forse) Tommaso. Da che pulpito vi facciamo la predica…

La domenica parlano – con ispirazione – i preti. Il lunedì, da incosciente, metto il cranio dentro la liturgia domenicale. Screziando, da dis-graziato, i testi. La liturgia la trovate, per comodità, qui. Io uso il Nuovo Testamento interlineare, bisciando tra italiano, greco e latino. Pigliate questi come appunti sul margine sfinito, come punti d’appoggio – o di rovina – sulla roccia.

Il Risorto arriva “la sera” e “il primo giorno della settimana”. Il primo giorno dei sette: una nuova creazione accade. La sera: il Risorto non avviene ai carnali nel fittio della luce, nella folgore meridiana – come Apollo. Accade nella discrezione, con intimità, ai discepoli, codardi (“per paura dei Giudei”). Non dobbiamo avere paura della nostra paura.

Il Risorto prima annuncia la pace (Pace=Irene). Poi “mostrò loro le mani e il fianco”. Le mani forate dai chiodi, il fianco sfiancato dalla lancia. Il Risorto si mostra attraverso segni ‘carnali’. Del Risorto è lode la catabasi nel dolore (d’altronde, “questi è colui che è venuto con acqua e sangue” dice la Prima lettera di Giovanni, 5, 6; tra sangue e acqua non c’è differenza, versare il sangue è dissetare la fede). Le stimmate sono un binocolo: dobbiamo guardare attraverso di esse per capire. La ferita nel costato è una vertigine che non indugia nei paradisi. La vicenda di Tommaso (Gv 24 ss.) non è avvincente dal punto di vista morale, ma sostanziale. Tommaso chiede di intingere il dito “nel segno dei chiodi” e di infilare “la mia mano nel suo fianco”. Una richiesta corretta: occorre pretendere l’impatto carnale con Dio. Se ai discepoli, in assenza di Tommaso, il Risorto fa calare la neve dello Spirito santo che permette di “rimettere i peccati” (che significa: il peccato esiste!), a Tommaso, “otto giorni dopo” (cioè: dopo i sette giorni del creato rinnovato dal Risorto), è concesso giocare con le dita nella carne rinnovata dalla morte. Giovanni non specifica se Tommaso abbia davvero infilato le dita negli spazi vuoti di Dio, negli interstizi, nel foro – buco nero, antro di gioia – della mano. Piuttosto: cos’è la ‘vista’ a cui allude il Risorto? Cosa s’intende per ‘credere’? Che sguardo – o che cecità – è indispensabile per vedere il Risorto? Attraverso le fessure, le fratture della carne – fori nelle mani e nel fianco – Dio focalizza meglio la sua creatura, gli crede e gli dà credito, la infuoca. Come si sa, Gesù si fa ‘rappresentare’ da Paolo, un giudeo che ha creduto senza vedere – che ha visto Gesù come abbaglio e bagliore.

Gli Atti degli apostoli insegnano (4, 32-35) che il vuoto mostrato da Gesù – mani, costato – è la misura di vita dei credenti, ormai “la moltitudine”. I credenti nel Risorto vivono svuotandosi di sé, “mettendo tutto in comune”, tutto “veniva poi distribuito ai singoli secondo il bisogno di ciascuno”. In realtà, il Risorto arde ogni bisogno: dalla Resurrezione non c’è altro bisogno che Lui. La ‘proprietà privata’ non è abolita: privarsi del proprio significa prendere pieno possesso, piena proprietà di sé. Solo la rinuncia al proprio ci porta a noi stessi. Ma questa disciplina sarebbe mero mecenatismo, mera elemosina di sé se non ci fosse il sigillo – la stimmate simile a un marchio di autenticità – del Risorto. Liberarsi del proprio è il primo gesto – prima di liberarsi della vita, morendo a questa vita. Conversione è resurrezione.

Giovanni avverte che “Gesù, in presenza dei suoi discepoli” – solo dei discepoli, i preferiti – “fece molti altri segni, che non sono stati scritti in questo libro”. Questo spudorato pudore – credere senza vedere, senza sapere: i Vangeli sono l’ego d’unghia di Dio – testimonia che gli evangelisti preferiscono narrare la vicenda terrena del Figlio; i miracoli operati dal Risorto sono censiti nell’ambiguità. L’eterno è guardare senza sfida la stimmate. (d.b.)

 

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