19 Novembre 2020

Francesco Biamonti: uno scrittore geniale, da leggere tra le candele

Ne avevo fatto una specie di talismano. Centellinavo le frasi, come fosse un parziale libro d’ore. Quei romanzi, piuttosto, liberi, nella notte, mi sembravano candele. La scrittura di Francesco Biamonti è proprio così: redatta nel fuoco. Si consuma, consumandoti. I suoi libri, cioè, sono scritti per sparire, per spianare l’attenzione, per passare di orecchio in orecchio, in sonorità terrosa, tersa. Riguardano, in effetti, l’esattezza dei luoghi che racconta Biamonti: la Liguria di colle, dove le ombre sono pietrificate e sfuggenti, e il mare, laggiù, fibbia blu, serratura che manda ad altri mondi, è una visione impari, una condanna, lama di speranza e di ghigliottina. Gli ulivi, poi, sono l’etimo della rassegnazione di anime straziate, i nostri desideri contorti, nel legno.

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I liguri parlano poco – alludono. Il sole di ponente dona pallide allucinazioni. Il loro viso, sbrecciato tra sale e stelle, mappato di rughe, racconta di esistenze senza giudizio. Biamonti pareva carico di una colpa atavica: un Marlow ligure, ecco. Biamonti è il doppio di Joseph Conrad, l’altro, quello che quel giorno, a Marsiglia, poco più che ventenne, risorto dopo il tentato suicidio, ha preferito la terra al mare. Sarebbe diventato così, Conrad: uno scrittore lento, una lince, che procede per omissioni, per escavazioni.

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Mi domando perché Biamonti non sia diventato un autentico classico. Un Gesualdo Bufalino. Non è interrogazione peregrina: i due, diversamente schivi, sono quasi coscritti (Bufalino del 1920; Biamonti del ’28). I due esordiscono tardi, quasi in concomitanza: Diceria dell’untore nel 1981, sotto gli auspici di Sciascia; L’angelo di Avrigue nel 1983, con la ‘quarta’ di Italo Calvino. Eppure, Biamonti – la cui scrittura è il negativo di quella di Bufalino, l’altro lato della lapidazione – è ignifugo alla fama, perfino postuma. “Biamonti nulla fa per accattivarsi le simpatie di chi si accosta alla sua opera: il lettore deve guadagnarsi la bellezza contenuta nei suoi libri, che spesso hanno trame sfuggenti, dialoghi interrotti, situazioni apparentemente irrisolte la cui soluzione richiede multiple letture”, scrive Carlo Boccadoro, in una Prefazione – altrimenti banale – al volume Einaudi che in uno raccoglie tre libri di Biamonti, L’angelo di Avrigue, Vento largo, Attesa sul mare (manca Le parole, la notte, edito a parte).

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“Aveva sentito di gente che aveva vissuto cose tremende, cose gravi, se non la vita intera, come dentro un sogno; e si domandava come succedeva, perché forse era capitata anche a lui una cosa simile. Era lampescuro, l’ora in cui l’uliveto, sulle terrazze che si spegnevano, si sollevava fra le stelle e cambiava di fulgore: da vitale e familiare a cosmico ed estraneo”. Biamonti è un uomo che sconfina nell’al di là della sconfitta: va letto nell’ora in cui i volti trasfigurano in belve, in cui una casa diventa canoa.

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A Biamonti piaceva leggere René Char – “Ricerca di una tensione e d’un’innocenza originale” – e del suo talento, raffinato nella luce tentacolare di Liguria, tutta vertigini, disse, “Amerei scrivere un giallo senza fatti, per mutamenti interni, oppure un libro di cieli. Nella vita c’è sempre una mutilazione”. Nei luoghi che narra – e che ho frequentato per destino, per stare nella primizia – si va a perdersi, cioè per fare della vita un monastero, per murarsi in ricordi diagonali, e rincorrere una luce, appena intravista, poco dopo Mentone, pare una poiana. Che Biamonti sia per pochi – scrittore da cercare con le torce, da intuire sollevando le pietre, per stanare gli occhi – è la sua gloria. (d.b.)

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Per molti giorni – le nuvole notturne erano scomparse – restò nell’uliveto. Gli ulivi avevano una mezza annata e il primo vento un po’ forte li avrebbe setacciati: bisognava pulire e pianeggiare l’area di caduta. Era un lavoro fatto con la zappa, che spezzava le braccia.

Sopra e sotto il suo uliveto la terra arida era attraversata da luccichii di pietre conchillifere. Com’era Aúrno adesso, com’era diventato! Già appartenuto alla «magnifica comunità dei nove luoghi», non era piú che un ammucchiarsi di sterili terrazze.

Un pomeriggio di stanchezza, sedette su una scaletta a riposare. Pensava a Sabèl, mentre riposava. La rivedeva sopra, sui sentieri polverosi, la rivedeva mentre andava a guardare il mare, che laggiú si dorava dopo tanto sole. Raffiche di luce opalescente, staccatesi dal largo, calcinavano il sentiero.

L’inverno s’avviava nel lungo sereno, ed era un inverno mite; le farfalle e gli altri insetti, aggrappati alla vita, trascorrevano la notte sul lato occidentale dei cespugli, sui rami che avevano raccolto il sole della sera. Le mimose gonfiavano i glomeruli, stavano per fiorire.

Ma un giorno, dopo lunghe crepe di splendore, dalle nubi venute dal mare scese la neve e ghiacciò sugli alberi investiti da un vento gelido. Cadevano i fiori e si spaccavano le cortecce. Varí passò a scuotere le mimose per liberarle dal manto nevoso, a rialzare quelle che s’erano abbattute. Ma fu inutile. Ben presto divennero un groviglio di fronde arse.

Non era mai venuto, a memoria d’uomo, un gelo simile. Gli restò solo la voglia di guardare e piangere: s’insediava nel mimoseto, per le terrazze, un’oscurità minerale, una rigidità ostile. Sembrava fosse passato il fuoco, a carbonizzare.

Francesco Biamonti

*Il testo è tratto da “Vento largo”, ora in: Francesco Biamonti, “L’angelo di Avrigue, Vento largo, Attesa sul mare”, Einaudi, 2020

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