La Sindrome di Gramsci è il primo di una serie di monologhi, fra i quali La Maladie de la Chair (1995), La Langue d’Anna (1998) e La Maladie du Sens (2001). Si tratta di un testo che sembra pensato per il teatro e su cui in effetti già più di un attore famoso si è cimentato in Francia. II protagonista, di cui non è detto il nome, ma che appare come una proiezione dell’Autore, parla in prima persona e si rivolge a una chère amie, con la quale intrattiene un rapporto amoroso, usando il pronome vous, secondo le regole desuete del linguaggio galante della tradizione francese. Tale espediente serve qui a segnare una distanza che appare indefinita, sottolineando la dimensione di incomunicabilità estraniante del linguaggio, e a rendere improbabile la possibilità di risolvere l’angoscia attraverso il rapporto con l’Altro, che qui sfugge anche alla confidenza più piena del tu. Fin dalla prima pagina viene posto così il peso drammatico dell’assenza, anche se l’appello all’amica nell’ultima parte del testo si fa concitato, disponibile. Come sempre in Bernard Noël, il dolore del vuoto si scava nel cuore stesso della presenza. Ma il senso più vero dell’assenza anche qui è tutto interno. Tocca le radici dell’essere individuale e della coscienza: è l’assenza a se stessi, che si manifesterà in maniera lancinante come improvvisa perdita del linguaggio.
Apparentemente si tratta solo di una casuale amnesia, di cui non metterebbe conto parlare: una di quelle cui siamo tutti soggetti ogni giorno. Chiunque altro la archivierebbe come trou de memoire: per il protagonista è invece una spia inquietante, la nascita di undubbio che lo rode eminaccia di distruggerlo. La chère amie viene da lui chiamata a essere il testimone che ne certifica la voce, in quanto “il silenzio dell‘altro è lo specchio della nostra parola” (non si udrà mai, nemmeno indirettamente, la sua risposta).
L’avvio della narrazione è dato dunque da un episodio minimo, che viene di continuo evocato e ripreso, ma è ben più di un leit-motif narrativo: attraverso le pagine si ripete una ricostruzioneaccanita, infaticabile, per cercare di riappropriarsi dell’attimo in cui, del tutto imprevisto, nel cuore stesso della pienezza, si è spalancato, orrendo, il vuoto. Mentre il protagonista infatti sta conversando piacevolmente con l’amico P. – nella realtà lo scultore Jean-Paul Philippe – nella sua casa di campagna vicino a Siena, una sera d’inverno, accanto a un bel fuoco, e insieme sorseggiano una bottiglia di squisito Brunello di Montalcino, ecco che all‘improvviso non gli riesce più di ricordare un nome che non solo gli è del tutto familiare, ma è di importanza centrale nella sua vita intellettuale, quello di Antonio Gramsci. Quel Gramsci che “è morto in prigione al termine di lunghi anni di detenzione impostigli dalregime fascista con lo scopo dichiarato di impedirgli di pensare...“ Eppure quel nome “fraterno” avrebbe dovuto salirgli alle labbra “spontaneo come il suo stesso nome “.
Da questo episodio solo apparentemente occasionale nasce una riflessione drammaticamente intensa sul linguaggio, tema sempre centrale all’opera di Noël. La perdita del nome diventa qui spia simbolica di una possibile perdita del senso, perennemente in agguato, la sindrome di una malattia della mente che l’Autore assimila alla degenerazione del corpo, o di una pulsione di morte insita nel linguaggio stesso. Inizia così la ricerca di qualcosa che possa spiegare il perchè di quanto è accaduto, o piuttosto portare alla coscienza l’istante preciso in cui è accaduto, riscattandolo attraverso la memoria e riacquistando cosi dignità di agente al posto di una passività agita.
Solo un’acquisizione di consapevolezza potrà mitigare l’angoscia, riportare l’ignoto minaccioso nei limiti rassicuranti dell’io. Ma inutilmente la memoria incalza la perdita di se stessa, in un inseguimento che è fuga, e proprio in questo sfuggire paradossale della memoria alla coscienza della memoria, tartaruga e Achille, sta l’angoscia più grande del protagonista, che lo fa sentire del tutto indifeso, benchè non sia mai disposto adarrendersi. La narrazione assume quindi sulla pagina una forma ossessiva, un andamento spiraliforme, che continuamente ritorna su se stesso, ma solo per tentare di andare sempre più in profondità, come un succhiello che si sforzi paradossalmente di perforare il vuoto.
Questo conferisce al testo una grandiosità visionaria, benchè esso voglia svilupparsi, direi secondo un modello socratico, in una serie di interrogazioni di incalzante rigore. La perdita del nome di Gramsci induce il protagonista a scoprirsi “un illetterato… rispetto alla propria attività mentale”.
Questa infatti gli si sottrae, così come gli si sottrae anche una coscienza del corpo — altro tema centrale nell’opera di Noël fin dal suo primo libro, il poemetto Extraits du corps, da me tradotto in Italia per Lo Specchio Mondatori nel 2001. II corporale genera il mentale, il corpo è “libro fisico, libro incarnato, in cui sono inscritte le lezioni della storia che sta al di sotto, quella stessa della vita.” Una frase è infatti simile, dice il protagonista, “a quei filamenti di sperma che i pesci lasciano ondeggiare nel’acqua”. E “la circolazione delle parole” è “identica dopo tutto a quella del sangue”.
II corpo è il ponte fra lingua e Lingua. Ora questo ponte si è spezzato: “Immaginate qualche cosa di orribile e di imprevedibile, immaginate qualcosa peggio che imprevedibile, una cosa insensata”: questo gouffre mentale è paragonato da Noël, con sgomento, “a una specie di paralisi”. Perchè quello che il protagonista teme soprattutto è che la perdita di una parola sia solo l’inizio di una distruzione impercettibile di tutto l’insieme del linguaggio: qualcosa di inarrestabile, che potrebbe portare a una disintegrazione totale.
“Io chiamo ‘sindrome di Gramsci’ […] un cratere implosivo: è una piaga divorante, una piaga in cui tutto il linguaggio si precipita a poco a poco, una piaga bianca, che assorbe tutta la sostanza che, normalmente, la lingua trasforma e ristabilisce senza sosta”. La possibilità stessa di una simile malattia insinua un dubbio definitivo nel cuore del sillogismo cartesiano e lo invalida, perchè, se il je pense può essere sempre identico a se stesso, il je suis si rivela inseparabile dalla sua corporalità: occorre distinguere, dice Noël , tra il je suis di un malato e il je suis di un uomo in salute.
Da questo consegue dunque per inciso che la conoscenza pura è solo illusione, ed è interessante osservare come questa meditazione di Bernard Noël approdi alla stessa conclusione di due noti psicoanalisti, Mauro Mancia e Luigi Longhin, nel loro studio Psicoanalisi e filosofia: il pensiero di Kant e la psicoanalisi attuale (Bollati Boringhieri 2001), in cui si afferma che la conoscenza può essere solo emozionale. Per Noël la mente è corporale, un “estratto del corpo”: contro questo fatto inoppugnabile cozza il pensiero e non può che correre verso il nulla. Nemmeno una successiva “guarigione”, quando il nome dimenticato verrà recuperato, deve trarre in inganno, ci avverte Noël, perchè la sparizione del sintomo dovrà essere intesa come meramente episodica.
Infatti, ad affacciarsi, attraverso quel vuoto improvviso, è stata la morte stessa, che “è certo là ben prima di annunciarsi“, non vista, all’interno di noi. La morte, che è innanzitutto azzeramento del senso e attende senza scampo di fagocitarci in un azzeramento senza ritorno. Ma, muovendo dall’analisi del “cancro della lingua”, che invade e distrugge le cellule per un’alterazione incontrollabile in cui il linguaggio si autocancella, ecco nel monologo di Noël aprirsi la strada un’ipotesi più drammatica: la cancellazione del linguaggio potrebbe essere addirittura il frutto di una “manipolazione” occulta che in questo modo tende a privarci di noi stessi – tema questo che l’Autore ha sviluppato più ampiamente nel saggio La Castration mentale, studiando in particolare il rapporto fra immagine e pensiero. Poichè “il linguaggio circola dall’interno verso l’esterno e vice-versa: può quindi diventare l’agente segreto per eccellenza, il traditore che facciamo entrare in casa nostra senza sospetto”.
II linguaggio, dall’esterno, può ritornare a noi pollué, contaminato da qualcosa che lo inghiotte. Lo schermo acquoso dell’immagine televisiva che incolla a sè gli occhi dei vicini di casa quando il protagonista li sorprende entrando senza bussare è, per Bernard Noël, mortifero, anemizzante. Quell’acqua grigia potrebbe contenere una sorta di virus che per invisibile e inconsapevole contagio forse si è trasmesso anche al protagonista. Forse, si chiede Noël, quell’iniziale perdita del linguaggio è solo il primo effetto di un progetto che qualcuno sta attuando a nostra insaputa? Così, mentre il protagonista cerca di ricostituire il “tessuto mentale” che è stato “lacerato” dall’attimo sconvolgente della perdita, ripercorrendo più e più volte le circostanze che l’hanno accompagnata – il sentimento di intimità con l’amico, i ricordi di infanzia, l’atmosfera invernale –, la sua riflessione si allarga ben al di là del caso autobiografico, personale e soggettivo, sia pur carico di implicazioni esistenziali, per divenire perorazione accorata a favore di un binomio indissolubile libertà/linguaggio, individuato storicamente proprio in Gramsci: il linguaggio come strumento insostituibile di coscienza di sè e di opposizione al potere. “Non ho forse cercato di spiegarvi la passione di Gramsci per la lingua?“.
La vera democrazia nasce dal linguaggio e nel linguaggio. L’uomo, senza linguaggio, è perduto. L’uomo è linguaggio. Gramsci costituisce ben più del semplice pretesto di un nome, come potrebbe apparire all’inizio, ma, a pieno titolo, il centro focale del libro. In questo monologo – che, come spesso in Bernard Noël, è piuttosto dialogo virtuale – con grande fluidità il pathos drammatico e lirico si fa dunque scritto teorico e viceversa, ponendosi in maniera originale su un discrimen fra narrativa e saggistica e agitando semi di inquietante attualità. Quella corrispondenza di fisico e di mentale di cui si nutre tutta la poesia di Bernard Noël riesce qui, si direbbe, a oggettivarsi – ma con valenza quasi metaforica – in un testo che, mescolando sensualità e lucidità intellettuale, rifiuta “l’immaginazione astratta” e sogna di riappropriarsi di un linguaggio originario di coincidenza totale, che era un “mordere il destino alla gola”, benchè il protagonista sia consapevole che si tratta di un’impresa impossibile – e questa è per lui un’angoscia almeno altrettanto grande dell’altra. Un tale linguaggio può tuttavia essere evocato dal morso appassionato che, nel finale, egli immagina di dare alla nuca dell’amante, per poi allontanarsi con lei sotto gli alberi verso la mitica costruzione dell’amico scultore, che rappresenta il silenzio, lo slancio della vita, il vuoto della morte, il labirinto che ci imprigiona.
Anche in questo monologo Bernard Noël si conferma, come ha scritto Georges Perros, l’uomo che “continua la sua ricerca attraverso un tunnel bianco” al termine del quale c’è una “terza realtà”, l’uomo che “finalmente si abbandona al suo grido silenzioso, hic et nunc, al di fuori di ogni contrabbando, falsificazione, tradimento”.
Donatella Bisutti
***
Bernard Noël, poesie da L’ombra del doppio – approssimazione 2
all’assoluto occorre
un contrario
è il nome
al nome occorre
un’apparenza
è il viso
la vita intreccia i tratti
scava fosse
a suo piacere
e là giace
insieme alla morte
***
sopra ogni viso
l’ombra del nome
sotto ogni viso
l’ombra dell’assoluto
il sopra e il sotto
si cercano
un giorno si toccano
l’un l’altro
all’istante
ciò che stava nel mezzo
ritorna al nulla
***
il faut à l’absolu
un contraire
et c’est le nom
il faut au nom
une apparence
et c’est le visage
la vie tresse les traits
trace les trous
qu’elle aime
et couche là
avec la mort
***
sur chaque visage
l’ombre du nom
sous chaque visage
l’ombre de l’absolu
le dessus et le dessous
se cherchent
un jour ils se touchent
l’un l’autre
aussitot
ce qui fut entre eux
retourne au rien
***
Da Il Resto del Viaggio – Il resto del poema – 24
Brucia la foresta di carta ai confini del mondo
colonne di lettere in fuga dal disastro
l’alfabeto conta le superstiti
a scorno degli dei e delle loro zampette
in bella mostra sul palmo delle pietre.
***
la forêt de papier brûle au bout du monde
des colonnes de lettres fuient le sinistre
l’alphabet fait le compte des survivantes
tant pis pour les dieux et leurs petites pattes
qui faisaient du beau sur la paume des pierres
***
Idem – 33
inerpicata sulle altre una testa spunta
il suo sguardo gira e rigira e poi precipita
un’altra testa sale con gli occhi chiusi
bel pallone pieno di ninnoli sonori
ha dimenticato dove sta il reale
in fondo è una testa piena di teste
c’è caso dunque che germogli come un cavolfiore
un po’ di ragione sale dalla radice
il ricordo vago di un’ immagine umana
a che cosa può servire un viso in più
l’ultima testa cade nel cuore
un plaf che semina il terrore nella carne
in mezzo a uno sciabordio di vocali
un’altra testa si ostina a salire
perché uno sguardo si posi sul disastro
***
grimpée sur les autres une tete dépasse
son regard tourne et tourne et puis dégringole
une autre tete monte les yeux fermés
beau ballon bourré de bibelots sonores
elle a oublié la place du réel
c’est au fond une tete pleine de tetes
va- t-elle donc bourgeonner comme un chou-fleur
un peu de raison remonte des racines
le vague souvenir d’une image humaine
à quoi servirait un visage de plus
la dernière tete tombe dans le coeur
un plouf qui sème la terreur dans la viande
au milieu d’un clapotement de voyelles
une autre tete s’obstine vers là-haut
pour qu’un regard soit posé sur le désastre
*Donatella Bisutti ha presentato e tradotto Bernard Noël per la prima volta in Italia sull’Almanacco dello Specchio nel 1979 e successivamente ha tradotto sempre per lo Specchio Gli estratti del corpo e per Guanda La Caduta dei tempi. A sua volta Noël ha tradotto per le Editions Unes Inganno ottico di Donatella Bisutti, che l’autrice ha recentemente ripubblicato nell’antologia Sciamano.