Un allestimento artico, un considerevole numero di trattamenti, lo sfruttamento del corpo fino all’assottigliamento del brandello, il ripiegamento della cosa intoccabile.
Berlinde De Bruyckere presenta così alla Fondazione Sandretto, sotto la curatela di Irene Calderoni, una mostra che spazza con la sua portata tutte le chiacchiere sul contemporaneo, per come siamo abituati a sorbircelo.
Ci sono artisti che hanno scelto la strada della potenza. Non del potere.
La potenza.
Ed io, che sono una consumatrice di segni potenti, stufa degli spiccioli, dei lavoretti fatti di ideuzze e rigonfiamenti commerciali, qui riporto testimonianza di un lavoro immane.
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Ci sono due stanze, grandi, e un corridoio di passaggio.
Mi aiuto provando a dare dei nomi ai luoghi:
1.La stanza delle pelli. Su bancali grezzi, nell’arsura luminosa che porta il sale, è impossibile contarne il numero, tanto le pelli sono ammassate l’una sull’altra, stese, tirate. Un lager di pelli d’animale (vorrei dire corpi su corpi, ma non riesco) in cui non c’è puzzo, né voce, né temperatura. Puoi camminarci in mezzo, cosi come cammini per il mondo. Ma più ci cammini più ti immobilizzi. Cosi, come cammini per il mondo. L’installazione produce un silenzio, una forma di severità di suono. È tutto bianco, assiderato, anche le pareti, i lembi delle pelli paiono oramai arresi, oltre l’orrore, oltre la riconoscibilità di quello che potevano essere se non fosse che mentre le guardi, mentre cambi il tuo grado di assorbimento del dolore nella stanza, a tratti appare dentro di te un rimosso violento, una sordità di qualcosa che hai fatto, di cui potresti essere colpevole anche tu.
L’installazione ha una crudeltà ma non è solo in ciò che vedi. È nascosta da qualche parte nel colore tenue. Le pelli appaiono, in alcuni punti, candide, un’inflessione di infanzia che potrebbe deviarti dal massacro e lì capisci che il trauma ha fatto il suo dovere, perché quel candore altro non è che il sospetto della minaccia estrema. La minaccia non è la morte che indubbiamente vedi, o il dolore che indurisce anche il bordo degli occhi, o la sofferenza che si insinua nell’ottava bassa che doppia il tuo respiro atono. Tutto questo è già avvenuto. Tutto l’insostenibile è stato sostenuto con un lavoro considerevole e calcolato di spersonalizzazione. La minaccia paradossalmente è la vita, il sospetto che sotto quell’accatastamento, sotto quel censimento senza nome, sotto ogni trattamento dell’animale dissanguato, dissezionato, disossato, scuoiato, passato per le vasche del risciacquo, sotto quell’innumerevole senza singolarità il trauma ha fatto il suo dovere: ha lasciato un livido, una traccia non smacchiata. Nei sotterranei dell’inumano sopra cui le pelli sono ammassate è filtrata una goccia, un rivolo. Il trauma si è seppellito, un trauma dalla portata di mondo. E, “a ben vedere”, sotto quelle pelli, dal loro dorso comune e stratificato, dal loro stare insieme, dal loro essere state igienizzate da un dolore comune, emerge una fisionomia sottostante ai corpi, un compattamento, quasi una fisionomia di schiena, un mostro, un organismo unico.
E tu temi davvero che il trauma abbia sí fatto il suo dovere.
La carne non la elimini, nemmeno con un rito come questo lavoro sottende, la carne non ha nessun simbolo. Sotto quel rosa che sarebbe destinato ad essere assorbito dal bianco assiderato, si apre il varco di un sospetto di qualcosa di vivente. Ma non nella forma che aveva e che è stata spalancata come vuole la morte del maiale. Sotto questo biblico libro dei numeri, quel livido si aggira millimetrico, senza cervello centrale e ti sembra che da chissà dove abbia forse mosso un lembo accanto a te. Non ne avverti la temperatura non ne avverti la portata batteriologica.
Quel sospetto ti isola. Il sospetto di non vedere quel che vedi. E non sai se sei il testimone di un lager o di una millimetrica forza che quel lager lo invaderà come un fiotto inarrestabile le cattedrali.
Lo riconoscete il mondo da qui? Il mondo, le strade in cui ci aggiriamo con la nostra leggerezza.
State qui. Lasciate stare le Abramovic. State qui nel mezzo dell’hangar. Sopportate la potenza esposta ma ancor di più la potenza nascosta. Isolatevi qui. Riconsiderate la vostra vita e il vostro rapporto con l’immane. Con la grandezza anche del vostro niente. Perché questo lavoro riformula un linguaggio: siamo in grado di essere all’altezza del disastro a cui abbiamo lavorato? Sosteniamo le notizie di persone massacrate da altre persone, reali, dei macelli, la tortura, i calci, le botte, l’impatto della violenza sul corpo, il suono che fa, il sopruso, l’irrazionalità di accettare questo come l’insieme delle forze del mondo. Che postumo si aggira in queste strade?
Cosi ogni pelle mi sembrava uno strazio di questa incarnazione continua. Che per quanto tiri, pulisci, assembli ritorna a galla la memoria del mondo, una forma ineliminabile che compatta tutto, uno strato, un’alleanza di fibre, un organismo. Un’enorme conseguenza.
In questo linguaggio non solo lo spettatore è testimone di quello che l’artista vede e produce, ma soprattutto l’artista è il recettore delle forze tremende che muovono, al di là del bene e del male, il nostro secolo che più lo scarni nella sua singolarità e più è fatto di masse.
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2.Corridoio. Troviamo i reperti del lavoro non dei corpi, i tessuti usati per asciugare, contenere, sterilizzare i passaggi precedenti. Tutto in ordine. Stracci su stracci, ripiegati. Una presenza dal forte richiamo Kieferiano (e l’eco tra artisti è importantissimo, ti dice che i mondi si parlano come teleferiche o come fiumi dentro le grotte, non con i cellulari, che il lavoro di uno apre un polmone da cui l’altro può respirare). Il ripiegamento del sudario del lavoro, della meccanica del sudario senza sindone. Cose che hanno toccato la cosa intoccabile e ritornano nella loro anonima funzione, il loro numero incalcolabile e compatto come un uno. Blocchi di strati. Blocchi di Uno.
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3.La stanza delle carni dove corpi e cornici lottano. Lotta l’escrescenza col suo osso, la tappezzeria della stanza dentro il quadro dove l’urlo si tiene alla concrescita delle ossa aperte a carne, brandelli enormi e vivi, la loro pressione dentro il perimetro che deborda verso lo spettatore. Inizialmente non capisci se il retroscena delle pelli, ossia se la stanza che sottende la stanza delle pelli, sia quest’altra, che ancora grida un linguaggio atroce e sei come capitato nel retro dell’ordine esposto, nella sua quinta.
Questa installazione non è come la liricità carnale dei suoi corpi precedenti, le cui unioni e contorsioni hanno rovinato per sempre verso il vero l’immaginario totalizzante dell’anima dell’amore.
Qui non c’è niente di personale, non c’è più tempo di pensare al singolo corpo. Tutto ha cambiato la sua misura di corpo e d’anima.
Berlinde in questa mostra si è riformulata. Riformulata tramite lavoro. È l’artista che ha fatto come un passaggio di consapevolezza. Quei corpi li ha traditi. Quei corpi lottavano perché la carne questo conosce: la lotta. L’esasperazione di non trovare un punto certo in cui essere anima certa. Tangibile. Toccabile fino al suo ultimo giorno in lei.
Qui il gesto invisibile supera l’atto. Non è lo shock del linguaggio, ma il silenzio.
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Uscendo dalla stanza delle carni, dall’urlo, sono ripassata dalle pelli, tra i bancali dell’accatastamento.
Ho attraversato tutta la landa, lenta e senza fermarmi.
Il Mondo che, cosi ripulito, sembrava quasi sgravato dalla sua stanchezza. Quasi un sollievo.
Forse questo è solo Ordine, mi sono detta.
Ma tutto ciò che vedi non appartiene a ciò a che vedi.
Il sospetto di quel postumo, quella forma di schiena, era più potente.
Ci sarà una critica in grado di sorvegliare questo Corpo?