A scrivere ho imparato dagli amici,
ma senza di loro. Tu m’hai insegnato
a amare, ma senza di te. La vita
con il suo dolore m’insegna a vivere,
ma sempre senza lavoro. Allora,
allora io ho imparato a piangere,
ma senza lacrime, a sognare, ma
non vedo in sogno che figure inumane.
Non ha più limite la mia pazienza.
Non ho pazienza più per niente, niente
più rimane della nostra fortuna.
Anche a odiare ho dovuto imparare
e dagli amici e da te e dalla vita intera.
Beppe Salvia
da Cuore (cieli celesti), Rotundo, 1988.
*
Facevo l’università. Il mio professore, che poi è diventato uno dei miei migliori amici, Arnaldo Colasanti, ci raccontò, in una delle sue vertiginose lezioni di Poesia Italiana del Novecento, della sua giovinezza. Quella giovinezza in cui un gruppo di poeti e amici mise su una rivista, che per me è rimasta l’ultima vera rivista italiana del Novecento: «Braci». Tra quegli amici che pubblicavano sui fogli ciclostilati di «Braci» c’era Beppe Salvia, forse la figura più tragica del gruppo. Di Salvia restano pochi componimenti; componimenti che sono stati poi raccolti dallo stesso Colasanti tre anni dopo il suicidio dell’amico, nel 1988, in un libro, Cuore (cieli celesti), per una collana di nuovi poeti, “Novelettere”, che stampava la casa editrice romana Rotundo. Della poesia di Salvia, che ho cominciato a leggere da allora e non ho mai smesso di rileggere, mi ha sempre colpito una sua specifica atmosfera musicale difficile da definire. Ma forse nessuna poesia è più rappresentativa di questa. Il suono – legatissimo a una tradizione italiana di endecasillabi più musicali che sillabici – qui è giocato tutto sulla negazione e sulla ripetizione («A scrivere ho imparato dagli amici» e «ma senza di loro»; «ho imparato a piangere» e «ma senza lacrime»; «non ha più limite la mia pazienza» e «Non ho pazienza più per niente»). Quasi che la negazione fosse non già l’azzeramento, o la contraddizione di una affermazione emessa come una sentenza, ma al contrario volesse dichiarare la condizione di un riconosciuto spaesamento di quell’io che dalla vita e dal «cuore» impara e conosce pur sapendo quanto quel sapere gli sia insufficiente, perché incapace di colmare anche il vuoto che la vita, di contro, spalanca. Con questo non voglio dire di una condizione di disadattamento all’esistenza. Al contrario negando, Salvia afferma la crudeltà stessa della vita, quella vita che si alimenta di opposti – «amare» e «odiare». Ma quella crudeltà della vita non genera mai in Salvia una reazione di disincanto. Pare quasi che il metodo stesso che Salvia ha di conoscere la vita e il vivere sia ogni volta, in ogni componimento, dimostrato da una visione. Una visione che denuda la vita. Ma cosa significa? Che la vita, in questa visione, è ridotta, o assunta, nella sua più concreta verità. È nuda perché il poeta stesso è nudo – che poi vuol dire esposto in tutta la sua fragilità ma forte proprio di questa nudità che si è raggiunta nella visione – di fronte a lei. C’è una sacralità nella poesia di Salvia, una sacralità di derivazione francescana (come forse il solo Carlo Betocchi, nel Novecento italiano, ha davvero attraversato), proprio per questa spoliazione dei significati in cui il significato più che detto viene visto. Visto in una chiarità espressiva che assomiglia a una forma di saggezza di derivazione esperienziale ma non certo priva di erudizione. Ecco, è come se la cultura acquisita e interiorizzata abbia concesso a Salvia di non arrendersi a quello che con chiarezza vedeva: la nuda verità della vita. (Andrea Caterini)
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Del gruppo di «Braci» – di alcuni, s’intende, non di tutti, e penso principalmente a Beppe Salvia, Claudio Damiani e Gabriella Sica – mi ha sempre colpito un aspetto in ombra, sicuramente sotterraneo: un dire violento e aggressivo nel mentre si rimarcava un ritorno alla poesia classica, a Virgilio, a Petrarca, alla “gloria della lingua”. Erano gli anni, quelli – e parliamo degli ’80, quelli immediatamente successivi alla desertificazione iper-ideologica del Gruppo 63 e al caos vitalistico del “pubblico della poesia” – in cui si distingueva in maniera netta tra lingua (intesa come verità e adesione a una purezza sentimentale e tradizionale) e linguaggio (inteso come “luogo” della corruzione, dell’insincerità, del potere, dell’ideologia). Questi giovani poeti reagirono all’ideologia, al potere, al caos con un “ritorno all’ordine”, alla natura, alla contemplazione, all’armonia, ai valori semplici della vita, a una letteratura limpida, semplice, in cui finalmente parola e cosa tornavano a coincidere – dopo gli anni del “divorzio”. Di questi ragazzi di «Braci» Beppe Salvia fu il poeta più autorevole e, per certi versi, il più leggendario. Non tutti i poeti possono essere rappresentati soltanto da una poesia. Nel caso di Salvia è diverso: basta questa poesia per capirlo. E, potrei aggiungere, per amarlo. È una poesia nella quale è evidente uno scrivere per raptus, per intuizioni folgoranti, tanto che quell’apprendistato alla vita per via negativa rimane una delle intuizioni poetiche più felici e disperate della “nuova poesia” italiana. Eppure anche in Salvia, a leggere bene, agiva un meccanismo violento, aggressivo. I versi finali sono rivelatori: “Anche a odiare ho dovuto imparare / e dagli amici e da te e dalla vita intera”. Odiare, ecco. Beppe Salvia parla esplicitamente di odio. La generazione dei poeti nati alla fine degli anni ’50 aveva reagito alle ideologie desertificanti e all’uccisione dell’io con un ritorno ai classici e alla tradizione gloriosa della lingua italiana, ma questo ritorno non aveva cancellato le dinamiche di un dialettica in corso, che era anche intrisa di risentimenti e di “impazienze” («Non ha più limite la mia pazienza»). Sicuramente si trattava anche di “questioni private”, di dolori personali – Salvia morì suicida –, ma anche di risentimenti verso un establishment poetico che aveva piegato la poesia a supporto di “operazioni” ideologiche o di potere. Poeti come Salvia ebbero il sogno dell’armonia ma non trovarono mai la serenità. In questo senso furono poeti post-moderni, dilaniati da due tensioni culturali e da sfasamenti temporali senza possibilità di sintesi. Lo stesso Salvia, che recupera un dire classico, ha accelerazioni modernissime, quasi psichedeliche. È un Petrarca accelerato: un Petrarca risciacquato nella Beat Generation. La carica aggressiva è evidente, perché è evidente che poeti come lui, Damiani e Sica avevano un bersaglio, sia pure in ombra, negato. Questa poesia di Salvia è massimamente struggente perché dice una cosa lacerante: che tutto quello che siamo lo siamo grazie agli altri, ma senza gli altri. Questa solitudine fu davvero un tratto commovente di questa piccola “scuola”, che pure, senza grandi possibilità editoriali, segnò la storia della poesia italiana. Una “scuola” che, anziché assimilare dialetticamente la poesia degli ultimi due decenni, la ignorò, facendo un triplo salto mortale a ritroso. Il risultato fu un sublime inattuale. O, detto altrimenti, un combattere la guerra con il lessico dell’armonia, della natura, della dolcezza. Una dolcezza continuamente perturbata da una carica aggressiva nascosta – ora più evidente, come in Salvia, ora più nascosta. (Andrea Di Consoli)
*In copertina: Beppe Salvia (Potenza, 1954 – Roma, 1985)