16 Febbraio 2018

Benvenuti ad “Ao Tea Roa”, la terra del lungo crepuscolo. Reportage dalla Nuova Zelanda: 28 ore di volo per resettare l’anima

Quando i primi uomini giunsero con le loro imbarcazioni sui lembi di terra disabitati ed inesplorati della futura Nuova Zelanda si accorsero, intirizziti e a disagio, della selva incessante di nubi intenta a solcare un cielo cobalto che sembrava non esser mai quieto. “Ao Tea Roa”: sono le parole che la leggenda narra essere fuoriuscite dalla bocca di Kurumarotini, la moglie del navigatore e capotribù polinesiano Kupe, nel momento dell’approdo in piroga nel X secolo (solo mille anni fa), dopo un viaggio eterno inseguendo le nuvole in fuga dal Tropico del Capricorno. “Ao Tea Roa”: la terra dalla lunga nuvola bianca, ad evidenziare il torrenziale fluire di nubi spinte senza sosta dai venti oceanici in questo angolo di terra celato per lunghi millenni all’uomo. L’ultima frontiera terrestre toccata dall’essere umano.

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Mount Cook, South Island (tutte le fotografie sono di Daria Zacchini)

Aotearoa è il nome “maori” della Nuova Zelanda, battezzata ben prima che i colonizzatori europei giungessero sulle rive ventose del parastinco verde diviso in due isole (North e South) adagiato nel Mar di Tasman, il blocco di terra emersa più distante dall’Europa. Oltre solo le stelle. Lembo di terra isolato, distante da tutto, luogo ideale per fare maggese dentro di sé, per resettare l’anima, in fuga dal caos della quotidianità ad alta densità abitativa nelle nostre lande domestiche. 28 ore di volo (in direzione occidente oppure oriente, dall’Italia non fa differenza) e si atterra agli antipodi, fuggendo dall’inverno e conquistando l’estate australe. Che in Nuova Zelanda assume sapori speciali: fresca, sognante, oceanica.

Sorta di Italia ribaltata e collocata ai precisi antipodi del pianeta. Con una catena montuosa denominata non a caso Southern Alps, una cordigliera alpina che taglia da nord a sud l’isola, le Canterbury Plains ad est e la selvaggia West Coast ad ovest. Il resto sono schegge di isole britanniche dentro verdi distese in una South Island punteggiata di pascoli di pecore e mucche e laghi turchesi aureolati da cime innevate 12 mesi all’anno. Oppure la colossale schiena del Monte Cook che si erge maestoso nei suoi 3754 metri in una valle ampia in cui l’uomo pare essere assente. Scendendo a sud in direzione Antartide, ci si imbatte nell’ottava meraviglia del mondo (parola di Rudyard Kipling): è Milford Sound, un fiordo incastonato nel lato sud-ovest dell’isola. Una lingua d’acqua lunga 15 chilometri che penetra tra le pareti a picco dal Mar di Tasman dentro uno scenario preumano: il verde della vegetazione, il bianco delle nevi perenni sulle cime montuose, gli arcobaleni naturali generati dalle cascate d’acqua che sgorgano dalla roccia. Uno dei luoghi più piovosi al mondo nasconde un paradiso della natura. Nascosto all’uomo per lunghissimo tempo.
La scoperta di Milford Sound da parte dell’uomo occidentale accade per caso: ignorato dai navigatori venne attraversato per la prima volta nel 1812 dal vascello del capitano gallese John Grono che per evitare il naufragio cercò riparo tra le ripide vette nel fiordo. Piopiotahi è il nome maori del luogo: la popolazione indigena già in precedenza lo aveva scoperto: un eden di conoscenza della fauna marina e del ciclo delle maree. Paradiso che oggi è diventato tempio della ricerca scientifica sulla biofauna marina e non solo: qui soltanto possono essere osservati volatili unici come il Kea, sorta di pappagallo preistorico dalle ali verdi. Come fare un salto indietro nel tempo di 65 milioni di anni.

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Vulcano Ngauruhoe (Tongariro National Park)

Vestigia vulcaniche che attraversano la terra: la North Island è la massa di terra che costituisce il lembo settentrionale della Nuova Zelanda. Il suo scheletro è retto da una colonna vertebrale di fuoco che si esprime attraverso colossali vulcani, pozze di fango ribollenti, geyser. Una cintura del fuoco che costituisce l’essenza stessa dell’isola. In cui vive anche ampia parte della popolazione maori, comunità che conserva con cura le proprie tradizioni ed i propri rituali originari. Dai 3 vulcani che definiscono il panorama straordinario del Tongariro National Park (“set” reale che ha dato forma alle fantasie tolkieniane nella saga cinematografica del Signore degli Anelli firmata Peter Jackson) ai fenomeni geotermici di Rotorua, fino al campo vulcanico su cui è edificata la magnifica Auckland, la città più popolosa del Paese adagiata su coni di vulcani dormienti che si inabissano nelle acque azzurre del Golfo di Hauraki, campo di regata e di battaglia di passate sfide di America’s Cup.

La terra del lungo crepuscolo: è questa infine un’altra possibile interpretazione del nome di battesimo maori della Nuova Zelanda, lo stupito “Ao Tea Roa” pronunciato in origine da Kurumarotini. I migranti polinesiani, abituati ai tramonti istantanei dei tropici, osservavano con stupore il prolungarsi della luce della sera nei tramonti estivi della nuova terra. Crepuscoli interminabili che vedevano affogare il sole lentamente nella progressiva frescura della notte nascente. Un fenomeno che si può osservare ancora. Al radunarsi delle tenebre la North e la South Island diventano due smeraldi verdi adagiati nell’oceano, come due pietre incastonate sui lobi di una donna bellissima, sotto la luce ormai svanita di un tramonto infinito, riflesso e raccontato su uno specchio increspato d’acqua, ai confini dell’Oceano Pacifico.

Marco Brezza

Gruppo MAGOG