Da São Paulo, per dirvi il tipo, il 7 marzo del 1929, firma un proclama, Ce que c’est que le surréalisme, di catartica esattezza. Aveva conosciuto André Breton nel 1920, ventenne; nonostante la vita furibonda, oltreoceano, gli restò sempre al fianco; era il suo fuoco, il paladino, il padre. “1. Il surrealismo è contro l’arte, dacché l’arte suppone compromessi di ogni sorta e si oppone alla sincerità totale, la sola cosa che noi dobbiamo esigere; 2. Il surrealismo non è contro la logica: la ignora, deliberatamente. La logica non ha nulla a che vedere con la poesia, che nell’ambito del surrealismo si sfoga in forma pura e spontanea; 3. Il surrealismo non è contro la cultura. Afferma che la cultura non ha nulla a che fare con la produzione di un’opera puramente surrealista e al medesimo tempo di qualsiasi opera sincera, che porti l’impronta di una personalità reale e viva”. Al di là dei concetti, a sprazzi ingenui, leziosi, spaziosi al frainteso e al frantume – sincerità, purezza, compromesso – la Trimurti surrealista – niente arte, niente logica, niente cultura – affascina.
Si firmava, spesso, Satyremont oppure Peralda, a volte Peralta; esegeta in sconcezze, filologo della bestemmia, nel 1928 scrive Les Roiuilles encagées, libro reiteratamente ritirato dal mercato bassoborghese, passato in Italia, anni fa (City Light, 1997), come I coglioni arrabbiati. Quell’anno, si unì alla cantante brasiliana Elsie Houston, e volò all’altro mondo. In Brasile fu poeta, cronista dei riti del Sud, che gli erano congeniali, rivoluzionario. Nel 1931 nacque Geyser, suo figlio; nello stesso anno il governo di Getúlio Vargas lo rispedisce in patria con la didascalia “agitatore comunista”. Gli piaceva, tra l’altro, sventolare la piccola placca stampata con Aragon nel ’29, “Sono uno stronzo e questa è la mia gloria… Sono il più grande stronzo della Storia”, aveva scritto. La fotografia di Man Ray che ritraeva la mitica Kiki de Montparnasse fungeva da amuleto.
Star dietro alla vita di Benjamin Péret è filare la traiettoria rabbiosa di un Icaro: nel 1936 è in Spagna, tra tanti, tra le file del POUM. Gli fanno schifo le liti intestine alla sinistra, dunque si arruola nella “colonna Durutti”, la falange degli anarchici. Nel tempo libero, frequenta Remedios Varo, pittrice, che sposa, nel 1946. La prima moglie, Elsie, aveva preferito la carriera negli Stati Uniti, a New York, dove muore, nel 1943, forse suicida. Dal ’41, Péret si era piantato in Messico – viaggia lungo la tratta Marsiglia-Casablanca-Vera Cruz – dove fa l’agitatore poetico e il funambolo politico, al fianco di Natalia Sedova, la moglie di Trotskij. Litiga con Octavio Paz – che si dava toni da stalinista – e scrive, nel 1945, Il disonore dei poeti. Il pamphlet ha una forza magnetica, irriverente: pubblicato nel 1965 da Editoriale Contra, a cura di Beniamino Dal Fabbro, torna tra noi grazie a Massimo Raffaeli, per le Edizioni dell’Asino. Eccone uno stralcio:
“Il poeta non deve riporre negli altri una illusoria speranza umana o celeste, né disarmare gli spiriti insufflando loro una fiducia senza limiti in un padre o in un capo contro il quale ogni critica diviene sacrilega. Al contrario, sta a lui pronunciare le parole sempre sacrileghe e le bestemmie permanenti. Il poeta deve innanzitutto prendere coscienza della sua natura e del suo posto nel mondo… Deve combattere senza posa gli dèi paralizzanti accaniti nel mantenere l’uomo nella propria servitù, al cospetto delle potenze sociali e divine che si completano vicendevolmente. Sarà dunque un rivoluzionario, ma non di quelli che si oppongono al tiranno di oggi, nefasto ai loro occhi perché tocca i loro interessi, per vantare l’eccellenza dell’oppressore di domani di cui già si sono fatti servitori. No, il poeta lotta contro ogni oppressione: quella dell’uomo sull’uomo innanzitutto e l’oppressione dei dogmi religiosi, filosofici o sociali sul pensiero. Egli combatte perché l’uomo raggiunga una conoscenza sempre perfettibile di sé e dell’universo. Non ne consegue che desideri mettere la poesia al servizio di una azione politica, anche rivoluzionaria. Ma è la sua qualità di poeta a farne un rivoluzionario che deve combattere su ogni terreno… Ogni ‘poesia’ che esalti una ‘libertà’ volutamente indeterminata, quando non decorata di attributi religiosi o nazionalisti, cessa immediatamente d’essere una poesia e, di conseguenza, costituisce un ostacolo alla liberazione dell’uomo, perché lo inganna mostrandogli una ‘libertà’ che dissimula nuove catene”.
Separatosi da Remedios Varo, Péret tornò in Francia nel 1948. Aveva il naso aquilino, lo sguardo fanatico: fu, sempre, radioso nell’intransigenza. Nel 1925 aveva scritto una lettera pubblica scagliandosi contro Paul Claudel, “Ingrassa e muori nell’ammirazione trionfale dei tuoi concittadini; scrivi, prega, sbava: noi rivendichiamo il disonore di averti chiamato una volta per tutte mascalzone e canaglia”. Il tono era, per così dire, tonante, apocalittico: “Non ci importa la creazione. Ci auguriamo con tutte le forze che rivoluzioni, guerre, insurrezioni coloniali distruggano questa civiltà occidentale di cui lei difende i parassiti perfino in Oriente, e chiamiamo questa distruzione la cosa meno inaccettabile dallo spirito… Ci dissociamo pubblicamente da tutto ciò che è francese nelle parole e nei fatti”. Nel 1952 Péret si scaglia contro un altro nume della letteratura di Francia, Albert Camus. Era uscito L’uomo in rivolta, Péret, autentico rivoltoso, rivoltante, “nel numero unico di un foglio marsigliese di anarchici” (Raffaeli), scrive una potente stroncatura, Camus, le révolté du dimanche. Sostanzialmente, Péret dà a Camus del dandy esistenziale, del tronfio individualista. “Per Camus la rivoluzione è da rifiutare, almeno nelle forme che conosciamo. Ce ne proporrà delle altre, ci offrirà un metodo per farla finita con un mondo che giudica intollerabile? No. Solo disgusto, nient’altro. Solamente arride ai suoi occhi la rivolta, anche quella del terrorista che muore lanciando le bombe o sotto i colpi della polizia. In una parola, non ci offre che una rivolta sterile”.
Ovvio che un tipo così non potesse essere arruolato da alcuno: bombarolo del verbo, anima inquieta, chef del caos, Péret continuò a pubblicare placche irreperibili, in un’era irripetibile. I suoi libri, ancora, vagano nel samizdat dei cercatori di perle, dei ribelli pronti a tutti, proni al rischio. Nel 1959, il 18 settembre, Benjamin Péret muore; qualche mese prima Arturo Schwartz pubblica a Milano La poesia surrealista francese, a cura di Péret, con le illustrazioni di Jean Arp, ripresa, nel 1978, da Feltrinelli. Il comunista, anarchico, razionalmente irrazionale Péret, finì per cedere al fascino del mito. Nel 1960, un anno dopo la sua morte, Albin Michel pubblica una Anthologie des mythes, légendes et contes populaires d’Amérique, che celebra l’amore di Péret per il Sudamerica (d’altronde, nel 1955 Péret aveva allestito, per Denoël, la sua versione dei libri di Chilam Balam, testi sacri dei maya dello Yucatán). “Non occorre fare l’apologia della poesia a scapito del pensiero razionale, ma ribellarsi al disprezzo mostrato vero la poesia dai sostenitori della logica e della ragione”, attacca Péret. “Finché non avremo riconosciuto senza esitazione il ruolo capitale dell’inconscio nella vita psichica, i suoi effetti sulla coscienza e sulle reazioni di quest’ultima sulla prima, continueremo a pensare come preti, cioè come un selvaggio dualista, salvo che il selvaggio resta poeta mentre il razionalista che rifiuta di ammettere l’unità del pensiero è un ostacolo al movimento culturale. Chi lo capisce si rivela un rivoluzionario che tende, forse inconsapevolmente, ad abbracciare la poesia”. Ancora una volta, accennando alla poesia torna la parola rivoluzione. Inafferrabile, cocciuto, stralunato, lunare Benjamin Péret…