A Benjamin Labatut piace lo scontro. Gli piacciono i no, per intenzione conoscitiva. Dice: “Nella conoscenza esoterica la contraddizione è la più alta forma di sapienza”. Segue quella linea. A guardarlo sembra un elfo: un bel viso furbo, occhi scuri mai fermi, capelli corvini quasi a nuvola (li riavvia spesso, tipo ex bella che si vuole dare un tono), vari tribali alle braccia. Si veste di nero e di blu, mi si avvicina senza conoscermi, punta un ospite con la camicia bianca e fa: “quando arrivi a vestirti così sei alla fine”. 

Incontro Labatut alla cena di inaugurazione del Premio Malaparte, fondato da Alberto Moravia e da Graziella Lonardi Buontempo, e da qualche anno tornato grazie a Gabriella Buontempo, produttrice cinematografica e segretaria generale dell’associazione Incontri Internazionali d’Arte, nonché nipote della fondatrice. Il Malaparte lavora con le stesse coordinate genetiche di sempre: l’espressionismo di Malaparte uomo e artista, l’aura da exquisite extravaganza che l’isola si porta dietro da un paio di millenni, dall’epoca in cui l’imperatore Tiberio la usava per orge studiate da maestri d’accoppiamenti fatti venire dalla Grecia, a quella in cui lo psichiatra svedese Axel Munthe faceva porre un inesplicabile ma autentica sfinge egizia nella sua Villa San Michele, poi affittata a Luisa Casati Stampa, l’archetipo della dark lady del Novecento. 

La mondanità (anche) come happening al buio, la letterarietà (anche) come traffico alchemico. L’informalità (anche) come ritrovo d’essai. Quest’anno vince Labatut, dopo autori come Burgess, Sontag, Allende, Carrère, Tartt, Reza. Più che un elenco di vincitori sembra l’indice di un’antologia di letteratura contemporanea. 

Un elfo oppure un corvo Benjamin, in spagnolo Bençamìn, per gli amici Bença, l’italiano “Beniamino” lo detesta. Labatut, abbiamo visto, detesta molte cose. I corvi gli piacciono perché, è dimostrato, sono dotati di coscienza ma non pensano in maniera simbolica. Sono un mistero cognitivo. E Labatut è perso per i misteri cognitivi.

La sua narrativa è un grande successo, anche in Italia, per merito di Adelphi. Viene sbrigativamente percepita come “scientifica” quando di scientifico ha solo il pretesto, come dichiara l’autore (“Non mi interessa la scienza, mi interessa la pazzia che proviene dalla ragione”). Sono racconti che per quanto reggano a un riscontro fattuale restano creature interamente letterarie. Spesso biografie di fisici e matematici nelle quali però l’attenzione è fissa sul disastro, sull’ossessione, sulla singolarità, sulla mania. L’ultimo libro, Maniac, ha un lungo capitolo centrale dedicato alla figura John von Neumann, nato a Budapest come Neumann János Lajos da una ricca famiglia ebreo ungherese, genio della matematica poi passato alla fisica e all’informatica, tra i costruttori della bomba atomica, inventore della Teoria dei Giochi, tra gli anticipatori dell’AI.

L’elfo/scrittore Labatut non crede affatto alla scienza come spiegazione razionale del mondo e dell’uomo, che è un po’ lo stereotipo grazie al quale ci illudiamo di avere un certo controllo sul tempo fuori dai cardini, siano pandemie, cambiamenti climatici, sofferenze psicologiche personali. Se mai è interessato alla follia, all’ossessione, individuali e collettive che l’intenzionalità matematica e scientifica portano con sé. Dice:

“Mi affascina l’irrazionalità della scienza. H.P. Lovecraft riesce a essere così terrificante proprio perché usa il linguaggio scientifico”.

Durante la conferenza stampa un giornalista gli domanda, visti i presupposti, qual è il suo rapporto con il “realismo magico” sudamericano. Risposta: “Detesto il realismo magico, è una specie di malattia che si è diffusa in Colombia. Mi piace il realismo, mi piace la magia, non mi piace il realismo magico. Il nonno non è un vecchio saggio, il nonno è un ubriacone che ogni tanto fa una scoreggia magica”. Qui sta dicendo di no, con qualche sberleffo da elfo, al nonno della letteratura sudamericana, Gabriel García Márquez.  

Se gli si domanda perché ha scritto il primo libro (Quando abbiamo smesso di capire il mondo) in spagnolo, e il secondo (appunto Maniac) in inglese risponde: “Lo spagnolo è la mia lingua madre, ma io ho problemi con mia madre. Il fatto è che l’inglese è una lingua migliore. (“I’ts a finer language”). È ampio, è duttile. Raramente mi viene voglia di scrivere una frase in spagnolo”. 

Alla domanda se si considera un outsider della letteratura:

“Mi considero un outsider punto. Ho smesso di parlare spagnolo a otto anni. Non ho mai imparato l’olandese. Quando parlo spagnolo in Cile mi chiedono se sono argentino, è il massimo insulto per un cileno. Se restassi in Italia tre mesi parlerei un italiano strano, da outsider. Ma è la letteratura stessa che è da outsider, da sfigati. Leggere è da sfigati, scrivere è da sfigati. Ed è bene così: la letteratura deve avere qualcosa di strano, e oscuro”.

Il discorso vale anche per le definizioni: la sua è narrativa o saggistica?  

“Faccio un lavoro sporco – risponde – mi interessa una forma imbastardita tra romanzo e saggio. L’AI è un’intelligenza senza corpo, e in letteratura esiste da sempre: si chiama narratore onnisciente. È divertente che da decenni tutti vogliano eliminare il narratore onnisciente. Io dico ‘teniamolo dentro!’”.

Il culmine della fine settimana caprese è stato il dialogo tra Labatut e il fisico del Cnr Guido Tonelli. Un’ora di divertimento puro durante la quale lo scrittore non ha fatto altro che contestare qualunque cosa dicesse lo scienziato. Alla dichiarazione di Tonelli secondo cui esistono diverse matematiche, quella di Newton non è quella di oggi, Labatut risponde “Questo lo pensa lei che è un fisico, ma i matematici sono dei platonici, credono che la matematica sia la realtà”. A Tonelli che illustra la teoria di un universo senza big bang Labatut risponde: “suvvia, avete anche voi bisogno di un piccolo miracolo iniziale, ammettetelo”. E quando Tonelli racconta che solo il cinque per cento della materia dell’universo si spiega come materia ordinaria Labatut commenta “allora avete bisogno di due miracoli”. 

Ma i no di Labatut non sono capricci. Alla cena finale c’era Villa Pontecorvo, da restare senza fiato accanto ai Faraglioni, c’era Michele Pontecorvo Ricciardi, vicepresidente di Ferrarelle società benefit, ospite squisito e tra gli artefici del rinascimento del premio, c’erano pasta e patate e genovese anche quelle magnifiche, c’erano vini e chiacchiere ma non c’era Labatut. Aveva detto un altro no, era rimasto chiuso in camera a rifinire il racconto che avrebbe letto alla premiazione, la mattina dopo: Il segugio del cielo, testimonianza, attraverso storie che vanno dalla mitologia orientale alla vicenda del matematico Boole, a quella del padre dell’AI Geoffrey Hinton, che gli Dei finiscono per azzannare chi si spinge troppo avanti nella conoscenza. Hinton da qualche mese si è dimesso da Google per poter parlare liberamente dei rischi dell’AI. Non è credente, Hinton, ma mangia in ginocchio, come un monaco. La sua patologia alla schiena non gli permette, da 17 anni, di stare seduto. 

E si torna alla cena iniziale, alla Capannina. L’autore/elfo contesta le camicie bianche, lo trovo dopo cena alle prese con uno inconcepibile Spritz, ordino due Negroni. Fa: “Ma voi italiani quando volete bere fino a non capire niente come fate, andate avanti a grappa, solo grappa?”. “E Negroni, comunque sono Bruno e I am a musician”. “I am a magician too”. “Ho detto un musicista, un chitarrista, Beniamino, non un mago”. “Non chiamarmi Beniamino”. “Beniamino, lo sai che nel posto in cui sono cresciuto in Calabria c’è un cimitero dei greci antichi, da bambini andavamo in giro per la collina e ci capitava di trovare ossa di morti. Poi, nell’epoca napoleonica, quando hanno costruito il cimitero moderno, l’hanno fatto a due passi dal cimitero greco, senza sapere che fosse lì”. “Storia magnifica”. “Sì, magnifica, ma è falsa”. “Lo sapevo che era falsa, e non chiamarmi Beniamino”.

La storia del cimitero è vera. E lo scrittore Labatut sapeva che lo è, anche se diceva di non crederci. È davvero un elfo. Forse un mago. 

Bruno Giurato

Gruppo MAGOG