Il viso sembra acquisire una personalità diversa a seconda dello squarcio da cui lo si scruta. Ciò che resta sono gli zigomi, il naso, insomma: è un viso sfuggente ma a cui non si sfugge. In una fotografia di Man Ray, il filosofo – o meglio, l’uomo, dacché siamo nel gergo dell’inafferrabile – che si chiama Benjamin Fondane – nato Wechsler o Vecsler che dir si voglia, diventò Fundoianu e poi Fondane, in un groviglio di identità che perfezionano l’assoluta individualità di BF – mira, con vigore di severità, la propria testa, che si eleva dalle mani poste a tazza. Il gioco di prestigio fotografico non ha alcuna patina da esteta – il tizio che ammira se stesso – ma una disciplina raddoppiata – misuro quanto il mio corpo sia gemella al mio pensiero.
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Il pensiero di Fondane non edifica, intendo, un corpus filosofico: è, semplicemente, corpo, carne, parola vivente, idea biologica. Lo dice Cioran, che installa Fondane tra gli Esercizi di ammirazione. “Il volto più solcato, più scavato che si possa immaginare, un volto dalle rughe millenarie, ma in nessun modo irrigidite perché animate dal tormento più contagioso ed esplosivo. Non mi saziavo di contemplarle. Mai avevo veduto prima un tale accordo tra l’apparire e il dire, tra la fisionomia e la parola. Mi è impossibile pensare alla minima frase di Fondane senza percepire immediatamente la presenza imperiosa dei suoi tratti”. Coincidenza tra corpo e parola, appunto.
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Di Fondane, filosofo dell’oltranza e dell’abisso, del non ritorno e della sfida, abbiamo in Italia libri fondamentali – grazie alla cura dedita di Luca Orlandini – ma forse non se ne è compresa la fondamentale importanza. Fondane oppone il pensare – cioè: il vivere – poeticamente alla speculazione, l’estro all’accademia, l’esasperazione e l’estasi alle interpretazioni, ai sussulti dei semiologi, alle litanie degli esistenzialisti. Nel Falso Trattato di estetica (1938, per Denoël, l’editore che in quegli anni pubblicava Céline e Artaud; 2014 per Mucchi Editore, cura e traduzione di Luca Orlandini; ora in una nuova edizione, rivista e ampliata, per Nino Aragno, 2021) Fondane lancia ai poeti – egli stesso poeta, per altro – il monito: “Ma come possono dei poeti che pagano un tributo alla dialettica, avere il coraggio di osare imporre quello che il pensiero poetico e le sue stesse strutture richiedono formalmente? Ovvero: il totale abbandono del pensiero aristotelico-cartesiano, il ritorno alla follia, ai pregiudizi, alle superstizioni e all’assurdo?”.
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Incrocio due dati. Il primo è una memoria, a posteriori – lo scritto è del 1975 – di Mircea Eliade su Fondane. “Mi sono ricordato… di quella notte dell’autunno del 1943, quando cenammo da B. Fondane con Lupasco, Lică Cracanera e Cioran. Fu la prima e l’ultima volta che incontrai Fondane. Abitava nascosto assieme alla sorella, e vedeva solo pochissimi amici”. Il nascondimento pare un carisma di Fondane: pur volutamente ‘di lato’ è stato al centro del pensiero europeo. Il 7 marzo del 1944 è arrestato insieme alla sorella dalla polizia francese, è l’era di Vichy. Gli amici premono per la liberazione di Fondane, che accade: ma l’uomo va fino in fondo, appunto, non vuole lasciare la sorella – che lo sterminio sia esperienza, esperanto dell’orrore. Internato ad Auschwitz, muore, il 2 o 3 ottobre, in una camera a gas. Appunto, Fondane è il filosofo inimitabile, eletto all’elusione, che si legge riconoscendogli una esclusività che brucia. Egli è ‘al centro’: nato a Iasi, nella Moldavia rumena, nel 1898, a Parigi dal 1923, è il discepolo di Lev Sestov, frequenta Tristan Tzara, si avvicina al Surrealismo, resta, sostanzialmente in una catartica, carnefice solitudine. È invitato in Argentina da Victoria Ocampo, a cui consegnerà, nel 1939, il manoscritto delle conversazioni con Sestov (in Italia tradotto come In dialogo con Lev Sestov. Conversazioni e carteggio, Aragno, 2017, libro di fulgida bellezza), conosce Artaud e Martin Buber, frequenta Cioran, scrive di Rimbaud – Rimbaud, la canaglia, 1930; Castelvecchi, 2014 – e soprattutto il libro fondamentale, quello su Baudelaire – uscito postumo, nel 1947; come Baudelaire e l’esperienza dell’abisso, Aragno 2013.
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La centralità di Fondane: nella scrittura muscolare, biologica, stratificata, come un allevamento di pitoni, in picchiata, bisogna leggere armati di biro (“Solo l’impurità conserva, ancora e malgrado tutto, l’attrattiva del doppio polo del sacro, la seduzione e il terrore”), inseguendo quest’uomo in corsa, che scrive vivendo, cioè in caduta libera. “Mi attende un battello da qualche parte (perché un battello? Sarebbe troppo lungo da spiegare). E un paese, da dove non potrò granché correggere bozze, o scrivere prefazioni, né assistere all’uscita del libro, né udire le grida di terrore di fronte al cataclisma che avrò scatenato, sia per le mie idee, o per i miei errori d’ortografia, di grammatica, per le anfibologie, o ancora, chissà, per il solo fatto di essere nato. L’errore non è mio. Non ho creato io quest’epoca e le sue miserie, le sue peripezie, i suoi disordini, la sua trama aggrovigliata, nella quale io stesso mi perdo e di cui così poco comprendo”, scrive Fondane nella nota ad esordio del Baudelaire, “Addio Francia! Scriverò la prefazione un’altra volta”. Fuga, battelli ebbri, ebbrezza, banditismo, errore ed erranza, lo sgarbo grammaticale come maceria di stile, cicatrice d’aggettivi, la miseria a mo’ di località e di danza. Baloccatevi ancora con Bataille, Blanchot, Barthes, tutti eccelsi – ma non eccezioni – e infine consolatori. Fondane condanna la nostra codardia.
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Di famiglia ebraica, escono ora di Fondane gli “Scritti sull’ebraismo”, per Giuntina (a cura di Francesco Testa e Luca Orlandini), come Tra Gerusalemme e Atene – titolo che gioca scassinando il saggio di Sestov, Atene e Gerusalemme. Il libro, come dire, funziona come primo gradino per entrare nel ‘tempio’ filosofico di Fondane: è un talamo intimo, questo, soprattutto nei testi giovanili, usciti su riviste rumene. La gita Nel cimitero ebraico di Iasi, “di fronte alle lapidi inclinate, tra cui esala la terra, i passeri tra i salici sillabano gli epitaffi balbettando”, commuove. Il vagabondaggio, a ridare memoria ai morti, si compie al fianco di “un ebreo anziano” (“accompagno il vecchio affinché mi faccia scoprire qualche lapide dimenticata, per amore della definizione”), sfocia al cospetto della tomba del padre. “Evoco mio padre con poche linee, come un disegnatore. Penso a lui e cerco un evento triste per poter piangere. Ma forse ce ne sono troppi. Tutti”. L’articolo è del 1920, ed è in questo candore (e clangore), credo, il preludio al Fondane più complesso e involuto, il filosofo che ustiona, il figlio del Minotauro.
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La porzione su Franz Kafka è tratta dal Baudelaire, ricalcata nel libro Giuntina, ha micidiale indipendenza: “tra le esperienze religiose del nostro secolo non ne esiste una più curiosa, più straziante, più nuda – e per certi aspetti così vicina a quella di Baudelaire – dell’esperienza di Kafka”. Una lettera di Geneviève Tissier, moglie di Fondane dal 1931, a Jean Ballard, racconta l’indole del pensatore, solito dire, “Se Hitler sapesse che esisto, mi farebbe arrestare… Dobbiamo sopportare tutto questo come una prova di ascetismo”. Eccolo: “Battendo in ritirata, in mezzo alla folla di rifugiati, vetture, soldati e cavalli morti, il Fondane soldato trova, tra le ricchezze di pellicce, calze di seta, gioielli perduti dalle auto in fuga… un Pascal. Lo raccoglie. E vediamo questo strano soldato sfinito dal caldo e dalla fatica, appesantito da un equipaggiamento e da una riserva di munizioni tanto ingombranti quanto inutili, battere in ritirata, oltrepassare oltre i cavalli morti e la moltitudine di oggetti, preso dal suo Pascal, che legge con passione”. Riconoscere l’essenziale nell’assenza, nella morte.
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Penso al poema di Fondane, Ulysse, a cui lavora per oltre un decennio. Che non ci sia chiara l’importanza di questo artista – se lo fosse, saremmo ancora così tranquilli, così monaci al frumento della frustrazione quotidiana? – è ovvio perfino a Wikipedia: la nota di Fondane in inglese è sontuosa, articolata, lunghissima, come quella francese; in Italia ne abbiamo, al confronto, lo sputo, uno spuntino.
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Luca Orlandini mi segnala questa frase di Fondane, un sasso contro i filosofi in teca: “Ogni filosofia non è che un consiglio alla rassegnazione… Esprimere il raccapricciante, l’orribile, senza disprezzarlo è un atto che va oltre la nostra idea di ‘sincerità’”.
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Certamente, Fondane turba perché tempesta di bestie la nostra testa. Ci obbliga a trasmutare sguardo, via, vita, ci scaglia addosso muta e mutamento. “Sosteniamo dunque che l’uomo, contro i suoi bisogni naturali, i suoi ‘dati’ intimi, biologici e metafisici, abbia concesso un potere sovrannaturale al sapere, alle idee chiare e distinte, alla necessità – in una parola: all’infelicità che, sotto il nome di ‘principio di realtà’, si è impossessata del suo spirito e non smette di comandarlo. Idealisti, razionalisti, scettici, materialisti e perfino cristiani – tutto un mondo si è inginocchiato davanti al principio di realtà, adottandolo come unico criterio dell’esperienza e come sola fonte delle evidenze umane”. D’altronde, Fondane sa che “l’uomo è più grande, più terribile, più allucinante quando pone delle domande, tuttavia, le risposte sono in genere stupide, tristi ed evasive, come se l’uomo non fosse fatto per dare risposte – come se la risposta appartenesse a un altro”. In questo ‘altro’ – accettare il lato oscuro, l’inspiegabile, l’inappagato, il feroce, il tremendo – Fondane ci getta, con fierezza. Ho citato da La coscienza infelice (1936, Denoël; per l’Italia, Aragno, 2016, e la cura di Orlandini), che mi sembra un accesso immediato – come un pugno – al suo pensiero. Altrimenti – parlo per la mia mente, ignifuga alla metafisica, spinosa al filosofeggiare – partite da Lungo le rive del fiume Ilisso, il saggio che apre le conversazioni con Sestov: ha una luce particolare, il corrusco di una guerra già detta. Fondane è geniale nel disintegrare le sicurezze erette dai sistemi filosofici, ci sgrava al selvatico della vita, senza riserve o preservativi, “per poter dormire (ovvero, nel linguaggio degli uomini: agire) dobbiamo come re Saul, sopprimere tutti gli incantesimi nel dominio del pensiero; il benché minimo pensiero è un deus ex machina in grado di scatenare i mali peggiori… La spada delle Mille e una notte araba pende sopra la storia della filosofia; ogni notte la filosofia è costretta a inventare una nuova e fantastica teodicea al fine di mantenere il nemico in sacco e respingere indefinitamente l’evento fatale che sarà comunque inevitabile. Ma la scienza, che noi mettiamo all’opera per mantenere in piedi un mondo falso di cui noi siamo la sola divinità, non è certamente quello di cui avremo bisogno al momento della morte”. Dell’inevitabile Fondane è il profeta.
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Ha fatto lo scalpo ai filosofi, Fondane, ha scalpato i fondamenti della vita ‘civile’: si guardano sbigottiti, sorridono ebeti, scambiano il turgido fiotto di sangue per una statua, sono già morti, non lo sanno. (d.b.)
*In copertina: il cranio di Benjamin Fondane in una fotografia di Man Ray