12 Dicembre 2022

“Al tempo stesso verme e re”. La bellezza dell’abiezione

Parola temibile a pronunciarla, antinomismo. Chi ne fa dottrina non è semplicemente contro – anti – la legge – nómos –: ritiene che la sola legge sia il suo rovesciamento, l’ingordigia nel male. Che i precetti, le norme, i codici morali, in realtà, siano insegnamento superficiale, superfluo, sapienza sfitta. La verità è invisibile agli occhi, il tempo delle sintesi e delle divisioni – bene/male; bello/brutto; lecito/illecito – è deriso: la prassi esoterica ammette soltanto la rivolta.

Tra i più feroci antinomisti di sempre, Jakob Frank (1726-1790): ebreo polacco, gnostico, capo carismatico, era ritenuto dai suoi la reincarnazione del Messia. Jakob Frank ammaestrava alla rivoluzione delle consuetudini, a sbudellare le norme: “è come se un’insurrezione anarchica fosse sorta in mezzo al mondo della legge”, scrive Gershom Scholem nello studio classico sulle Grandi correnti della mistica ebraica.

“In certe conventicole radicali furono compiuti riti e azioni che di proposito miravano a una degradazione morale della personalità umana: perché si credeva che chi fosse caduto più in basso fosse designato più degli altri a contemplare la luce”.

Questa degradazione è in realtà elezione: l’uomo spirituale, pneumatico, attraversa il male per purificarlo, verifica il mondo, immondo, per mondarlo, vive “al di là del bene e del male”. La figura di Jakob Frank, dal fascino corrosivo – che colleziona adepti ancora oggi –, ha ispirato il più importante romanzo di Olga Tokarczuk, Księgi Jakubowe(2014), il libro di Jakob.

Alle spalle di Jakob Frank vibrano le tensioni più oscure del pensiero ebraico: ad esempio, l’idea che il Testo Sacro vada interpretato in opposizione alla lettera, mera illusione, inane norma, verbo umano, dunque mortale. La Bibbia, in effetti, è vagabondaggio tra contraddizioni. Il serpente, per dire, non è un segno negativo, tutt’altro:

“Il serpente ha in sé veleno, a causa del quale muoiono coloro che sono morsi, ed ha anche un farmaco di vita, che fa rivivere coloro che sono morsi, annullando in loro il veleno mortale per mezzo del farmaco di vita”.

Così scrive l’eremita – ed eresiarca – Macario/Simeone (V secolo). Il serpente, così, non è tanto il Nemico, quanto “l’immagine del corpo del Signore”.

Il precedente più prossimo di Jakob Frank, il maestro in cui si inscrive, è Sabbatai Zevi (1626-1676), l’asceta, il cabalista, il Messia mistico – secondo la formula di Scholem – che nel 1666, imprigionato dal Sultano Mehmed IV a Costantinopoli, abiurò l’ebraismo, scegliendo l’Islam. Per i discepoli di Zevi, dapprima sconcertati, l’abiura non è che la vetta di un percorso ascetico a contrario, dal violento afrore simbolico. La fede autentica va celata nei sotterranei del sé, spartita tra pochi, gesto di suprema nobiltà; la conversione all’Islam è menzogna che rispecchia il menzognero mondo degli infedeli. La vita è convalidata dal travisamento, dal travestimento. Mistico gioco di veli dove i contorni tra vero e falso, miracolo e miraggio, messia e mago, dio e demone svaniscono.  

La via della degradazione, in verità, ha vasti, inquietanti coltivi nel terreno cristiano. Carpocrate (II secolo) professava la “santità del peccato” e il libertinaggio, riteneva – da vero gnostico – che questo mondo, parziale e ingiusto, fosse ideato da un demone ingiusto, che bisognasse dunque liberarsi dei corpi corrotti e rivoluzionare i criteri sociali. Più che istanze mistiche, Carpocrate riferiva ribellioni politiche.

Anche l’abiezione insiste sul degrado, insinua una rivolta – l’abietto, per etimo, è chi è “gettato fuori dal diritto comune, dalla società”. Tuttavia, l’abiezione – aristocrazia dell’anima, ascesi tramite scoscendimento – non ricorre all’antinomismo, non rincorre il potere, non persegue alcun rovesciamento sociale. Quando San Paolo si definisce “un aborto”, “l’ultimo di tutti”, “l’infimo degli apostoli” si rifà a Cristo – Dio degradato a uomo e che dell’uomo subisce ogni degradazione – tracciando la profezia di una sequela severissima. Gli effetti sono strazianti: il cristiano autentico, forse, è chi non è ritenuto tale dai prossimi, tacciato di mania, perseguito, folgorato di flagelli perfino tra i suoi. In Fabula mistica, Michel de Certeau estrae l’esempio della donna umiliata dalle consorelle, obbligata alle briciole, agli scarti, narrata da Palladio nella Storia lausiaca:

“Si sostenta nell’essere solo questo punto di abiezione, il ‘nulla’ che ripugna. Ecco ciò che ‘preferisce’: essere la spugna… Nessuna discontinuità fra lei e i rifiuti: non ‘mastica’; niente separa i resti dal suo corpo. Essa è questo resto, senza fine – infinito… Prende su di sé le funzioni corporee più umili e si perde in un insostenibile, al di sotto di ogni linguaggio”.

L’esclusione da tutto le permette di essere in esclusivo rapporto con il Tutto, Dio.

Da qui uno sbilanciamento verso lo schifo, il deragliamento del corpo, l’ingoiare le putride vestigia della carne e rincorrere i corrotti. E dunque l’eminente Veronica Giuliani (1660-1727) “ispezionata corporalmente in modi umilianti, segregata, interdetta dal comunicare con l’esterno” e costretta dal padre confessore a “leccare sterco e inghiottire insetti” (Giovanni Pozzi), che nel diario celebra le sofferenze subite, ne implora (“O pene care venite a me. O patimenti preziosi, arichitemi con il vostro valore! Voi siete così disprezzati da tutti, venite a me, ponetevi in me, spogliate me di me e io sia tutta nel patire per patire di non patire”). L’abietto non ha bisogno di brandire alcun antinomismo: è lui bandolo e bandiera, fuori legge, a sovvertire ogni concetto di legge, ogni competenza teologica.

Il Barocco è l’epoca delle donne abiette, che teatralizzano la propria abiura del mondo; è l’epoca, in effetti, delle mille Maddalene che smuovono i cardini della storia dell’arte, che della devozione fanno grido, luridume e pianto. Spesso nobili, spesso belle, spesso date in pasto a mariti di intransigente idiozia, spesso madri, sempre sofferenti, impossibili, inafferrate. Fuggono dalla vita per la fogna, queste donne, al palazzo preferiscono l’ospizio, di Cristo amano il deposto, il fustigato, il corpo morto, da leccare, da levigare con erosione di lacrime, labbra, sesso esploso, esposto. Danno dignità all’indecente, decoro al decano del lutto, avvenenza al rivoltante.

Da qui l’inquieta Louise du Néant (1639-1694), nata Louise de Bellère du Tronchay, nobile, colta, affascinante, che opta per l’analfabetismo e l’immondo, si crede la Maddalena, finisce “rinchiusa nell’edificio riservato alle donne, La Salpetrière, dove duemila internate vivevano in condizioni disumane, immerse nella sporcizia e nel lezzo, mangiate dai topi e dai vermi, costrette a una tragica promiscuità, abbandonate senza protezione alla violenza e alla follia delle loro compagne” (Benedetta Craveri). Nelle lettere, eclatanti, descrive con ardore il decorso delle proprie umiliazioni:

“Il giorno di venerdì santo, le mie padrone povere mi tolsero la scodella e la mia porzione, e mi lasciarono soltanto qualche rifiuto; ne riempirono i miei abiti; mi rimproverarono la mia follia; mi caricarono di maledizioni spaventose: Dio mi ha fatto la grazia di ringraziarle, di chiedere loro perdono”.

Le triomphe de la pauvreté et des humiliations, non a caso, è il titolo su cui si erge l’epistolario. Tra l’altro, la pia Madame Guyon (1648-1717) era fiera di bere lo sputo che le riservavano i malati di cui si dava cura; Marguerite-Marie Alacoque (1647-1690) progrediva mortificandosi,

“Un giorno Gesù mi rimproverò così tanto che, dovendo pulire il vomito di un malato, non potei fare a meno che farlo con la lingua, e mangiarlo”.

Il ribaltamento della prassi cristiana è micidiale: non si sta con gli ultimi ma ci si umilia, non c’è altro attivismo che la sottomissione.

Più che a spiegazioni “scientifiche” – che riducono il religioso a patologia – occorre rivolgersi ai manieri letterari. L’abiezione, il degrado, sono narrati da Dostoevskij e da Marcel Jouhandeau, da Henry de Montherlant – che ha lo sguardo di chi decreta il degrado – e da Banine, sua ostile discepola, che nel catartico, feroce diario della conversione, Ho scelto l’oppio, comprende la sola etica cristiana:

“Davanti a Dio la sensazione di non essere nulla mi lascia solo per far posto a uno schiacciante sentimento del peccato. E non è il più piccolo dei paradossi di questa religione (vera sfida al buonsenso) il fatto che, malgrado questo annientamento essa arrivi a magnificare l’uomo, la sua vita, la sua morte, le sue più piccole azioni. Ne fa al tempo stesso un verme e un re”.

Il cristianesimo sfida il buonsenso, è insensato, si muove tra estremi che stremano, non è per i cauti ma per i temerari e gli intrepidi, intraprende follie, perché l’ultimo è il primo, l’inadatto primeggia, la Croce è un trono, la corona una macchina da tortura, la flagellazione il solo applauso. “È terribile cadere nelle mani del Dio vivente”, scrive San Paolo. La bellezza è tutta lì, nella donna sfigurata, nella figura del martire.

Essere vivi sul soffio della morte, redimere tutto, da irredenti, radiosi nella rovina.

L’abietto è l’autentico eletto.

*Si pubblica per gentile concessione un articolo scritto per il rinato “Bestiario”, n. 17, la rivista delle edizioni Gog, dal titolo complessivo “Restare vivi”

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