Affascinante, per quanto appena lambito (pur se con autorevoli eccezioni, dagli studi di Alvaro Valentini sul rapporto gnoseologico fra il soggetto poetico e la realtà fenomenica a quelli di Antonio Prete sulla poetica dell’analogia), il possibile parallelo fra due grandi maestri ‒ forse i maestri per eccellenza ‒ della modernità letteraria, ossia Leopardi e Baudelaire.
Modernità di fronte alla quale, peraltro, Leopardi ‒ vicino in questo a Foscolo come a Keats, a Schiller, a Hölderlin, o anche al Monti del Sermone sulla mitologia, che lamentava il soffocare e l’isterilire della poesia sotto il greve incarco dell’«arido vero che de’ vati è tomba» ‒ sembra ancora, a tratti, pur se senza nostalgica elegia, volgersi all’antico come ad un remoto eliso, ad una patria perduta (ma in fondo anche Baudelaire vagheggerà «verdi paradisi» e «ricordi di epoche nude»); mentre Baudelaire, come Benjamin vide meglio di tutti, della modernità urbana e massificata, con i suoi stranianti chocs e le sue allegorie frante ed irrelate, fu cantore lucido, vigile e pienamente, dialetticamente consapevole.
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Non è escluso che Baudelaire leggesse l’italiano. La suggestiva testimonianza di Léon Cladel in Bonshommes, del 1879, lo mostra ‒ «mago delle lettere» dalle «mani di patrizio» ‒ come un vero invasato della Parola, immerso nel molteplice e fluente labirinto delle lingue vive come di quelle morte (quasi come D’Annunzio o come l’ultimo Joyce), intento a compulsare vorticosamente, anzi letteralmente a «divorare», una miriade di lessici (dalle lingue moderne al greco e al latino fino addirittura all’ebraico) per alimentare il proprio genio verbale; un artefice attento ad ogni parola, addirittura ad ogni lettera, alla ricerca del segno linguistico che fosse juste, esatto (quasi il mot juste, irripetibile ed insostituibile, di Balzac e di Flaubert), ma nello stesso tempo riuscisse a cogliere la sfumatura, la nuance, di una data idea o atmosfera psicologica, fino ad attingere la ‒ forse inattingibile, ma proprio per questo ancor più degna di essere inseguita ‒ «expression absolue», definitiva, scolpita.
E sarebbe interessante, forse, vedere, proprio in questo sfondo polifonico e stratificato, sapientemente esplorato, per vie diverse, da entrambi, di echi etimologici o paretimologici scaturenti dalle lingue e dalle epoche più disparate, la sorgente prima delle affinità fra i due poeti: sentire, ad esempio, per Baudelaire, nel Gouffre l’eco del greco kolpos, che è grembo, piega avvolgente, ma anche cavità, vuoto, nulla, nell’Abme la traccia di bathos, bythos, barys, fondo oscuro, cupa voragine, pesantezza dell’angoscia ‒ in Leopardi, nell’arcano l’arca, lo scrigno sacro e funebre, che protegge ciò che è prezioso e nasconde l’orrore del disfacimento, nel tedio il tarlo, la corrosione torturante e pertinace del latino edere, di ciò che morde, divora e consuma, ma anche la durezza del tempo (del tempo vorace, tempus edax) che consuma se stesso e noi (come nell’Ennemi di Baudelaire: «– Ô douleur ! ô douleur ! Le Temps mange la vie, / Et l’obscur Ennemi qui nous ronge le cœur / Du sang que nous perdons croît et se fortifie!») ‒ e, in entrambi, nella mémoire e nella rimembranza, una radice che vale pensiero, ricordo, ma anche sollecitudine e cura; in profondo il riaffiorare del sanscrito bhu, terra, generazione, germinazione, genitura, ma anche, con ontologica purezza, Essere; e, cercando proprio questo sottile e latente «suono dell’essere», sentire, nell’uno come nell’altro, la giustapposizione e la compenetrazione fonosimbolica, anzi l’intreccio indistricabile, fra la profondità della discesa alle origini ‒ ma anche del precipizio verso la notte e l’annientamento ‒, evocata perlopiù da suoni duri, chiusi, cupi, e la sottigliezza radiosa dell’etereo e dell’ideale, che ha invece la luce delle liquide e delle vocali aperte.
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Per limitarsi all’accostamento, lampante, fra La mort des amants e Amore e morte, si leggano da un lato versi come «Nous aurons des lits pleins d’odeurs légères, / Des divans profonds comme des tombeaux / (…) Un soir fait de rose et de bleu mystique, / Nous échangerons un éclair unique»; dall’altro «Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte / Ingenerò la sorte. / Cose quaggiù sì belle / Altre il mondo non ha, non han le stelle. (…) / Quando novellamente / Nasce nel cor profondo / Un amoroso affetto, / Languido e stanco insiem con esso in petto / Un desiderio di morir si sente».
E, ancora, in Élévation, si potranno notare analogie con l’Infinito in quello sguardo, in quello spirito che spaziano «par delà les confins des spheres étoilées» fino ad arrivare a solcare, come un mare, «l’immensité profonde» («immensità» e «profondissima quiete», dice Leopardi, con la stessa sonorità insieme sommessa, soffusa, eppure profonda); o, in Le parfum, lo «charme profond, magique, dont nous grise / Dans le présent le passé restauré» (che fonde, nella stessa dimensione del profondo, le «morte stagioni» e «la presente, e viva», unite nella reminiscenza improvvisa dell’«eterno»); e, sul filo degli stessi motivi, con un presentimento, già, quasi, di quella che sarà la «mémoire involontaire» di Proust e di Bergson, nella Cloche fêlée, ecco «Les souvenirs lointains lentement s’élever / Au bruit des carillons qui chantent dans la brume», come nelle Ricordanze («Viene il vento recando il suon dell’ora / Dalla torre del borgo. Era conforto /
Questo suon, mi rimembra, alle mie notti. / (…) Qui non è cosa / Ch’io vegga o senta, onde un’immagin dentro / Non torni, e un dolce rimembrar non sorga»).
Ma in Baudelaire trova forse eco diretta anche la cupa e ferma e virile rassegnazione («Or poserai per sempre, / Stanco mio cor») di A se stesso: «Plaisir, ne tentez plus un coeur sombre et boudeur»; così come in Le Gouffre, dietro la stessa suggestione di Pascal (esplicitamente citato) che sta dietro l’Infinito, trovano voce lo sgomento, lo smarrimento e la vertigine dell’immesità, degli «eterni silenzi»: «En haut, en bas, partout, la profondeur, la grève, / Le silence, l’espace affreux et captivant… / (…) Je ne vois qu’infini par toutes les fenêtres».
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Che Baudelaire potesse leggere Dante nell’originale parrebbe confermato dal fatto che, nel Salon de 1846, la traduzione dantesca dell’amico Pier Angelo Fiorentino è definita «la seule bonne pour les poètes et les littérateurs qui ne savent pas l’italien». Da essa è citato, a commento del Delacroix, un passo del quarto canto dell’Inferno. E il poeta, leggendo quei versi, può aver meditato a lungo intorno a quell’enigmatico fuoco orlato, e forse soverchiato, dalle tenebre, a quel globo radioso di luce «ch’empisperio di tenebre vincia»: proprio lui che del contrasto perenne di luce e tenebre, di fascinazione e sgomento dell’ignoto, di Male come aberrazione e come fonte di autocoscienza, fece il fulcro e il nervo della propria vocazione e del proprio destino.
Proprio gli echi danteschi, per quanto latenti, possono offrire un altro tramite, in apparenza marginale, dei rapporti, in questo caso indiretti, fra Leopardi e Baudelaire: Dante perseguitato dal fato, titano solitario, doloroso e fiero, «al cui sdegno e dolore / Fu più l’averno che la terra amico» (disposto dunque a cercare nelle profondità infere come nelle altezze celestiali una possibile o impossibile redenzione), prova vivente e tormentosa della nascita della lirica italiana dallo spirito del dolore, e insieme del disperato attaccamento alla vita (dalla Cura, direbbe Heidegger), del canto dal lamento, dell’armonia dalla ferita («dal dolor comincia e nasce / L’italo canto»); ma, insieme, Dante come possibile, quasi rabbioso, contraltare (quasi in accordo con la schopenhaueriana oscillazione fra il dolore e la noia) ad una (esistenzialistica ante litteram) ontologia e poesia del Nulla («a noi presso la culla / Immoto siede, e su la tomba, il nulla»); e, nel contempo (nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica), Dante «nuovo Omero», emblema quasi vichiano o schilleriano di un’ispirazione aurorale e primigenia che pure, secondo l’essenziale, e pur diversamente graduato e bilanciato, paradosso della poetica romantica e postromantica, fonde l’evasione fantastica con la più o meno vigile, più o meno compenetrata e immersa nella creazione e nell’ispirazione, autocoscienza critica («l’intelletto in mezzo al delirio dell’immaginativa conosce benissimo ch’ella vaneggia»), e proprio attraverso questa compenetrazione di naturalezza e razionalità, proprio in virtù di questa «condizione artificiata» tipica della modernità, è in grado di cogliere (e qui era forse il Di Breme critico di Byron, sulle orme dei primi Romantici tedeschi, ad avere anticipato tanto Leopardi quanto Baudelaire nella loro poetica dell’analogia) «le ‘armonie della natura’ e le ‘analogie’ e le ‘simpatie’», e di recuperare, per così dire di restaurare e ricucire, deliberatamente, una perenne e metastorica infanzia dell’umanità («quello che furono gli antichi, siamo stati noi tutti, e quello che fu il mondo per qualche secolo, siamo stati noi per qualche anno, dico fanciulli e partecipi di quella ignoranza e di quei timori e di quei diletti e di quelle credenze e di quella sterminata operazione della fantasia»).
E come non ricordare, qui, le pagine baudelairiane, piene di risonanze vichiane, e pascoliane ante litteram, nel Peintre de la vie moderne sull’ispirazione come infanzia ritrovata, come condizione simile a quella limpidissima e fervida esaltazione, a quella sorta di stordita eppure intensissima chiaroveggenza, proprie del convalescente che torna lentamente alla vita: «L’enfant voit tout en nouveauté; il est toujours ivre. Rien ne ressemble plus à ce qu’on appelle l’inspiration, que la joie avec laquelle l’enfant absorbe la forme et la couleur».
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Accanto a Dante, Petrarca. Non tanto nel senso in cui Sainte-Beuve (che, si noti, nel saggio su Leopardi lo paragonava ad un paradossale «Pétrarque incrédule et athée» che aveva torbidamente amato e venerato l’impuro abbraccio di Eros e Thanatos) rimproverava a Baudelaire, rispondendo all’invio delle Fleurs du Mal, di avere, nell’intento di «strappare ai demoni della notte i loro segreti», «petrarchizzato sull’orrido»; quanto in quello ‒ ma in fondo solo lievemente dissimile ‒ di un voler giustapporre alla morte, alla caducità, al disfacimento, l’assoluto della Bellezza, fino a sublimare e risolvere, quasi, gli uni nell’altro; ma anche, più puramente, sotto il segno della diretta, platonica epifania di quella stessa Bellezza, che sembra provenire da un mondo anteriore ed incorrotto, ed essere destinata a riapparire, forse, solo nell’orizzonte aperto, indefinito e aleatorio dell’eterno.
E qui viene in mente una pagina straordinaria dello Zibaldone (16 settembre 1823) in cui Petrarca è accostato a Platone (ma con un implicito ed allotrio richiamo a Lucrezio circa l’inesauribilità del desiderio, che sempre tende ad un piacere infinito) per l’idea dello «spavento» che la Bellezza suscita nell’animo nobile che la contempla, e che non sa rassegnarsi all’idea di dover perdere quella visione e quell’estasi che vorrebbe eterne ed immutabili («La forza del desiderio ch’ei concepisce in quel punto, l’atterrisce per ciò ch’ei si rappresenta subito tutte in un tratto, benché confusamente, al pensiero le pene che per questo desiderio dovrà soffrire; perocché il desiderio perpetuo e non mai soddisfatto è pena perpetua»).
L’istante epifanico in cui si manifesta la Bellezza (il platonico exaiphnes, la subitanea ma fatale metamorfosi interiore indotta dalla percezione dell’oggetto amato) si proietta, e insieme si dissolve, nell’eterno, di cui la morte è soglia inevitabile. «Un éclair… puis la nuit! – Fugitive beauté / Dont le regard m’a fait soudainement renaître, / Ne te verrai-je plus que dans l’éternité?». «E potess’io, / Nel secol tetro e in questo aer nefando, / L’alta specie serbar; che dell’imago, / Poi che del ver m’è tolto, assai m’appago». La donna reale, pur se intravista solo per un breve istante (o forse solo ectoplasmica allucinazione?), si assottiglia e sfuma nella stessa indeterminatezza della donna irreale e solo sognata.
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Ad ogni modo, al di là di ogni ardita ipotesi e di ogni metastorica e quasi medianica corrispondenza, dapprima, nel 1833, le traduzioni del de Sinner di tre Operette morali (traduzioni affidate, peraltro, ad una rivista minore, Le Siècle, e quasi inosservate), poi il celebre saggio del 1844 di Sainte-Beuve, apparso sulla diffusissima Revue des deux mondes, poterono indiscutibilmente mediare la conoscenza di Leopardi presso il pubblico francese.
Per quanto ciò possa apparire scontato, ad apparentare i due autori è innanzitutto la potente suggestione dell’indeterminato, dell’indefinito, del vago. È stato, del resto, Antonio Prete a richiamare il mare dell’Infinito a proposito dello splendido verso baudelairiano «berçant notre infini sur le fini des mers» ‒ dov’è, peraltro, l’infinito interiore del Soggetto postromantico a proiettare verso l’esterno la propria ripiegata vastità, infrangendo i limiti del reale.
Peraltro, la simbologia del Mare come Infinito e del Naufragio come annullamento del Soggetto nel Totalmente Altro affiora a più riprese nelle Fleurs du Mal; simbologia legata, per di più, in entrambi gli autori, alla suggestione, tipicamente romantica, della Musica, sulle cui onde o ali «per mar delizioso, arcano / erra lo spirito umano» («La musique souvent me prend comme une mer», si legge in Baudelaire con una corrispondenza quasi letterale).
D’altro canto, tratti e toni e atmosfere baudelairiani ante litteram sembrano permeare la versione, splendida e ardita, che Sainte-Beuve diede dell’Infinito: «Et le calme profond, et l’infini silence / Me sont comme un abîme»; «Le grand âge éternel m’apparaît, avec lui / Tant de mortes saisons, et celle d’aujourd’hui, / Vague écho».
Ma sono, l’eterno e l’indefinito baudelairiani, una dimensione che sfuma nel vuoto e nel nulla (nel «solido nulla», lo chiamava Leopardi). Il molteplice e concorde sforzo creatore, di generazione in generazione, profuso dall’umanità approda alle rive divine dell’eterno solo per spegnersi e morire come sulla «silente riva» della Saffo leopardiana. «Cet ardent sanglot qui roule d’âge en âge / Et vient mourir au bord de votre éternité». La perfezione assoluta e definitiva della forma artistica in cui sentimenti e ideali trovano la propria consistenza e testimonianza perenni è anche il limite estremo del loro divenire cosa morta, inerte, figurata ed effigiata una volta e per sempre.
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«Conosciuto – il mondo / non cresce, anzi si scema», si legge nella canzone Ad Angelo Mai. Ogni determinazione è negazione. La conoscenza, circoscrivendo e definendo il proprio oggetto, pone limiti all’esperienza del mondo. Concetti analoghi in Le Voyage di Baudelaire: «Pour l’enfant, amoureux de cartes et d’estampes, / L’univers est égal à son vaste appetit».
Un immaginario cartografico, questo, che rimonta forse già all’Ariosto delle Satire: «Tutto il mar, senza far voti quando / lampeggi il ciel, sicuro in su le carte / verrò, più che sui legni, volteggiando». Il segno cartografico designa, delimita, determina ‒ e insieme, indirettamente, evoca spazi ulteriori. Viene in mente, quasi, il «meridiano» ‒ la linea immaginaria, immateriale, ricorsiva, onniavvolgente, e perciò universale ‒ a cui Celan paragonava la parola poetica.
Ma in Baudelaire, come in Leopardi, alla suggestione del vago e dell’indefinito (e all’astrazione platonica, ad essa legata, della forma pura, dell’«alta imago», dell’incorruttibile eidolon come contraltare all’orrore ‒ tanto in Baudelaire quanto nel Leopardi sepolcrale ‒ della sofferenza, della morte e del disfacimento che non risparmiano la Bellezza pura e fragile: «or fango / Ed ossa sei: la vista / Vituperosa e trista un sasso asconde» ‒ «J’ai gardé la forme et l’essence divine / De mes amours décomposés») si contrappongono la consapevolezza, che era già in Sade, di un universo e di una Natura «ordinati al male», e ‒ quel che più conta ‒ l’amara ironia (diabolica, sardonica, sanguinosa, feroce in Baudelaire, certo più distaccata, lieve, apollinea, temperata di stoico equilibrio, in Leopardi: «Su l’erba / Qui neghittoso immobile giacendo / Il mar la terra il ciel miro e sorrido») che in entrambi risponde al dolore insensato del mondo.
A Baudelaire furono rimproverati i «blasphèmes à froid, imités de Leopardi». Nel Cygne di Baudelaire, l’«homme d’Ovide» (sola creatura capace di «erectos ad sidera tollere vultus»: Metam., I, 85-86) osa, come nella Ginestra di Leopardi (il cui antecedente più prossimo è però l’Epicuro lucreziano: «est oculos ausus primusque obsistere contra», De rer. nat., I, 67), sollevare «gli occhi mortali incontra / al comun fato», scostando gli austeri velami dell’enigma metafisico. Più accentuata è certo, in Baudelaire, la venatura luciferina e prometeica, la sfida gettata «vers le ciel ironique et cruellement bleu» (dove, peraltro, anche il binomio sadiano d’ironia e crudeltà fa pensare a Leopardi).
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In un frammento che contiene la sua unica esplicita menzione di Leopardi, Baudelaire lo colloca, accanto ad altri, tra Byron e Lermontov. Difficile non pensare, oltre che al Demone di quest’ultimo (incarnazione romantica del Demònico, dell’«arcano mirabile e spaventoso», direbbe Leopardi, della «cosa arcana e stupenda», dello straordinario e tremendo enigma dell’esistenza umana, e insieme del lucido travaglio di un pathos trasfigurato in conoscenza: «Un’altra sofferenza ora t’attende, / nuove, diverse estasi profonde; / (…) l’abisso dell’ardita conoscenza»), al ruolo che Arimane, divinità maligna, signore e fine supremo ed occulto di tutti i sacrifici, di tutte le sofferenze, margine estremo dell’infinità del dolore, ricopre nel Manfred di Byron («To him Death pays his tribute; Life is his, / With all its infinite of agonies, / And his the spirit of whatever is»); quello stesso Arimane ‒ «arcana / malvagità, sommo potere e somma / intelligenza» ‒ a cui Leopardi abbozzò un inno incompiuto.
A Parigi, presso Baudry, nel 1842, vedono la luce i Paralipomeni della Batracomiomachia. Proprio nel cuore di «un mar che senza termini apparia», un’isola racchiude la porta d’accesso ad ilarotragici e paradossali ‒ surnaturels, avrebbe potuto dire Baudelaire ‒ inferi avvolti da una «nebbia putrida e fitta».
Il vasto risus sardonicus, a fatica trattenuto, che sembra scuotere gli inferi e percorrere, quasi vanificandole, tutte le memorie della storia là confluite e come pietrificate, non è che l’altra faccia, la più consapevole e amara, e forse oscuramente e ambiguamente salvifica, della visione tragica.
Quella che Baudelaire ‒ passato attraverso la lezione di Poe con la sua razionalità assidua ed impietosa, tenuta ferma e costante proprio davanti al mysterium iniquitatis, all’enigma del Male e del Dolore ‒ chiamerà, nell’Irrémédiable, «phare ironique, infernal» ‒ «la conscience dans le Mal»: ad un tempo senso etico intimamente sentito, autentico, non dogmatico, autocoscienza creatrice, eroico amor fati, consapevolezza disperata e insieme lucidissima.
Matteo Veronesi