Nelle rare fotografie – la bellezza non si può catalogare in album – ha la bellezza di una pietra esotica; ha occhi ‘minerali’, non più, neppure, animaleschi. Per questo, immagino, pietrificò frotte di uomini, preferì svanire, con feroce eleganza, tra le spire della storia. Si chiamava Umm-El-Banine Assadoulaeff, figlia eccellente, nata a Baku il 18 dicembre del 1905, in una alcova di borghesia e denaro, tantissimo (merito dello zampillio del petrolio). Il padre fu ministro nell’effimera Repubblica dell’Azerbaigian, poi inghiottita dal regime sovietico; lei rifiutò il matrimonio imposto – fu data in pasto allo sposo a quindici anni –, fiutò aromi parigini e nel 1924 è a Parigi, a guadagnarsi la vita con il genio del corpo – posò per case d’alta moda – e della testa – si diede al giornalismo, alla radio, alle traduzioni. Visse a lungo. Il redattore incaricato di redigere il suo ‘coccodrillo’, su Le Figaro, era il 1992, intinse la penna in inchiostro di Costantinopoli, “la sua vita è quella di un personaggio da romanzo che ha attraversato il secolo, attirando, come un magnete, le più singolari figure del suo tempo”. Effettivamente, pubblicò, nel 1942, il primo libro, Nami, per Gallimard. Ma si sbriciolò, tra le leggende di un’era in fiamme; di lei si è tornato a parlare ora perché il romanzo autobiografico, Jour caucasiens, edito da Julliard nel 1946, è in auge, in UK, dall’anno scorso, come Days in the Caucasus (per Pushkin Press) e quest’anno, da noi, come I miei giorni nel Caucaso, grazie – sempiterna lode a loro – a Neri Pozza.
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Per semplicità, si firmava Banine. Fu una di quelle figure superbe e fantomatiche che danzavano per i circoli dei russi emigrati a Parigi: conosceva Ivan Bunin e Zinaida Gippius, Marina Cvetaeva e Constantin Balmont; chiacchierava con Lev Sestov e Nikolaj Berdjaev. Dicono che sia stato André Malraux a spingerla a pubblicare: lei, dal canto suo, mirava agli uomini più inarrivabili di quegli anni, dotati di una granitica personalità. Nutriva una sregolata ammirazione per Ernst Jünger.
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Non è difficile immaginare perché a Jünger non dispiacesse quel romanzo. Questa è Banine nella sua autobiografia caucasica: “Nella morte mi piace la semplicità: mi piace l’aspetto ascetico di un cimitero musulmano. L’ultimo che ho visitato in terra d’Islam si trovava su una collina da cui si vedeva il Bosforo. La bellezza del cielo, del luogo, del mare si sommavano per creare una bellezza immensa, d’una perfezione che, più che piacere, dà sofferenza. Ma sofferenza di una strana qualità: al di là di essa, spunta la gioia. Dapprima si prova il senso dell’evanescenza della bellezza, ma poi si ha la certezza che a un certo grado la perfezione raggiunge l’eternità e lì rimane, inalterabile punto fisso”. Nella lettera che introduce I miei giorni nel Caucaso, Jünger accenna ai suoi anni parigini – “sul mio soggiorno in questa città si è formata una leggenda, secondo la quale vi conducevo una vita simile a quella degli ufficiali di Annibale accusati di ‘essersi addormentati nelle delizie di Capua’” – e si lancia, pur con cristallina fermezza, in intimità: “Dopo che il suo libro mi ebbe dato il piacere e la gioia dei ricordi, l’ho sistemato nella mia biblioteca: quando lo vedrò, penserò ancora spesso a lei. Mi farebbe piacere ricevere una sua immagine da inserire tra le sue pagine”.
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Banine conosce Jünger nel 1942; per lui “è la chiave giusta che apre le porte dei salotti intellettuali della città”. Di certo, è il tramite del suo menage con Sophie Ravoux, “sposata, trentacinquenne, tra i due si instaura e quasi si scatena, un rapporto di natura intellettuale e anche erotica: insieme conoscono il quartiere, frequentano i luoghi di divertimento, e passano le notti in un appartamento segreto in rue de Bellechasse” (Heimo Schwilk, Ernst Jünger. Una vita lunga un secolo, Effatà Editrice, 2013). Banine dedica a Jünger tre libri: Rencontres avec Ernst Jünger (Julliard, 1951), Portrait d’Ernst Jünger (Le Table Ronde, 1971) e Ernst Jünger aux faces multiples (L’Âge d’Homme, 1989). Una dedizione in forma di grifo la lacera. Così Banine a Jünger, nel luglio del 1950: “Sono ancora la tua schiava? Ho paura che lo resterò per il resto della mia vita, qualunque cosa accada, anche se altri uomini entreranno nella mia vita, anche se mi risposassi… Questa schiavitù è la punizione per la mia non certo irreprensibile condotta con altri uomini”. Per Jünger, quelli sono gli anni, artisticamente, tra Heliopolis (1949) e il Trattato del Ribelle (1952). Nonostante le sue pressioni – 2 ottobre 1950: “Non ti chiedo se sarai a Parigi in autunno, per non scocciarti, che tu sappia, però, che sono sempre la tua schiava, pronta a raggiungerti in un gelido appartamento, a fare ciò che vuoi, a soddisfare ogni tua fantasia” – Jünger mantiene il rapporto su un livello di stima intellettuale (cito da: Allan Mitchell, The Devil’s Captain. Ernst Jünger in Nazi Paris 1941-1944, 2011).
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In verità, Banine è tutto fuorché una schiava, è lei, semmai, che schiavizza. Delusa dal rapporto con Jünger, astrale, astratto, estraneo alla vita, Banine finisce per votarsi a Dio. Nel suo testo più alto, sconcertante, J’ai choisi l’opium (Stock, 1959; tradotto come Ho scelto l’oppio dall’editore Massimo nel 1965), scrive di questo “amore assurdo, impossibile, che ha preso in me il posto del mito, della religione, della vita”. Il tormento – “Più che amore, fu idolatria. Ma gli idoli non fanno soffrire i loro fedeli, il mio, invece, fu un carnefice… Sono congelata nel profondo. Cerco una fuga – non la trovo – sboccio nell’urlo” – porta Banine, nel 1956, ad abiurare l’Islam, in cui è nata, e diventare cattolica. In mezzo, si sfoga con Henry de Montherlant.
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La lettera di Montherlant, scrittore di cupa prestanza, d’infallibile cinismo, scritta a Parigi il 24 luglio del 1952 a Bandine, vale la traduzione.
“Gentile signora, riesco a malapena a esprimere il profondo disprezzo che nutro per quelli – e sono sempre più numerosi – che invecchiando alzano gli occhi al cielo – e il prete scivola nella breccia aperta per lui. Quelli vissuti tutta la vita con una fede sono menti fragili o buoni di cuore, con una stortura: in quella alberga ‘Dio’. Per loro possiamo provare compassione, meritano indulgenza, ma quelli che per la vita hanno vissuto “come vuole la ragione” per poi decomporsi e “trovare Dio” nel terrore della fine, non senza il gusto di fare proseliti e di impartire lezioni, per costoro, ripeto, non nutro che un disprezzo senza fine. Tutto ciò non riguarda la questione sulla felicità dei credenti. La mia sola domanda è: la felicità deve essere pagata con il prezzo della codardia e dell’imbecillità?
Non ho letto il libro della Signora Yourcenar. La storia romanzata per me è una ratatouille: la vita è così bella, così limpida la storia, perché pretendere di ricostruirle? Tutti quelli che hanno bisogno della Signora Yourcenar per scoprire i Greci e i Romani e scoprire che non erano poi così stupidi, mi sembrano testimoniare l’ignoranza dei nostri tempi. Mi ha inviato un libro di Jünger. Le ho risposto, mi pare, che lo avrei letto questa estate. Cara Signora, la assicuro nei miei ricordi più cari. Montherlant”.
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Banine tesse una specie di duello a distanza tra Jünger e Montherlant. Così in una lettera del 30 dicembre 1953 a Montherlant. “Ciò che amo in voi è l’atteggiamento nei riguardi della vita, il personaggio. Nello stesso tempo, si può essere attratti da Tolstoj come da Montherlant, uno il contrario dell’altro… E se amo meno il vostro disprezzo per l’umanità, lo capisco fin troppo bene, essendo devastata dal disprezzo, difendendomi da esso invano. ‘Devi combattere sempre la tentazione del disprezzo’, mi dice Jünger. La ragione mi intima di stare con lui, il cuore è con voi: l’umanità è assai più spregevole che ammirevole. Ma dovrebbe intervenire la carità”.
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A 50 anni, delusa da amorazzi e intellettuali, Banine si diede all’ingordigia di Dio. Il suo diario ha una vastità famelica, l’anagramma di un amore che strazia. “Non sapevo che se sei innamorato dell’assoluto devi cercarlo altrove, non nella creatura: essa non può soddisfarti”; “Amare gli spettri: a cosa serve? Tanto vale conficcarsi in un convento, fidanzarsi con Gesù”; “Ho 48 anni. Non ho gioia, ma ho ottenuto una vittoria. Penso di avere perso l’ossessione per X. Eppure, quella cena in cui abbiamo parlato solo di lui… l’ho estinta in un torrente di lacrime. Questo è grottesco. La castità mi pesa sempre di meno”; “Non scriviamo mai il libro decisivo, non accade mai l’incontro capitale, non troviamo mai una missione che sconvolga l’esistenza. Aspettiamo, aspettiamo e aspettiamo di nuovo, e finiamo per trovare un capello bianco e poi un altro e poi ci affanniamo a scoprire se c’è n’è ancora qualcuno nero. Ma continuiamo ad aspettare, perché l’attesa è dura, come te. Moriamo per frammenti, in attesa di una morte grandiosa quanto la natura”.
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Dal giogo di un amore al rischio di Cristo. Banine rompe i rapporti per rimpiangerli, per tornarvi con una intensità d’acciaio. In una riedizione de I miei giorni nel Caucaso, nel 1985, Banine annota, “Siccome la mia famiglia è rimasta celebre negli annali dell’Azerbaigian, e siccome ne sono l’ultima rappresentante o quasi, i sovietici mi hanno invitata a recarmi a Baku. Ma non mi sono mai decisa ad accettare il loro invito. Mentirei se dicessi che non lo rimpiango”. La fuga dal mondo gli capita per via dell’amore insoluto, per questo insolubile. “Quest’uomo distante, freddo, inaccessibile, non aveva altro da offrirmi che lettere, a malapena amichevoli. Sapevo che mi stavo consumando per una chimera, che avrei dovuto ucciderla per tornare a una vita normale. Fui incline all’insonnia, non dormivo quasi più”, scrive, ancora, nel suo diario. L’ultimo libro di Banine, del 1991, è un racconto filosofico sulla vita di Maria, attraversando gli apocrifi; due anni prima aveva scritto, ancora, di Jünger. L’amore sacro e l’amor profano. (d.b.)