Banine incontra Ernst Jünger a Parigi il 2 aprile del 1943. Racconta quel primo appuntamento in modo dettagliato, soprattutto ricorda l’imbarazzo che provò di fronte allo scrittore tedesco, nell’uniforme grigio verde della Wermacht, di cui aveva apprezzato Sulle scogliere di marmo. Visti i tempi di guerra, l’unica stanza riscaldata dell’abitazione di Banine era l’angusta camera da letto, occupata quasi interamente dal giaciglio su cui si sedette farfugliando, cercando spunti per la conversazione. Jünger occupava il solo altro arredo presente, una vecchia poltrona ricoperta da uno scialle a decorazione floreale che nascondeva il sottostante tessuto liso. Non le sembrava vero che quell’uomo, in silenzio di fronte a lei, fosse l’autore delle pagine così intense di cui si era appassionata e che erano il motivo per cui lo aveva cercato attraverso amici comuni: le parve glaciale, anche se tutto sommato fragile e poco marziale, di aspetto interessante sebbene pensieroso e distante.
Lo stesso giorno Jünger annota nei suoi diari parigini la nuova conoscenza, ma in termini meno lirici: «Nel pomeriggio, nella Rue Lauriston, invitato a bere un caffè alla maniera turca da Banine, una maomettana del Caucaso meridionale, della quale ho letto, poco tempo fa, il romanzo Nami». Banine, pseudonimo di Umm el-Banine Assadoulaeff, ultima di quattro sorelle, era nata a Baku nel 1905 da una ricca famiglia proprietaria di pozzi petroliferi. La sua fu un’infanzia spensierata che in seguito raccontò nel libro I mei giorni nel Caucaso. Cresciuta nel rigore dell’educazione musulmana ma aperta alle contaminazioni occidentali, studiò il francese e il tedesco su sollecitazione del padre, uomo cosmopolita che ricoprì anche l’incarico di ministro dell’effimera Repubblica democratica dell’Azerbaigian. Quando nel 1920 fu istituito un governo sovietico e si avviò una politica di nazionalizzazione, il padre venne arrestato, spogliato dei beni, e costretto a rifugiarsi in Francia. Banine, appena quindicenne, fu data in moglie a un avvocato molto più vecchio di lei, in contropartita alla liberazione del padre; il matrimonio durò poco, lasciò il marito nel 1924 e si trasferì a Parigi dove dimorò fino alla morte, avvenuta nel 1992.
Prima di essere riconosciuta come scrittrice, Banine, un carattere fuori dal comune e una bellezza dai tratti esotici, gli occhi quasi di pietra, lavorò come insegnante di musica, poi come modella, infine come giornalista e traduttrice. Sempre al centro della vita culturale parigina, fu un ponte tra gli intellettuali russi, scampati alla rivoluzione comunista, come Ivan Bunin e Marina Cvetaeva, e quelli francesi per esempio André Malraux ed Henry de Montherlant che la indirizzarono verso la letteratura. Quando si incontrarono, Banine aveva meno di quarant’anni, una vita romanzesca alle spalle, Jünger quasi cinquanta e un passato da eroe della prima Guerra mondiale: lei rimase irretita dapprima dagli scritti, poi dalla figura di quell’ufficiale, se ne innamorò follemente. I loro incontri per un caffè, quasi un rito, proseguirono regolarmente fino alla primavera successiva, incontri in cui i due discutevano di letteratura e filosofia, talvolta di sesso: Banine era divisa tra il sentimento sempre più forte che provava per Jünger e la ritrosia a stringere un sodalizio con un’occupante, di cui pure sapeva la crescente avversione al Nazismo e con cui condivideva i pensieri che poi sarebbero stati raccolti nel libello La Pace, da lei stessa in seguito tradotto in francese. Jünger, al contrario, si dimostrava più freddo, in grado di dominare le passioni che pure riempiono le pagine di Irradiazioni, il volume che raccoglie i diari tra il 1941 e il 1945, un testo sublime nella sua densità, in cui l’acutezza dello sguardo del filosofo si intreccia con la miopia del cronachista che deve per necessità raccontare la giornata, in cui la superficie delle cose urge la profondità del pensiero, l’altezza della ragione rende sublimi anche gli inferi della storia: forse l’acme della riflessione jungeriana, uno degli apici della scrittura novecentesca, libro assolutamente da rileggere e compulsare riga per riga, composto nel momento in cui il Leviatano flette le sue ali nere sul mondo.
Sono gli anni dell’occupazione di Parigi da parte delle truppe tedesche e Jünger, in veste di ufficiale di collegamento, dimora nella capitale francese e, mentre la guerra imperversa altrove, tiene le fila di una sorta di comunità di intellettuali, una koinè culturale al di là delle singole appartenenze o provenienze: discute con Cocteau e Jouhandeau, incontra Picasso e Braque, aiuta Colette, litiga con Céline, parla con Gallimard e Sacha Guitry, fa colazione con Carl Schmitt, vede Drieu La Rochelle e Abel Bonnard; poi legge, libri acquistati dalle bouquinistes di quartiere o che gli prestano gli amici, la stessa Banine gli fa conoscere Aldous Huxley, soprattutto studia la Bibbia e Leon Bloy, ma anche trattati di filosofia, saggi di storia, romanzi, poesie da Omero e Byron; poi girovaga, cammina tra giardini e cimiteri, descrive le piante e i fiori, si dedica alle «caccie sottili» per soddisfare l’ansia di entomologo, frequenta donne, se ne innamora, ragiona di guerra con alcuni amici generali tedeschi della vecchia aristocrazia che con lui esprimono dubbi sul regime di Hitler; infine sogna, sogni che una volta sveglio gli rimangono addosso e che annota regolarmente e da cui trae, come un oracolo, presagi favorevoli o nefasti, la morte del padre o del figlio.
A guerra finita, la Germania sconfitta, Jünger fu ostracizzato in Francia in quanto collaboratore del nazional-socialismo, nonostante fosse stato uno degli ispiratori dell’attentato non riuscito a Hitler del luglio 1944; Banine che aveva ripreso i contatti divenne una sua fedele sostenitrice e ne difese l’opera, da principio nel volume Rencontres avec Ernst Jünger, pubblicato dall’editore Julliard nel 1951. Si incontrarono ancora, sia in Germania che in Francia; Banine lasciò in alcune lettere testimonianza della sua estrema passione; nel luglio del 1950 per esempio: «Sono ancora la tua schiava? Ho paura che lo resterò per il resto della mia vita, qualunque cosa accada, anche se altri uomini entreranno nella mia vita, anche se mi risposassi… Questa schiavitù è la punizione per la mia non certo irreprensibile condotta con altri uomini»; nell’ottobre dello stesso anno: «Non ti chiedo se sarai a Parigi in autunno, per non scocciarti, che tu sappia, però, che sono sempre la tua schiava, pronta a raggiungerti in un gelido appartamento, a fare ciò che vuoi, a soddisfare ogni tua fantasia».
Jünger si ritrasse, addirittura le scrisse che non avrebbe dovuto «molestarlo», lei rispose che non lo avrebbe più scocciato con le sue lettere, sottoscrivendo l’ultima con un addio che parve definitivo. In verità tennero corrispondenza per altri quaranta anni e lei gli dedicò altri due libri, Portrait d’Ernst Jünger: lettres, textes, rencontres nel 1971, ed Ernst Jünger aux faces multiples nel 1989. Le ultime fotografie ritraggono Banine ormai vecchia, Jünger ultracentenario le sarebbe sopravvissuto sei anni, ma a qualcosa era servita quella loro lunghissima amicizia e soprattutto la devozione di lei: nel 1980 al Centre Pompidou, in occasione di una lettura dedicata ai diari parigini, una sorta di riconoscimento tardivo, Jünger si presentò nelle sale del museo parigino accompagnato proprio da Banine: la voce di lei, nelle registrazioni dell’epoca, è titubante, quella di lui, malgrado l’età, ancora precisa, in un francese perfetto, che solo nasconde una piccola inflessione tedesca, ricorda quei giorni passati con la stessa fremente precisione.
Angelo Crespi