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Il delirio del desiderio. Tre film di Stanley Kubrick
Cinema
Massimo Triolo
Parlando del nuovo film di Cameron, Avatar, la Via dell’Acqua, vorremmo argomentare solo alcuni aspetti specifici e relativi al suo background solidamente ancorato a miti antichi e elementi sacri che sembrano avere scaturigine nei Vedanta e nella civiltà vedica: tutto fa pensare, infatti, a un lavoro di ricerca, presso i relativi archetipi, di proporzioni notevoli e tale da richiedere un discorso attento. Spendiamo allora qualche parola a proposito di questi precisi riferimenti che punteggiano tutta la pellicola.
Va detto che in sanscrito Avatar è lo strumento del divino (in via traslata, nella pellicola, strumento dell’umano). Originariamente esso è invece proprio il divino che s’incarna per mezzo dell’umano: vi prende dimora nella sua specificità qualitativa finita e delimitata. Tale specificità ha un compito, un Dharma, e detta un sentiero di vita. Il Dharma è più necessario e cogente, più forte delle azioni nei termini delle nude conseguenze e della loro reciproca contiguità apparente; quindi diverso dallo schema causa/effetto (più in carattere col Karma, per esempio). Le azioni dettate dal Dharma possono essere laceranti e ingenerare conflitti interiori, ma per loro tramite si apre la via della conoscenza e della consapevolezza in un attimo messianico-rivelativo (vicino al Kairòs greco) che è attimo felice in quanto conchiuso, in sé perfetto, e tempestivo. Attraverso questa sorta di portale sacro nella temporalità, si compiono il giusto e il bene (non concepibili secondo la legge terrena) in quanto qualità divine e di cui ogni uomo è veicolo di attuazione. In questo senso il Dharma conduce all’armonia con tutto l’esistente, più volte richiamata nel film come plesso sacro di fine e inizio, vita e morte, luce e ombra.
L’unione con il tutto è sentiero dell’illuminazione che porta all’eterno; l’umano, che ancora ne difetta, cerca col denaro di comprare l’Amrita (in Sanscrito è l’acqua della vita eterna o il divenire infinito e continuo del cambiare incessantemente forma), che nel film è poi l’estratto della ghiandola di un animale acquatico sacro talmente evoluto da avere nei propri meccanismi neuronali e umorali una sapienza indicibile: esso possiede linguaggio sviluppatissimo, padroneggia il canto come modulazione del suono e espressione di armonia, la filosofia, la matematica e la fisica e, soprattutto, un apparato emotivo assai superiore a quello della sfera cognitiva umana.
Secondo queste linee, uccidendo l’essere che la contiene – o l’esistente, che qui è lo stesso essendo rappresentato ogni ente come parte di un reticolo vivo, agerarchico e acentrato –, l’uomo rivela la sua natura predace e aggressiva. Egli è colonizzatore e guerresco, con una atrofia sconcertante del lato emozionale e empatico (nel film l’empatia vera è fusione tra esseri differenti e concreta forma di intelligenza), e tale da progettare in modo criminale forme di distruzione solo per sete di potere e conquista. Egli violenta la natura e non è difficile far rimontare questo concetto di dominio e assoggettamento al ceppo dell’empirismo filosofico inglese che tanta fortuna ha avuto nella scienza e nel pensiero neoterici. Non a caso, in esso l’elemento preponderante (ipertrofico?) è l’Io. Emerge invece nel film con una certa sottigliezza e veridicità il tema non solo del clan come realtà corale e coesa, plurima e pluralistica, ma della cellula famiglia: la sua unione è un vincolo potente e sacrario d’amore, e può portare alla rovina come alla salvezza (nel caso del film a una salvezza che si attua inaspettatamente, passando per una rovina) adombrando così il concetto all’origine del Manicheismo, per cui Bene e Male sono saldamente compenetrati e non possono sussistere separatamente: l’uno è il riflesso dell’altro.
Torniamo all’origine vedica e al concetto di Yoga (unione): è da precisare che nei colori del film si intravedono le Ere vediche (Yuga) che sono quattro; il blu sta a indicare, in particolare, il Kali Yuga, che è l’Era attuale (nel contesto del film come nella nostra effettività storica) è anche l’epoca più oscura, del materialismo e della tecnica spinta che soppianta il sacro (nella diegetica del film gli uomini hanno armi e mezzi avanzati ma capitolano di fronte al cuore e alla sapienza del sacro), epoca di divisione, separazione, paura e guerra. Il blu (necessità umana di espressione del Sé e di sé: passaggio ego-centrato da trascendere attraverso una voce e un linguaggio dedicati finalmente all’unione quale espressione potenziata delle singole identità e fondata sulla fiducia piuttosto che sul conflitto) va verso l’acqua incontrando il verde (un discorso un po’ meno e un po’ più che ecologista, di riappropriazione della connessione con la natura e con l’armonia e la sapienza che vi regnano) nonché verso la riconciliazione di mente e cuore. La frequenza del verde è quella del quarto Chakra (Chakra qui inteso come centro energetico spiraliforme la cui frequenza esprime la specifica lunghezza d’onda di una qualità vitale) cioè del cuore e dell’emozione, infatti nella storia narrata in immagini, perché di questo si tratta, ricorre il gesto di toccarsi il cuore come pegno di fiducia e rispetto.
Nel pregevole discorso del regista tutte le qualità negative del Kali Yuga sono spiccatissime e trovano la propria incarnazione nell’uomo, il quale non ha ancora accesso alla memoria divina (la memoria del divino è nel film centrale). L’Era del Satya Yuga, invece, è quella d’oro e ancora di là da venire, che nella pellicola si annuncia in essere nel finale ed è rappresentata dalla più dotata dei componenti della famiglia protagonista del film (la giovane Kiri).
Il film, va detto, è una festa per gli occhi: gli scenari sono maestosi e suggestivi al massimo grado, le scelte cromatiche felicissime e la messa in scena di un dinamismo plastico che rivela arte e armonia. Ciò che stupisce è che si assiste a un prodotto che concilia scelte commerciali con una possanza concettuale, tematica e espressiva assai superiore alla media di film analoghi.
Chiudiamo ricordando che il messaggio più significativo della pellicola è forse che l’amore è unione, compartecipazione, risonanza emotiva e cognitiva, e che la forma più alta di espressione di esso è abitare il proprio territorio (sia esso fisico o esistenziale o le due cose assieme) piuttosto che esprimerne possesso. Esso è una magia. E nell’odierna epoca ampiamente secolarizzata, tecnocratica e indicatrice di forme di Progresso spesso regressive sul piano valoriale, c’è forse bisogno di un pizzico di quella antica, universale magia e del suo canto.