Scrivere di Auguste Comte, oggi, equivale a scendere in campo sapendo di aver già perso l’incontro calcistico, ovvero giocare la classica partita persa in partenza. In fondo, la sua biografia può essere facilmente rappresentata attraverso l’aggettivo “perdente”. Una vita, la sua, oltremodo segnata dalla delusione, dalla sconfitta e dalle morse della malattia mentale, che gli fa conoscere l’inferno in terra delle stanze di un manicomio francese e le gelide acque della Senna in un tentativo di porre fine ai suoi tormenti. Né, avventurandosi in un’analisi delle sue riflessioni, riesce facile armarsi di pazienza e leggere (veramente) il Corso di filosofia positiva, che risulta, a ogni modo, pressappoco irreperibile e, soprattutto, indigesto (tanto ai più pazienti lettori quanto ai più arditi editori).
Comte, principale esponente del Positivismo sociale francese, vive tra le belle e pericolose speranze dell’amore e le rassicuranti illusioni di una scienza, quella dei positivisti, che progressivamente assume le sembianze di panacea per tutti i mali. A fare da cornice alla sua esistenza, quasi come si trattasse di un romanzo storico, la Francia della prima metà del XIX secolo, turbolenta e freneticamente ricca di idee, che di stare a guardare la storia proprio non ne vuole a che sapere. Il “progresso”, così, è motivo dominante e legge generale sia delle riflessioni di Comte che, da una prospettiva più ampia, della cultura del tempo; mentre la scienza, con la forza dirompente delle sue novità, unitamente all’inarrestabile trasformazione industriale dell’Europa, diviene incontrastato e indiscutibile punto di riferimento, nonché trampolino di lancio per il dominio europeo del mondo, ossia per quella sentita e dovuta missione “civilizzatrice” dell’uomo bianco nei confronti degli spazi terracquei e degli spiriti extraeuropei.
Auguste Comte, da buon figlio del suo tempo, è animato, fondamentalmente, da una profonda fede religiosa nella scienza e nel progresso scientifico, che, a ben vedere, trascende la scienza stessa, imboccando la strada dello scientismo e, quasi beffardamente, di ciò che è essenzialmente antitetico alla scienza stessa. Ciononostante, al di là degli aspetti più marcatamente “positivi”, risulta piuttosto interessante scorgere in alcune sue riflessioni delle “insane” analogie con la cultura dominante del nostro tempo. Scrivere di Comte, infatti, significa fare anche i conti con una sorta di vendetta postuma del pensatore francese, quasi a motivo delle sofferenze patite in vita. Lo spettro di marxiana memoria che si aggira per l’Europa non è affatto il comunismo, bensì Comte e il delirio positivo. Gli avanzamenti e i progressi scientifici del nostro tempo sono così importanti da aver fagocitato qualsivoglia riflessione epistemologica, determinando un prepotente ritorno del positivismo, ovviamente in abiti alla moda, e della religione scientista in tutti gli strati e i campi della società. La scienza come unico motivo di progresso dell’umanità, mantra del nostro tempo, è, in realtà, un vecchio manifesto, opportunamente spolverato e imbellito, di una vecchia pagina di storia europea, finita, poi, in tragedia.
“Ordine e progresso” è il comandamento che muove le ricerche del pensatore francese, il quale è convinto di poter scoprire nuove leggi fisiche che governano non la natura, ma la società. Di qui la possibilità di intervento e di dominio del “fenomeno sociale”, quasi come se si trattasse di un richiamo all’espugnazione della natura di baconiana memoria, ma chiaramente indirizzato alla società. In una stagione ricca di storicismo (hegelismo e marxismo), il tentativo di appellarsi alla certezze che l’aggettivo “scientifico” fornisce, in quel contesto storico, si risolve, però, nell’ennesimo parto del topolino (storicistico) da parte della montagna (il massiccio e scricchiolante impianto scientifico/antiscientifico), cioè nell’ennesimo tentativo di costruire una religione storicistica, che funga da conforto a quanti, delusi e illusi, hanno riposto fede, questa volta, nella scienza, dimenticando, tuttavia, la fondamentale lezione epistemologica di Galilei e Newton.
Eppure, tralasciando le importanti ambizioni e le pesanti influenze culturali del proprio tempo, non tutto è da buttare. A questo sfortunatissimo pensatore, sicuramente, vanno riconosciuti dei meriti, più di ordine pratico che scientifico. In primo luogo, è opportuno rimarcare il tentativo di evidenziare il ruolo attivo, e non più contemplativo, dell’uomo di scienza, ossia lo scienziato non è più semplice spettatore dei fatti, ma è chiamato a intervenire direttamente su di essi; in altri termini, a emergere è una sorta di “praxis” finalizzata a interventi concretamente migliorativi della società, e quindi della qualità della vita dell’uomo. Nonché l’insostenibilità scientifica e il superamento della lotta di classe per il buon funzionamento della società. Quel «vedere per prevedere» e «prevedere per agire» ne rappresenta la bellissima formula, che, a parere di chi scrive, dovrebbe configurarsi come un severissimo monito per la costruzione del rigore metodologico, indispensabile tanto alla scienza propriamente detta quanto alla sfera pratica dell’uomo.
Auguste Comte (1798-1857)
In secondo luogo, l’emblematico esempio rappresentato dalla seconda fase della sua attività produttiva, che testimonia necessità e centralità della religione stessa. A prescindere da tutte le ambizioni scientiste iniziali, l’epilogo, infine, è il riconoscimento della religione quale bisogno e sbocco “naturale” dell’uomo. Poco contano, da questo punto di vista, le varie confessioni religione. Di fatto, l’uomo che inizialmente si scaglia contro la religione, imbracciando l’arma della scienza, alla fine, si ritrova a snaturare la scienza per farne una religione, e con ciò a confermare con la forza dell’evidenza empirica – tanto cara alla scienza – la necessità (pienamente naturale e del tutto umana) della religione. Nel caso di Comte e dei positivisti del tempo, poi, il finale è talmente paradossale da poter essere riassunto attraverso una bellissima riflessione di Norberto Bobbio:
«proprio perché le grandi risposte non sono alla portata della nostra mente, l’uomo rimane un essere religioso, nonostante tutti i processi di demitizzazione, di secolarizzazione, tutte le affermazioni della morte di Dio, che caratterizzano l’età moderna e ancor più quella contemporanea».