Che cos’è la storiografia? È l’uscita del lettore dallo stato di idiozia che lui o lei deve imputare soltanto al suo romanticismo, alla sua foga romanzesca, al suo grugnito idiota mentre legge la pagina, la assapora e non coglie un fatto: dietro c’è un autore agitato da mille passione e milleun interesse. Detto diversamente, siamo tutti bravi a guardare Il fidanzato di mia sorella con Pierce Brosnan che spiega la letteratura alle americane in vacanza e legge in aula la Bisanzio di Yeats:
Non è un paese per i vecchi. I giovani L’uno stretto fra le braccia dell’altro, sugli alberi uccelli –Moribonde generazioni –presi dal loro canto, Cascate ricche di salmone, mari affollati da sgombri, Pesce, carne, selvaggina tutta l’estate raccomandano Quanto è generato, nasce e muore. Colti in quella musica dei sensi, trascurano tutti I monumenti dell’intelletto che non invecchia.
Perché cos’è Bisanzio per Yeats nel 1926 se non la fuga dall’Europa marcia? Ed è qui che interviene la storiografia. In che contesto Yeats scrive quelle parole e perché? Soprattutto, contro chi scrive? Arrivate al fondo e lo scoprite…
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La storiografia ti fa mettere le lenti colorate per leggere meglio un testo che consideravi nella tua santa ingenuità come scontato e garantito. La storiografia ti fa notare il graffio sul manoscritto e ti rende freddo se ti blaterano che l’opera non è associata alla vita del suo autore e che tu ci puoi sguazzare dentro con le tue fisime dell’anno 2019.
Ancora. La storiografia apre un circolo virtuoso dove un autore legge e spiega un suo predecessore. Con Yeats, ad esempio, si può fare un esperimento in corpore nobili: cosa scrisse di lui il sommo poeta – se non esagero – Auden.
Il bello è che le parole di Auden su Yeats privato esistono, solo non erano state ancora trasmesse in italiano. Allora ci sintonizziamo sul New Yorker di un giorno a metà marzo del lontano 1955. A voi studio
Andrea Bianchi
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“Sono dell’Irlanda” – Auden scrive delle lettere di W.B. Yeats
Benché limitata, questa scelta di novecento pagine di lettere si apre con Yeats a ventun anni. Con il poeta che dice: “L’unico affare che una testa pensante abbia a questo mondo è chinare il capo in segno di obbedienza, senza sosta, al cuore”. La raccolta si chiude poi col vecchio saggio di settant’anni che dice: “L’astratto non è vita e dappertutto esso manda fuori le sue contraddizioni. Potete confutare Hegel ma col Santo e la Canzone da sixpence che vi cantava la balia – non ci riuscirete mai”.
Yeats non era, come Keats o Byron, uno scrittore di lettere dalla nascita; la corrispondenza di un uomo di genio che abbia esperienze diverse ed eccitanti non può fare a meno di consegnarci molte note interessanti ma, considerato chi è stato Yeats e la vita che ha avuto, queste sue lettere sono nel complesso fiacche. Gli è stato attribuito questo motto: “Un uomo non ha amici – ha solo donne e uomini che gli parlano di donne”. Questa frase, diciamo, è certamente apocrifa ma va notato che, eccezion fatta per le lettere al padre e una sola a O’Casey dove gli spiega perché The silver Tassie [1927, opera teatrale] non sia valido, le lettere migliori erano destinate a donne: Katharine Tynan, Olivia Shakespear, Florence Farr, Lady Gregory, Edith Shackleton Heald, Dorothy Wellesley, Ethel Mannin. E nessuna di queste lettere è d’amore, d’amore nel senso convenzionale. Al contrario, oggi che espressioni come “mia cara” e “con amore” sono adoperate in libertà senza alcun intenzione passionale, pare molto bizzarro che uno debba firmarsi nelle lettere ai suoi amici più intimi, addirittura scrivendo al padre, semplicemente così: “Tuo W.B. Yeats”. (…)
Lo status della maggioranza dei poeti che hanno vissuto fino a settant’anni non sarebbe seriamente indebolito se fossero morti a quarantacinque anni. Entro quell’età quasi tutti hanno scritto le loro cose maggiori. Poche le eccezioni come Milton. Yeats aveva già svolto il suo compito prima dei quaranta, eppure le opere di quel momento lo assegnano al novero dei bravi poeti minori dalle composizioni seducenti e senza importanza. Quindi gli successe qualcosa intorno ai quarantaquattro anni, qualcosa che cominciò con Cigni selvatici a Coole e che poi si sviluppò con potenza sorprendente e crescente nell’arco dei vent’anni successivi. Sarebbe assurdo spiegare questo miracolo, ma basterà dire, penso, che gli eventi politici scatenatisi in Irlanda tra 1916 e 1922 siano stati una causa che contribuì fortemente. Yeats è probabilmente l’unico poeta del secolo ad aver scritto grande poesia a soggetto politico e in questo la sorte ha giocato un ruolo tanto decisivo quanto il suo genio. Al contrario di quanto tocca a noi, incapaci di un legame personale con la politica ora estesa su vasta scala mondiale, Yeats diede fuori queste parole allo scoppio della Prima guerra mondiale:
ne ha avuto abbastanza di confondersi con la ragazza adolescente
nell’indolenza della sua giovinezza per allietarla,
e non soffre più quei pensieri da vecchio nella notte invernale
ed ecco perché, all’alba della Seconda guerra mondiale, quando aveva scritto giusto una ballata per Roger Casement [mentre nessuno dei letterati, Conrad incluso, spese una parola per lui] che era un soggetto tutto politico, tracciò questa linea di separazione: “in queste ballate che vedete difendo un uomo dal cuore nobile e svolgo il vecchio lavoro dei poeti senza difendere alcuna causa. Da una parte voi avete la Germania, retta tutta da retorica e informazione giornalistica manipolata; dall’altro lato avete l’Inghilterra, anche lei a base di retorica e giornalismo fiacco se non falso. Quando i fiumi sono avvelenati, prendi in serenità la via della montagna; o vattene in esilio con Dante”.
Però la Ribellione irlandese e la sua guerra civile erano ancora un’altra storia, della quale Yeats conosceva quasi tutti gli attori principali, i luoghi dove la tragedia si svolgeva li aveva vicini fin dall’infanzia. E fu testimone degli effetti a cui portava l’intransigenza, vedendoli nel destino di una donna che amò, e fu in grado di intendere, su scala locale, la nuova barbarie che ha sfregiato il volto della terra sulla quale viviamo oggi: “Democrazia è morta e la forza pretende il suo antico diritto, e questi uomini, avendo la forza, credono di avere altresì il diritto a governare e far leggi. Con la democrazia sono morte anche le vecchie idee generali per parlare di politica. Gli uomini non sanno cosa sia, o cosa non sia, la guerra legittima”. (…)
Sinora si è evitato di parlare delle pericolose idee politiche di Yeats anche a ragione del passaggio da destra a sinistra dell’intellighenzia nordamericana dopo la guerra. Allora, i suoi ammiratori di centro e di sinistra vi passavano sopra in doloroso silenzio. Per esser giusti verso un grande poeta, non abbiamo il diritto di portare le sue idee in tintoria: se Yeats fosse stato un filo più giovane, magari come Pound, e come lui carente in fatto di prudenza verbale (e infatti ne aveva da vendere), ebbene si sarebbe trovato pure lui internato, oggi. Si deve ricordare, come prima cosa, che Yeats era uomo d’Irlanda, un uomo dal quale non dobbiamo aspettarci che risponda con entusiasmo alla parola “democrazia” che invece lui associa all’oppressione inglese, la stessa associazione che gli asiatici compiono quando pensano all’arroganza dei bianchi. Né dovete cercare in lui, lui che aveva a cuore l’indipendenza, che sottovaluti il colpo di fucile che scoppia quando la procedura parlamentare è fallita. Yeats non credeva nelle cause precisamente perché ne soffriva sempre la tentazione, avendo ereditato il “cuore di fanatico” dei suoi connazionali. L’uomo che scriveva nel 1900: “Chiunque senta la necessità di onorare la regina Vittoria domattina dovrebbe ricordare le parole di Mirabeu – il silenzio dei popoli è lezione per i re. Lei è simbolo e testa coronata di un impero che sta privando delle loro libertà le repubbliche del Sud Africa, come già ha fatto con l’Irlanda”. Non si era dimenticato il suo risentimento per la storia offesa quando nel 1937 diceva: “Sono un vecchio Feniano e penso che il vecchio Feniano dentro di me proverebbe un sussulto di gioia se una nazione o un governo fascista controllasse la Spagna, perché questo indebolirebbe l’impero britannico, forzerebbe l’Inghilterra a essere civile nei confronti dell’India e forse spronerebbe gli Indiani alla libertà sganciandosi dalla mano inglese e dalla finanza di quei signori nel lontano Oriente”. (…)
Nessun poeta è mai stato democratico per istinto. Certo la lezione è che non ci si deve avvicinare alla politica per via estetica e che i pronunciamenti degli artisti vanno ascoltati con grande prudenza. Questo non vuol dire che vadano del tutto ignorati perché, sebbene per la maggior parte siano carta straccia, spesso aprono squarci che, se un cittadino si affaccia a guardare con buon senso e poco talento, sono certamente utili.