30 Ottobre 2023

“Il suo Arthur che scrive, il suo Arthur che urla”. Il romanzo sulla sventura di Rimbaud

Come accomiatarsi da Arthur Rimbaud? Questo libro mi è valso trenta punti di sutura al polso destro e svariate notti di solitudine e follia in un ospedale di Charleville, dove nacque Arthur Rimbaud. È un Rimbaud in rivolta alla poesia, che tutto prova e tutto estenua, l’arte, l’amore, la ribellione, la fuga dall’Europa e la quiete dell’esilio, in Africa, il silenzio ultimo di ogni poeta, fino a scoprirsi solo e malato e condannato a morte in un deserto in guerra: il mio è un Rimbaud che molto sbaglia e tutto perde.

“Anche l’errore tende alla perfezione” scriveva Ennio Flaiano ne La spirale tentatively, ossia alla compiutezza, a un’impossibile e imperfetta geometria umana che coniughi ogni sbaglio, ogni momento, al successivo, come tessere di un domino, e che in essi e per essi dia forma e senso all’esistenza. Le tessere si rovesciano e gli errori si succedono, succedono – una serie ininterrotta di errori, ché tale è la vita di Rimbaud, una spirale che si allarga intorno all’errore iniziale e che di sbaglio in sbaglio tende all’ultimo, alla malattia e alla morte e alla fine inevitabile della vita e della poesia, che alla vita è corrisposta. “Io andrò sottoterra e tu camminerai nel sole” dice Rimbaud alla sorella. Tu marcheras dans le soleil.

Cosa ha sbagliato Arthur Rimbaud? Scrivere e poi tacere o tacere e non più scrivere, consacrandosi al commercio e al silenzio dei deserti, contro la parola e la poesia, è stato il completamento della sua opera o la sua condanna e il suo destino, la sua ultima e più terribile sconfitta? Il deserto è un responso all’esistenza. Rimbaud è Harar, lo è divenuto, l’orrido deserto e un naufragio delirante in una stanza di ospedale, l’impossibile salvezza del poeta e l’estenuazione dei suoi versi, del suo inferno, una mutilazione. Ho scritto di lui per sopravvivergli. Ho sentito echi di deserti e visioni altrui, nella levità dell’adolescenza, i suoi quindici o vent’anni che ormai divengono i miei trenta. E libera sia la tua sventura, Arthur Rimbaud!

Dopo l’incidente di Charleville sono andato a Marsiglia, non più da solo, visitando l’ospedale in cui è morto Rimbaud e abdicando alla solitudine, pur costretto alla scrittura. Ho riempito pagine su pagine dei miei quaderni, mentre Parigi tremava per gli attentati terroristici alla redazione di Charlie Hebdo e le folle, gli statisti, gli studenti, si indignavano, manifestavano. Ho riscoperto la poesia e disertato la realtà. Non ho voluto ripulire troppo il libro, che pure è passato attraverso cinque riscritture e altrettanti fallimenti e riverniciature, nei quaderni. Questo libro è un apprendistato alla poesia. Questo libro è una risposta all’Altro (“Je est un autre”, scriveva Rimbaud – come l’io della prima parte del libro, che è e non è me). Arthur Rimbaud, un fratello, un padre, un figlio, non mi ha mai tradito, deluso, né io credo di aver mai tradito o deluso lui, se non per raccontarlo o per capirlo. Ho dovuto continuare a scrivere.

Sebastiano Vassalli scriveva, ne La notte della cometa, libro dedicato a Dino Campana: “Le mie ricerche su Dino Campana mi hanno insegnato quanto sia difficile ricostruire la vita di un uomo che non è stato storicizzato in vita. Ogni ricordo si perde nel volgere di pochi anni, al massimo di qualche decennio; le guerre e l’incuria dei vivi distruggono registri, archivi, documenti.” Queste parole sono state per me molto importanti, come la vasta bibliografia su quel mistero inenarrabile che è stato Arthur Rimbaud.

Da ultimo: la sezione finale del libro, Il tesoro di Rimbaud, rimanda non soltanto all’oro sepolto a Roche ma anche a Céline e alla sua fuga nell’Europa in guerra, cercando un improbabile tesoro in Danimarca, la promessa non mantenuta di una quiete ormai impossibile, l’esilio e la salvezza o la galera. Questo racconto forse troppo movimentato, che il lettore accorto saprà perdonarmi, è una maniera come un’altra, forse migliore di ogni altra, per sopravvivere all’orrore e al vuoto vacuo dei poeti, del sentire umano: è una fabulazione. Perché senza fantasia, senza libertà, come senza ricerche approfondite, non avrei potuto scrivere. (Edoardo Pisani)

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Dal capitolo “Salvate questo ragazzo in collera”

La Saison en enfer è un delirio e un’apocalisse mancata, una lotta dell’io contro se stesso, il je di Rimbaud e di chiunque altro che si rivolta alla parola e all’esistenza e ai loro opposti, alla morte e al silenzio, ai nostri demoni; è un canto evangelico che attraversa gorghi immondi e ama e grida e piange o tace; à moi, scrive Rimbaud, a me, storia di una delle mie follie; la Saison è il sangue pagano che ritorna e l’ultima fuga del poeta, risalendo alla bellezza e al puro, ma a una purezza mistica, illusoria, dal fondo dell’abisso, il suo deserto e la salvezza, la vergine folle che dispera di non saper pregare e l’inferno delle donne e l’amore e l’altro e la quiete dopo la tempesta e infine l’alba, l’eternità e l’addio e il mare misto al sole, il fuoco che si ravviva nella dannazione e l’orizzonte in fiamme e la fine del delirio, il poeta e la verità posseduta in un’anima e in un corpo, un corpo rivoltato al tempo e alla parola, il tempo divenuto voce e quiete e un’anima in preda all’amore e ai sensi e alla poesia; ma quale poesia?

“La mia sorte dipende da questo libro” scrive Rimbaud a Ernest Delahaye, nell’estate del 1873, fugando Bruxelles e Parigi, la sua storia con Verlaine, che è ancora rinchiuso in carcere, tornando a Charleville e segregandosi in camera, a sua volta prigioniero, redigendo la Stagione all’inferno con sbalzi o furiosi o esaltati o commossi ma sempre sofferti, sempre vissuti. Cosa gli sta accadendo? È l’esaltazione, la poesia, il grido del veggente che si fa parola, verso e opera conclusa, mentre la sorella lo vede piangere scrivendo o incupirsi e tacere a tavola o maledire il mondo, gli altri, noi stessi, racconterà Isabelle, la famiglia e gli amici, il fratello che si rivolta ai vivi e scavalca abissi sulla pagina, nel dolore e nella solitudine, il demone infernale, lo sposo e la vergine folle e il suo sguardo allucinato, orrifico, la poesia nel buio e il suo deserto emozionale, di notte, vagando per casa con i fogli in mano; Isabelle veglia e lo sente camminare lungo il corridoio, eccolo di nuovo, avanti e indietro, il suo Arthur che scrive, il suo Arthur che urla.

La Stagione si compone di nove movimenti, quale una partizione, Jadis, Mauvais sang, Nuit de l’Enfer, i due Délires, l’Impossible, l’Éclair, le Matin e l’Adieu, nove brani scanditi in successione, alternando versi e prose, visioni e urla esaltate o commosse o impaurite, il veleno nel corpo, la sete e la fame e gli incubi e l’estasi, un concerto di inferni e di infermità e il sonno del poeta in un nido di fiamme, il preludio ai deliri.

*Si è pubblicato per gentile concessione un brandello dall’ultimo libro di Edoardo Pisani, “E libera sia la tua sventura, Arthur Rimbaud!”, Castelvecchi, 2023

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