28 Dicembre 2022

Le immagini del potere: da Innocenzo X a Stalin e Kim Jong-un

Il tema di fondo di questa conversazione riguarda un aspetto centrale dell’arte della ritrattistica e soprattutto di quella segnatamente rivolta al culto del potere. Si tratta di una forza che non è espressa soltanto dalla ricerca naturalistica ma che anzi spesso la contraddice, portando a rappresentazioni che ambiscono ad essere altro rispetto al soggetto che raffigurano. Di quanto dico se ne ha una straordinaria testimonianza nei celebri dipinti che ritraggono Innocenzo X, eseguiti da Velázquez, nel 1650, e da Francis Bacon, nel 1953. Come è chiaro, la rielaborazione realizzata da Bacon manifesta una programmatica negazione della ricerca della componente di naturalismo e verosimiglianza che invece vediamo efficacemente espressa nel modello originario. Se Velázquez aveva voluto creare un’immagine in cui la componente di realismo mimetico si coniugava perfettamente e a una grande introspezione psicologica e alla solennità e alla gravità del potere – perché anche in questo caso di potere si tratta –, in Bacon l’operazione è radicale, anche se non antitetica. In un certo senso Bacon, non possiamo sapere quanto consapevolmente, lascia che l’energia trattenuta a fatica nel dipinto di Velázquez, la tensione legata al ruolo del ritrattato, l’enorme pressione contenuta nell’immagine, diventi ipertrofica, prenda il sopravvento trasfigurando il dipinto e l’uomo. È così che nella rielaborazione di Bacon Innocenzo X perde l’aspetto umano e diventa una figura mostruosa, il centro dello scorrere di una forza incontrollabile. Faccio questo esempio, forse un poco estremo, perché vorrei sottolineare come nella ritrattistica noi vediamo produzioni che nascono con il preciso intento di veicolare dei messaggi e non solamente di rappresentare mimeticamente.

I reali di Spagna al cospetto del dipinto di Antonio Lopez Garcia: una monarchia finanziaria…

L’arte della ritrattistica di propaganda ha interesse a trasmettere il messaggio del potere, che si esprime nella lontana solennità che per millenni ha caratterizzato i ritratti dei potenti. Di questa forza, di questo enorme valore spirituale e metafisico che risiedeva nei ritratti dei potenti, oggi non troviamo quasi più traccia, ed è difficile anche comprenderne a pieno la portata. Potete avere una prova di quanto il ruolo di queste raffigurazioni sia radicalmente mutato nel tempo visitando le stanze del Palazzo Reale di Madrid. Nel Salone degli Alabardieri troviamo due dipinti posti uno di fronte all’altro, il Ritratto di Carlo III Borbone da un lato – un dipinto del XVIII secolo riferibile a Mengs – e il Ritratto della famiglia di Juan Carlos I eseguito da Antonio Lopez Garcia tra il 1994 e il 2004. Anche considerando di essere di fronte a un’opera del XVIII secolo – in cui dunque si sono ormai avviati dei processi di desacralizzazione – nel dipinto con il ritratto di Carlo III l’immagine del Re possiede ancora un senso di solennità. C’è una certa energia che pervade l’immagine, una distanza incolmabile restituita attraverso l’assurda veste, i guizzi di luce, la sontuosità dell’arredo. C’è anche una componente irrealistica se vogliamo: l’armatura, la veste, i drappi, la consolle. Tutto sembra vibrare, tutto si muove come se fosse di argento vivo: sono le pulsazioni dello scorrere del potere che trova il suo centro nella figura del Re.

Uno dei ritratti di Carlo III di Borbone (di Mariano Salvador Maella): la monarchia esprime ancora un senso di solennità

A pochi metri di distanza, dal lato opposto, vediamo il dipinto di Antonio Lopez Garcia. Si tratta di un pittore straordinario ma, al di là della assoluta qualità pittorica, possiamo provare a riflettere sulle sostanziali differenze tra i due dipinti. La famiglia reale di Juan Carlos così come è rappresentata non ha traccia della terribilità degli antichi ritratti dei sovrani. Come vediamo, l’immagine corrisponde perfettamente non soltanto a un diverso modo di fare arte, svuotato di molti degli aspetti simbolici e del portato spirituale che invece registriamo in altre immagini dei potenti, ma corrisponde anche a un diverso modo di intendere il potere stesso. Se da un lato nel ritratto di Carlo III vediamo un sovrano, un Re che – malgrado tutto – è ancora il centro di un potere, dall’altro lato vediamo un gruppo di persone che potrebbero appartenere a qualsiasi categoria. Sicuramente la volontà di trasmettere un senso di levigatezza e di confortevolezza può aver giocato un ruolo nella scelta della rappresentazione – del resto una monarchia del XXI secolo non è una monarchia del XVIII secolo e di conseguenza possono cambiare anche i messaggi che si vuole veicolare. Tuttavia, è difficile non pensare che dietro a rappresentazioni del genere siano contenute le dinamiche di un potere profondamente mutato. Da un lato vediamo il ritratto di un Re, nella totale consapevolezza del suo ruolo, e dal lato opposto invece la raffigurazione di un gruppo di esponenti di un potere diverso, obliquo, celato dalle opacità delle tecnocrazie, diramato nei gangli della finanza e della burocrazia.

 A questo proposito mi ricordo di un’esperienza personale. Durante una visita guidata al Quirinale ho appreso della presenza di alcune grandi bandiere innalzate sul balcone della cosiddetta Sala dei Precordi, il balcone dove tradizionalmente il presidente della Repubblica si affacciava. Quest’usanza per cui il presidente si esponeva dal balcone è stata interrotta a partire dal mandato di Antonio Segni in poi, quindi dal 1962. Se ci pensate il meccanismo per cui delle bandiere – dei feticci in fin dei conti, che oggi valgono ben poco –sostituiscono la persona è molto significativo. Questa dinamica è abbastanza curiosa e sembrerebbe confermare – in modo del tutto preterintenzionale – la tendenza a uno svuotamento di senso della figura del governatore. Una perdita di valore che però non corrisponde a un riempimento di senso del dispositivo democratico, anzi, tutt’altro. Del resto, siamo nel tempo della crisi della politica e non dobbiamo dimenticare che, dal punto di vista sociologico, tanto il cosiddetto populismo quanto la tecnocrazia rispondono alla medesima causa, sono reazioni alla crisi della politica. La bandiera in fin dei conti è un feticcio, ha senso in quanto espressione di qualcosa, ed è curioso vedere che in questo caso ha completamente rimpiazzato la persona. Invito comunque a visitare il Quirinale e in generale a rendersi conto di quanto sia un luogo spettrale, che ha un che di finto, una certa aria da quinta teatrale.

È possibile oggi trovare traccia della potenza contenuta nell’immagine del regnante, così come si era configurata per millenni, nelle strategie propagandistiche dei regimi comunisti. Del resto, la forza propagandistica dell’immagine così come la vediamo espressa nel mondo classico fu perfettamente recepita e sfruttata, anche attraverso le possibilità offerte dai nuovi mezzi a disposizione, dalle dittature novecentesche. In questo senso gli esempi si sprecano.

Lenin progettò di disseminare lungo le principali arterie di Mosca i monumenti agli antenati della rivoluzione, secondo un intendimento che è lo stesso della diffusione delle statue dell’imperatore nella Roma imperiale. L’immagine di Lenin, il suo ritratto ufficiale in cui lo si vedeva in giacca e cravatta, ebbe una enorme diffusione in manifesti, cartoline, fotografie. Lo stesso meccanismo divenne centrale anche nella propaganda di Stalin: negli anni ’30 la sua effigie diffuse in modo impressionante. Questa immagine – che era il suo ritratto ufficiale – veniva inizialmente ritoccata, si correggevano le imperfezioni cutanee, si ringiovaniva. Dopo lo scoppio della guerra la strategia propagandistica cambia e si decide di mostrare i segni di invecchiamento, come a voler sottolineare la partecipazione emotiva del leader ai travagli del paese. Addirittura, dopo la guerra, accade che si tenda a una rappresentazione che preveda la presenza implicita di Stalin, che non viene neanche rappresentato più. Stalin è sottointeso, è uno spirito che aleggia invisibile. Insomma, avviene una sacralizzazione della sua figura, tanto che uno studioso, Graeme Gill, ha parlato di una metanarrativa teleologica relativa alla figura di Stalin, fatto che determinò qualche problema dopo la sua morte, perché come ovvio lo stato si trovò, con Krusciov, a dover riorganizzare la propaganda attraverso un processo di destalinizzazione.

Esempi di ritrattistica sacralizzante nordcoreana

Un fenomeno molto curioso e contraddittorio è poi quello dell’imbalsamazione di questi leader.  Nei comunismi orientali questa corsa alla cristallizzazione di una immagine che deve essere duratura, che deve esprimere un potere consolidato ed eterno che sia oltre le contingenze di spazio e tempo, culmina nell’imbalsamazione, nella volontà di eternizzare il corpo del leader. È una tendenza estremamente ambigua e deve far riflettere che in regimi di materialismo storico e di ateismo avvenga una tale sacralizzazione del corpo. Il meccanismo è accostabile a quello che riguarda il corpo dei santi, il tema del “corpo incorrotto”, ed è curioso un addentellato di questo tipo con una logica che appartiene alla religione e segnatamente al cristianesimo, la religione della resurrezione della carne.

Per avere una recente testimonianza di sacralità dell’immagine del potente in tempi recenti possiamo pensare alla storia dello studente statunitense Otto Warmbier. Nel 2016 in Corea del Nord il ragazzo ventenne è stato imprigionato per poi morire in circostanze poco chiare, reo di aver cercato di portar via da un albergo un manifesto di propaganda. Nel manifesto, oltre a un riferimento patriottico, si leggeva il nome del dittatore nordcoreano Kim Jong-un. Il punto è che rubare o danneggiare oggetti che portano il nome o l’effige di un leader nordcoreano è considerato un crimine gravissimo. La storia è molto triste e molto oscura. Il ragazzo statunitense è stato arrestato all’aeroporto, poco prima di tornare a casa. Qualche mese dopo l’arresto ha subito un danno neurologico su cui ancora non si è fatta chiarezza e che lo ha ridotto in coma e in fin di vita. Quando poi è stato rilasciato, pochi giorni dopo il suo rientro a casa è deceduto. Vediamo come esiste in questo caso ancora un collegamento diretto tra l’immagine e la persona. Ancora una volta abbiamo prova di una dinamica del potere che è sostanzialmente restata immutata dalla classicità, dove un danno all’effigie dell’imperatore era considerato un reato di lesa maestà. Ancora una volta vediamo lo stesso meccanismo delle icone, che non rappresentano la divinità ma la presentano, ne sono una estroflessione, una propaggine.

Si pubblica un estratto del seminario “Ritrattistica e Potere” (Antonio Soldi, Università IULM, Milano, 29 novembre 2022), dove si è parlato del tema delle immagini del potere dall’antico Egitto alla propaganda contemporanea

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