Antonin Artaud può essere definito a tutti gli effetti un “Poeta nero”, ma in quale senso? A mio modesto parere, la sua è una poesia d’animo inquieto; di colui, cioè, che non si accontenta; che scava piuttosto nella realtà tutta e nell’animo umano per oltraggiare le maschere, a favore di una verità sentita quanto necessaria, per non dire vitale.
Che in questa sua poesia Artaud descriva se stesso oppure si rivolga a qualcun altro, non è necessario sapere. Ciò che importa è la forza dell’impatto, il deflagrare del vero, l’inverosimile retaggio della tradizione. Proprio per questo il poeta nero è colui che vive, bruciando gli istanti, impugnando quella penna salvifica che graffia l’inopportuno quanto astuto cuore degli uomini.
Artaud, d’altro canto, è pure autore visionario. Non c’è occhio migliore di quello letteralmente attaccato alla realtà, a quella che incalza! Ma soprattutto ‒ è bene dirlo e ribadirlo, senza vergogna alcuna; anzi, proprio quale verità salvifica ‒ per quanto riguarda il poeta e il suo destino, egli è “… appeso alle vostre bocche / donne, aspri cuori di aceto.”
Poeta nero
Ti assilla un seno di vergine,
poeta nero,
poeta inacidito, mentre la vita bolle
e la città arde,
e il cielo si riassorbe in pioggia,
e la tua penna graffia al cuore della vita.
Foresta, foresta brulicante d’occhi
sui pinoli disseminati;
chiome di bufera, i poeti
inforcano cavalli e cani.
Gli occhi si infuriano, le lingue girano
il cielo fluisce nelle narici
come un latte nutriente e azzurro;
io sono appeso alle vostre bocche
donne, aspri cuori di aceto.
Il poeta, del resto ‒ come me, come altri catturati dal sentimento panico ‒, s’illumina nella foresta, fuggendo come scintilla dalla città che arde. Non di meno, quel poeta che allora inforcava cavalli e cani, ora guida automobili e si fa trasportare da treni e nel sottosuolo delle metropolitane. Per le foreste si corre a piedi, spiati dagli infiniti occhi degli animali. E dalle foreste salvifiche si ritorna alle città metropolitane che tutt’ora ardono e si incendiano, infiammando il lucore di “un seno di vergine”, pronta e non ultima ossessione di un “poeta inacidito”, di un poeta certo, reale, infiammato, infuriato da “chiome di bufera”.