06 Dicembre 2020

“Io sono vocato alla vita”. Arsenij Tarkovskij, il disperso

Disperso è l’aggettivo adatto a un poeta. Per dispersione agisce un poeta: per disperdersi. In questo, non c’è alcuna disperazione – il poeta, semmai, ha la gioia di chi benedice le iene e sa che una mano può essere talamo, inginocchiatoio. Il poeta è il disperso – è qui, in questo crocevia di anni, per un nodo sbagliato; intuisce di essere vissuto prima, di essere precedente – come se prima si stivasse in urla e sposalizi. È qui, forse, per conciliare qualcuno, per concimare un futuro – si è fatto spazio, nel tempo, fino a scoprire, di sé, il covo delle vipere, la tana delle volpi.

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Taglio corto. Le poesie disperse di Arsenij Tarkovskij, appena pubblicate da Giometti & Antonello in prodigiosa forma di libro-album (il titolo, Stelle tardive II, non è bello, ma fa riferimento al primo volume, di poesie ‘pubbliche’), sono lo zenit del poeta. Qualcuno, Gario Zappi, ha scavato nell’“archivio personale del poeta”, passando per il permesso degli eredi, vegliando sugli autografi, estraendo una nube di poesie straordinarie. In questa dedizione esiste il libro di un poeta: uno, da altre lingue, che viene a lui, morto. Questa disparità – la dispersione – dà il tono immortale del poeta. Il poeta va scoperto, trafugato, perché, per un miracolo capovolto, i versi migliori li tiene per sé – se fosse efficace giudice di se stesso, farebbe il romanziere.

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Arsenij Tarkovskij, padre di Andrej, il regista, arriva tardi in Italia, grazie a Scheiwiller – e alla tenacia di Zappi –, nel 1989, l’anno della morte. Il figlio era morto tre anni prima, in Francia. Nato nel 1907, Arsenij è l’estremo dei poeti dell’‘era d’argento’, con un destino da perenne ragazzo, per sempre figlio. È sepolto a Peredelkino, non lontano da Boris Pasternak, di cui fu discepolo – e con cui litigò, definitivamente, perché non apprezzava Il dottor Zivago (come non capì quel libro, Varlam Salamov, un altro cresciuto sfamandosi con le poesie di BP). Fu l’ultimo, perduto – a prescindere, perché si ama solo ciò che non si raggiunge – amore di Marina Cvetaeva: “il Vostro libro è incantevole… E cosa potete Voi stesso? Giacché per un altro poeta potete – tutto. Trovatele (amatele) – e le parole vi verranno. Presto vi inviterò a casa mia – una sera – a sentire delle poesie”, gli scrive, lei, nell’autunno del 1940. Un autunno ulteriore consuma Marina; Arsenij, in verità, sposato, può nulla, se non sfiorare quella creatura in fiamme. Anna Achmatova riconobbe in lui i carati del poeta, il carisma di un disperso; lui, nel 1958, le scrisse una lunga lettera che terminava così, “Vi bacio con reverenza la mano”.

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Le poesie di Tarkovskij vanno lette spostando la poltrona davanti a un bosco – o trascinando una sedia al cospetto del mare. Bisogna stare seduti, negli elementi. “Io sono vocato alla vita per il sangue di tutte le nascite/ e di tutte le morti, io ho vissuto nei tempi/ in cui il genio anonimo del popolo/ infondeva la vita donando nomi/ nella muta carne degli oggetti e degli eventi”. C’è una poesia che nasce nella mente; c’è quella che sgorga dal cuore. La poesia di Tarkovskij è poesia di braccia, di chi intaglia nel bronzo il canto alla vita, alla carne. L’album fotografico che chiude questo libro è fondamentale: il poeta ha sempre lo stesso viso, statuario, semmai simile alla propria scrittura (dacché il viso è un ideogramma, degna appendice della mano). Eppure, un poeta muta ad ogni poesia, è sempre altro dall’artefice. Tarkovskij viene per ultimo: dopo Mandel’stam, Marina Cvetaeva, Pasternak, Majakovskij, la Achmatova… Pulisce la stanza – come se il funebre fosse festa – e apparecchia per gli spettri. Il vento è mescolato ai latrati, in strada, densi come sabbia. Il poeta chiude la porta, poi seppellisce la chiave e il dito anulare alla foce di una betulla. (d.b.)

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Il vocabolario

Io sono il ramo più giovane del tronco della Russia,

io sono carne della sua carne, e fino alle mie fronde

giungono le vene, umide, d’acciaio,

di lino, sanguigne, di osso,

dirette prosecuzioni delle radici.

Vi è la sovrana attrazione della vetta,

e perciò sono immortale fin quando

scorre nelle vene – mia sofferenza e mio bene –

delle sorgenti sotterranee l’umidore glaciale,

tutti gli eR e gli eL’ della lingua di Dio.

Io sono vocato alla vita per il sangue di tutte le nascite

e di tutte le morti, io ho vissuto nei tempi

in cui il genio anonimo del popolo

infondeva la vita donando nomi

nella muta carne degli oggetti e degli eventi.

Il suo vocabolario è aperto a pagina intera,

dalle nuvole alle profondità della terra:

insegnare alla cinciallegra la lingua della ragione,

e lasciar cadere un foglio unico nel pozzo,

verde, rosseggiante, arrugginito, d’oro…

1963

Arsenij Tarkovskij

*La poesia, nella traduzione di Gario Zappi, è tratta da: Arsenij Tarkovskij, “Stelle tardive II. Poesie disperse e album di immagini inedite”, Giometti & Antonello, 2020

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