01 Dicembre 2022

“A quanti non sono vissuti abbastanza per raccontare tutto questo”. Il libro del futuro: Arcipelago Gulag

Ho deciso, non so come si prendano decisioni simili, di leggere Arcipelago Gulag di Aleksandr Isaevič Solženicyn. Mi ero preparato a leggerlo, così credevo, leggendo I  racconti della Kolyma di Varlam Tichonovič Šalamov, nella versione integrale. Leggendo Solženicyn mi sono però accorto di come la mia fosse una decisione impossibile. Non si può leggere Arcipelago Gulag, non d’infilata, non tutto assieme. Non si sopravvivrebbe al racconto di un sopravvissuto che non ha raccontato la sua storia soltanto ma la Storia delle nostre fognature, per dirlo col titolo del secondo capitolo della prima parte.

La storia della distruzione della specie umana a opera di una parte della stessa specie che ha voluto fingere di credersi differente da quella che ha distrutto e che, quando a sua volta è stata distrutta, ha avuto la possibilità di ricredersi, a differenza di chi, restando per tutto il tempo dalla parte del distruttore, non ha avuto modo di apprendere come la più completa distruzione delle specie umana sia avvenuta in loro, come continui ad avvenire in chi si schiera dalla parte dei distruttori.

Uccidere un uomo o cento o centomila o milioni di uomini e donne, non è ancora distruggere l’umanità. Chi sopravvive al tentativo di distruggerlo può recuperare l’umanità che in lui si è provato a distruggere, ma in chi sopravvive agli omicidi commessi, ai realizzati sogni di strage sistematica, non resta che il fallimento totale del progetto umano. I distrutti e i sopravvissuti alla distruzione proteggono il progetto umano dalla distruzione insita nei distruttori sopravvissuti alle loro distruzioni.

Arcipelago Gulag, scrive Solženicyn, è un Saggio di indagine letteraria. L’esergo vale come l’avviso all’ingresso della città di Dite in Dante. L’esergo recita così:

“A quanti non sono vissuti abbastanza
per raccontare tutto questo.
E mi perdonino
di non aver visto tutto,
di non aver ricordato tutto,
di non aver indovinato tutto”.

Sono rimasto a lungo di fronte a questa pagina. Come l’uomo di campagna nel racconto di Kafka Davanti alla legge. Perché devo entrare qui dentro, come posso farlo? Perché devo vedere, ricordare, indovinare, tutto ciò che voglio dimenticare senza averlo mai saputo, provando lo stesso la sensazione nebulosa di saperlo eccome, di starlo vedendo, di poterlo indovinare, di poter ricordare memorie non mie? Come se tutto quello che accade a un uomo, a una donna, si propaghi in tutte le donne, in tutti gli uomini, in quelli a venire, in quelli già spariti. Come se tutto accadesse a tutti, in contemporanea, ma a certuni sia data l’opportunità di rinnegarlo. Di sopravvivere in assenza di memoria, di consapevolezza.

Poi sono entrato. E leggo le parole di Solženicyn: “ho finito quasi per amare quel mondo mostruoso”. Mi ha ricordato André Kertész in Essere senza destino, come il cielo possa essere bello anche se visto da un campo di concentramento nazista. Perché andare avanti? Perché devo leggere di cosa siamo stati capaci, come specie, e dunque di cosa posso essere capace io, adesso e qui? È tutto finito, non accade più. Oppure sta accadendo, sotto un’altra forma che è la stessa forma? O sta accadendo e di nuovo stiamo tentando di dire che non è mai successo, che non è mai così grave come lo si vuole far sembrare, e che in ogni caso non ci riguarda?

Fino a quando gli arrestati in massa e per niente non siamo direttamente noi, se non succede nelle nostre carceri e nelle nostre case, nei nostri letti e nelle nostre città, tanto vale dire che non è mai successo e che a chi è successo è perché se lo sarà cercato. Perché avrebbe potuto non vedere, non ricordare, non indovinare, e invece l’ho fatto. Poteva vivere da distrutto ancor prima di essere raggiunto della distruzione e invece ha colpevolmente voluto vivere, sopravvivendo alla distruzione, lasciando qualcosa di sé che diventasse racconto nelle parole di un sopravvissuto. Ne basta solo uno per raccontare di molti. Un Ismaele per vincere sull’impresa dell’oblio del Leviatano.

Nell’edizione di Arcipelago Gulaga che leggo io, Oscar Moderni Baobab, c’è un elenco di 227 nomi, aggiunta da Solženicyn per la prima volta nel 2005. Nomi che prima del 2005 era stato più cauto non pronunciare. Sarebbe stato come additarli alla distruzione. Solženicyn usò il suo nome per dire quelli di tutti. Offrì sé stesso, già in parte distrutto, ai rigurgiti della distruzione. Fino a quando non è “giunta l’ora in cui possa osare nominarli”. Sono i nomi di coloro “i cui racconti, lettere, memorie e rettifiche sono stati utilizzati per scrivere questo libro”. 227 nomi russi, di non facile pronuncia, che nella mia mente avrò pronunciato male, malissimo, eppure li ho voluti leggere uno a uno, accendere il suono dei loro nomi stampati nel monumento della carta come nel più bel marmo. 227 nomi generosi, coraggiosi. Di nuovo, avrei voluto farmarmi qui. Tutte le premesse fanno tremare. Arrestarsi alla soglia del territorio del male fatto. E invece, di nuovo, avanti, nella Parte Prima, L’industria carceraria.

“Ognuno di noi è il centro dell’universo e il creato si spacca quando qualcuno vi sibila: «Siete in arresto!»”.

Gli arresti arbitrari sotto dittatura sono storia sovietica passata? O si arresta ancora, in Russia? E in Iran? E in Libia? Quali paesi è ammesso citare e quali no? Qual è l’asse del male ufficiale? E in Occidente e tra gli alleati dell’Occidente no, non succede? E in Europa non succede? A Julian Assange cos’è successo, cosa sta succedendo? E in Egitto? Ho pensato a uno degli ultimi articoli pubblicati da Francesca Borri, su Alaa Abd El-Fatta, Giurano di salvare il futuro nell’Egitto senza presente – La Gazzetta del Mezzogiorno, quando scrive: “Rishi Sunak ha chiesto invano una prova di vita”, quando scrive: “Ma a quest’ora probabilmente è già morto”. Ci ho pensato quando in Solženicyn ho letto: “«Senza diritto alla corrispondenza» significa quasi certamente: è stato fucilato”.Leggere Arcipelago Gulag significa leggere il passato o il presente? O il futuro? Maccerto: i gulag non ci sono più, il comunismo sovietico non c’è più, Stalin lo si può odiare quanto si può odiare Hitler, ma l’orrore non ha scalette, l’orrore è fatto tutto di abissi.

Solženicyn non scrive un libro luttuoso, non vorrei lo sembrasse, al contrario: il libro di Solženicyn è bellissimo. Come può un libro che racconta dell’infamia umana essere bellissimo? Il libro di Solženicyn lo è. Perché non trema o se trema lo fa con il sorriso della beffa sul volto distorto dal dolore vissuto, vissuto da sé, rivissuto su di sé quando vissuto dagli altri. Dal popolo russo distrutto da coloro che si erano proclamati i salvatori del popolo russo e dei popoli tutti. Gli inventori di una umanità salvata e nuova, liberata. Solženicyn ride amaro delle sciagure, ride del ridicolo di cui si ricopre chi difetta di fantasia e allora è solo grottesco nella sua opera continua di annientamento: “era considerato «produzione letteraria» scrivere, in copia unica, una lettera, una annotazione, il proprio diario. Quale idea, pensata, pronunciata o scritta poteva sfuggire al decimo comma così felicemente esteso?”. Scrivere significava automaticamente essere condannato, essere deportato, trascorrere dieci anni, o venti, o venticinque, nel gulag. Avere tutto il tempo per essere completamento distrutto.

Neanche pulirsi il sedere col giornale si poteva.

“Stalin e la sua cerchia amavano i propri ritratti, ne costellavano i giornali, li diffondevano in milioni di copie. Le mosche tenevano in poco conto la loro santità, ed era un peccato non usare i giornali: quanti disgraziati furono condannati per questo!”

La povertà dilagava, quando ti scappava di farla non c’era terrore che tenesse, bisognava poi pur pulirsi, non era epoca d’andare per il sottile, la carta da giornali ha sempre avuto quest’ottimo riciclo, ma bisognava stare attenti: con la faccia di quale santissimo ti ripulivi? Sul volto di chi la spalmavi prima di accartocciarlo, convinto non sarebbero arrivati fino a tanto, fino a ispezionare la tua cesta della carta da buttare. E invece fin lì… Anche se, lo si confessi: che soddisfazione pulirselo usando proprio quella faccia lì, quella faccia che tanto assomigliava a ciò che puliva. E per una osservazione così, scritta in una noticina da lettore, in una riflessione di passaggio, anzi per molto meno, si sarebbe rischiata l’istruttoria.

La mia lettura di Arcipelago Gulag momentanemente si conclude qui, al capitolo terzo, L’istruttoria. Con Solženicyn, come con Kenzaburō Ōe, come con Svjatlana Aleksievič, bisogna andarci piano, perché la psiche non venga spaccata, perché la radioattività del male consumato non ti rovini la salute mentale e poi fisica per sempre. A leggere della distruzione si rischia di venire distrutti o, peggio ancora, pur di non lasciarsi distruggere, si rischia di non sentirla più, di disattivare le parole, di non leggere più ma di passare solo gli occhi sulle parole come su fosse comuni ormai associate a una caratteristica inoffensiva del panorama. Si rischia di non vedere e ricordare e indovinare più quello a cui puntano le parole.

Bisogna fare come i personaggi di Beckett: continuare anche se non è più possibile continuare. Andare avanti e fermarsi. Fermarsi e andare avanti. Metabolizzare quanto

“negli anni in cui già volavano gli aerei, erano apparsi il cinema sonoro e la radio, fu perpetrato su milioni di vittime indifese non da un unico malvagio, non in un unico luogo segreto, ma da decine di migliaia di belve umane appositamente addestrate”.

Riposarsi, occorre riprendersi dopo essere stato con Dolgun durante l’istruttoria.

“Il colonnello siede sulla schiena del suppliziato. Dolgun si prepara a contare i colpi. Non sa ancora che cosa sia un colpo di randello di gomma sul nervo sciatico quando la natica è diventata magra per la fame prolungata. Il dolore risponde non nel punto percosso, ma nella testa: la spacca. Fin dal primo colpo chi è colpito impazzisce dal male”.

Chi distruggeva contava sul fatto non restassero tracce della sua distruzione. Operava perché non ci fossero. Si assicurava che nulla venisse scritto e che quello che era stato scritto fosse bruciato. “Oh, quanti progetti, quanti lavorii andarono perduti per sempre in quell’edificio! – tutta una cultura perduta. Oh, fuliggine delle ciminiere della Lubjanka! Quello che più addolora è che i posteri riterranno la nostra generazione più sciocca, meno dotata, più priva di talento e di parola di quanto sia stata!”. Occorreva firmare a garanzia dell’oblio.

“In certe sezioni regionali dello NKVD questo provvedimento veniva applicato in serie: il modulo stampato per la non-divulgazione veniva messo soto il naso del detenuto (…) Anche in seguito, al momento della liberazione dal lager, ti veniva richiesto di firmare che non avresti raccontato a nessuno quanto vi succedeva. (…) Non siamo più certi nemmeno di avere il diritto di raccontare quanto ci è successo nella nostra vita”.

Solženicyn si è ripreso la vita prendendosi il diritto di scrivere, di ricordare, di attestare il suo esistere, l’essere esistito in un’epoca di distruzione come lo è stata la sua. E la nostra com’è? Allora, in chiusura, ecco un altro esergo. Questa volta al libro Viaggio sul fiume mondo, di Angelo Ferracuti, introdotto da un bellissimo reportage fotografico di Giovanni Marrozzini. Sono le parole di Davi Kopenawa, portavoce del popolo Yanomami del Brasile: “Se la mia gente sarà sterminata, dovrete distruggere anche tutte le nostre fotografie, perché le future generazioni, guardando quelle immagini, si vergognerebbero di un simile crimine contro l’umanità”. Chi scrive sancisce la vergogna di chi avrebbe voluto farla franca infliggendo a tutti l’oblio.

Solženicyn riporta che tante volte l’arrestato in strada dagli Organi (dalla nota 3 del Capitolo I: “Gli Organi per antonomasia erano le sezioni operative della polizia politica, che assunse negli anni i nomi di Čeka (1917), GPU (dal 1922), OGPU (dal 1923), NKVD (dal 1934), MGB (dal 1946), MVD (dal 1956), KGB (dal 1954)”), non protestava, non chiedeva soccorso, restava zitto e inerme “semplicemente perché non sa cosa gridare”. Cosa fa la letteratura? Aldo Busi nel volume miscellaneo E baci (2013), dopo la prima breve sezione delle tre Vuotaggini, scrive il testo intitolato Sulla possibilità di programmare un urlo.

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