È da pochi giorni in libreria il libricino del linguista Massimo Arcangeli dal titolo La lingua scəma. Contro lo schwa (e altri animali) (Castelvecchi). Cos’è lo schwa? In pratica è una “e” capovolta. In linguistica e fonologia si usa per denotare un suono vocalico presente, per esempio, nelle parole inglesi “about” (/ə/bout), “the” (th/ə/), etc., ma anche in alcuni dialetti meridionali, come il Napoletano. I napoletani non dicono “buona sera a tutti quanti”, ma “bona sera a tuttə quantə”. Lo schwa si pronuncia come i napoletani pronunciano le ultime vocali di “mammətə”. È diventato famoso da quando il suo uso è stato proposto per dare articolazione sintattica al neutro. Com’è noto, l’Italiano ha soltanto due generi grammaticali, il “maschile” e il “femminile”, e manca del neutro. Secondo una certa comunità di parlanti, ciò lo renderebbe non inclusivo rispetto ai soggetti che non si riconoscono nei due generi. Inoltre, il binarismo maschile/femminile produrrebbe situazioni imbarazzanti quando, dovendo rivolgerci ad una pluralità sessualmente mista (una classe scolastica, diciamo, di ragazzi e ragazzi) e volendo essere inclusivi, siamo titubanti. Cos’è più conveniente dire: “buongiorno ragazzi”, “buongiorno ragazze”, o “buongiorno ragazzi e ragazze”? Gli schwaisti sostengono che è più politically correct dire: “buongiorno ragazzə”. Come fare, però, a distinguere il singolare dal plurale? Gli schwaisti coerenti introducono un altro simbolo per il plurale, lo schwa lungo, “з”. E quindi: “buongiorno ragazzз”.
Quella dell’inclusione linguistica non è soltanto una questione lessicale, come nel caso dei nomi delle professioni e dei mestieri declinati al femminile (“avvocata”, “sindaca”, etc.). Secondo gli schwaisti, la stessa struttura sintattica e morfologica della lingua italiana è contaminata da pregiudizi di genere. Così, p. es., la regola grammaticale del maschile sovraesteso, che prescrive di utilizzare il maschile nei casi di riferimento a una moltitudine sessualmente mista, rifletterebbe (e giustificherebbe) una forma più o meno velata di maschilismo. In una intervista rilasciata qualche tempo fa, la sociolinguistica Vera Gheno ha affermato che la regola avrebbe «il difetto di far scomparire le donne ed eventualmente anche le persone non binarie».
Vediamo lo schwa (e altri simboli con la stessa funzione, come l’asterisco così detto “egualitario” o il segno della chiocciola) non solo nella lingua scritta dei social o delle conversazioni private. Nel libricino di Arcangeli è citato il sesto numero del 2021 del magazine menelique, in cui la redazione annuncia l’uso sistematico di «una strana lettera che non appartiene (ancora) all’alfabeto italiano, una specie di “e” rovesciata», con l’obiettivo di «risolvere due questioni […]: l’uso o meglio il sopruso [sic] del cosidetto maschile sovraesteso e l’incapacità della nostra lingua di parlare di persone che non si identificano in generi binari». Anche la casa editrice Effequ ha deciso di «accogliere la proposta della sociolinguista Vera Gheno di sostituire il maschile generico con lo schwa “ə”». A occasionare la petizione di Arcangeli, “Lo schwa (ə)? No, grazie. Pro lingua nostra”, diretta ai ministeri dell’Università e dell’Istruzione e che ha attualmente superato le 20.000 firme, è stata la presenza dello schwa in alcuni verbali “galeotti” di una commissione per l’abilitazione scientifica nazionale alle funzioni di professore universitario, in cui è possibile leggere espressioni come “i Professorз”, “ciascun Commissariз”.
Il libricino di Arcangeli mostra le difficoltà e le incongruenze dell’introduzione dello schwa nella lingua italiana, ma trascura un fatto sociale: il binarismo della lingua italiana è fonte di disagio per una certa comunità di parlanti. Possiamo dare ad esso una risposta meno stravagante dello schwa? Noi riteniamo di sì. Una proposta di inclusione linguistica, che sembra poter fare tutto ciò che pretende fare lo schwa, rispetta la versione linguistica del rasoio d’Occam: non moltiplicare le entità linguistiche oltre il necessario! Il nostro suggerimento è di spostare il campo d’azione dal linguaggio al metalinguaggio. Il problema dell’inclusione linguistica riguarda non tanto il linguaggio e le sue regole morfologiche binarie, quanto piuttosto il come lo descriviamo, il come ne parliamo. Per esempio, consideriamo ancora una volta la regola del maschile sovraesteso. A scuola essa può essere appresa nei termini della dominanza del maschile sul femminile e questa descrizione può veicolare una preferenza per il maschio nell’ordine delle cose. Descrizioni alternative, decisamente meno sfavorevoli per il genere femminile, sono però possibili: la scelta del genere maschile potrebbe essere presentata come cavallerescamente motivata dall’obiettivo di riservare al genere femminile un genere linguistico non contaminato da usi promiscui. Inoltre, il genere grammaticale maschile è descrivibile come genere neutro con all’occorrenza usi maschili. Genere grammaticale maschile che ha usi neutri o genere grammaticale neutro che ha usi maschili? Le due descrizioni sono empiricamente sottodeterminate. Come mi è stato fatto notare dallo scrittore siciliano Enzo Barnabà (in conversazioni private), il plurale siciliano presenta una sola forma grammaticale: i «figghi», p. es., sono sia i figli che le figlie, e non soltanto – si badi bene – in alcuni casi (quelli che si presentano nella forma del riferimento a una moltitudine sessualmente mista), ma sempre. Il fatto può essere descritto sia nei termini di un plurale maschile che si estende al femminile in tutti i casi possibili sia nei termini di una forma grammaticale neutra che rifiuta declinazioni di genere. Anche in questo caso i dati empirici non ci aiutano in maniera determinante.
Ma c’è un altro (e più radicale) senso per il quale spostare l’attenzione dal linguaggio al metalinguaggio risulta vantaggioso. Poiché non ci sono ragioni forti per caratterizzare con termini di origine sessuale o di genere (“maschile”/”femminile”) le forme grammaticali del linguaggio, le quali hanno natura astratta e convenzionale, perché non parlare più adeguatamente di “genere grammaticale primario” e di “genere grammaticale secondario” (o di “genere grammaticale 1” e di “genere grammaticale 2”)? Questo modo di descrivere la grammatica della lingua non soltanto fornisce una descrizione più corrispondente alla natura astratta delle regole sintattiche e dei type linguistici in cui i generi grammaticali propriamente consistono, ma rappresenta anche la soluzione più emancipativa e radicale (certamente la più parsimoniosa) ai problemi linguistici gender (cfr. https://larivistaculturale.com/2020/11/24/le-parole-non-hanno-sesso-contro-la-moda-dellasterisco-egualitario/). La regola del “maschile sovraesteso” (a cui dovremmo dare un altro nome) sarà spiegata nei termini di astratte condizioni d’uso: ci sono condizioni d’uso per il genere grammaticale primario – il quale non sarà né maschile né femminile, e neppure neutro – che nei casi in cui ci riferiamo a un pubblico sessualmente misto sono soddisfatte.
Luigi Pavone