La mancata pubblicazione del libro di un critico colto e intelligente, Matteo Marchesini, dopo l’annuncio con tanto di divulgazione della copertina, riapre un dibattito annoso sui misteri dell’editoria. Il caso è noto: Marchesini, nella sua raccolta di saggi Casa di carte, prevista in uscita da Bompiani, stronca Montesano, Scurati e Moresco, autori della scuderia dell’editor Antonio Franchini. Franchini interviene tardivamente, intimando a Marchesini di togliere i pezzi scomodi. Casa di carte rimane nel cassetto dell’editore e di Marchesini, che non trovano un accordo. Il Foglio ha riservato uno spazio al caso, ma soprattutto, il 5 febbraio, alla crisi della lettura, con articoli di Alfonso Berardinelli e dello stesso Marchesini. La società letteraria non nasconde lacune e manchevolezze. Imperversano l’improvvisazione e la fretta, cattive consigliere, nonché un soggettivismo in esubero. Anche l’editoria italiana non ne è immune, in un metodo di lavoro purtroppo comune dove la superficialità e il pressapochismo sono il comun denominatore.
1. Antonio Franchini è un grande editor e sa fare il suo mestiere. È serio, preparato, ha fiuto, ma non è sempre così scrupoloso, se da direttore che sceglie non aveva letto, clamorosamente, il testo da mandare in libreria. O meglio lo ha preso in mano a babbo morto, appena in tempo per accorgersi che alcuni nomi di punta della sua squadra erano stati maltrattati da Marchesini. I libri spesso non vengono assimilati neppure da chi li dovrebbe promuovere, così come centinaia di manoscritti e di pdf che arrivano nelle redazioni. Manca il tempo materiale per farlo ed è il rapporto personale abbinato al consociativismo corporativo che determina la pubblicazione degli scrittori esclusi dallo star system. Quindi, per tornare al caso Marchesini, la ragione è tutta dalla parte del critico, bocciato per l’imprudenza di non fornire il suo appoggio al lavoro della direzione della Bompiani, se questo stop non ha nulla a che vedere con il giudizio di merito su Casa di carte.
2. Non aggiungiamo altro all’inconsapevolezza e al ripensamento di Franchini, né al dispiacere di Marchesini. I principi che regolano il mercato e il potere editoriale sono invece un’occasione per riprendere la discussione. Non credo che qualcuno cerchi di convincerci, come sostiene Marchesini, che la letteratura sia “un sostegno salvifico nella vita quotidiana”. Penso invece che la letteratura sia lo specchio della realtà, se offre il gesto nel quale riconoscerci e capire meglio le proprie attitudini. Questo vale per il lettore, che soprattutto nella narrativa cerca qualcosa che gli assomigli, ma anche per lo scrittore, che rappresenta e interpreta ciò che gli sta a cuore con il suo stile e il suo linguaggio. Alberto Moravia diceva: “Scrivo per capire ciò che scrivo”. Dunque non è solo il tema che può far nascere e giustificare una stroncatura o l’esaltazione di un libro, ma appunto la capacità di scrittura che alimenta la complessità del dire, la ricreazione ambientale, la raffigurazione dei personaggi di un romanzo. Quale prodotto ci propina per lo più l’editoria perché tali elementi possano essere estrapolati con continuità, secondo una vera e propria predilezione?
3. È vero, come sostiene Marchesini, che “la sovrabbondanza di testi e immagini ha anestetizzato l’esperienza”, come è vero e senz’altro condivisibile che si avverte un bisogno insaziabile di intrattenere e di essere intrattenuti. Ma se la letteratura d’intrattenimento che soffoca un’esperienza autentica è alla base di una tendenza italiana più che decennale, questo succede perché l’editore di narrativa favorisce un genere onnivoro, ossessivamente proposto senza varianti, mutuato dal cinema e dalla televisione, dai serial americani e anglosassoni: il giallo, il noir, il thriller. Parliamo di una narrativa estemporanea e adrenalinica, di un fenomeno di marketing dove la fiction diventa falsità. La saga dei commissari à la page che emulano Montalbano e degli scrittori che si rifanno a Camilleri, occupa la metà degli spazi delle librerie. Edgar Allan Poe e Agatha Christie scavavano nei meccanismi mentali dei protagonisti e non si lasciavano dominare da sangue e mattanze di stampo fotografico. I giallisti di oggi scrivono ricalcando uno schema stereotipato, privo di creatività, che utilizza un gergo abusato. Nel 2018 un classico del Novecento come Cesare Pavese avrebbe difficoltà a pubblicare e la Recherche di Marcel Proust sarebbe rifiutata da qualunque editore. Nella storicità del romanzo il termine weltanschauung appartiene alla lingua tedesca ed esprime un concetto fondamentale nell’epistemologia, spesso applicato alla letteratura. La traduzione è “visione del mondo”, “immagine del mondo”, ed è riferita ad una persona, ad un contesto di gruppo. In fondo si narrano non solo i fatti, ma anche le idee. Cosa resta nel romanzo odierno, quando la scena madre viene assorbita dalla cronaca omicidiaria e da rappresentazioni parallele alle arti visive? Siamo in un eterno presente che non guarda all’uomo, al suo esistere. La letteratura dell’esperienza comune è soppiantata dalla letteratura del deviante, in una distorsione spettacolarizzata. Dov’è nascosto il romanzo che racconta la ferialità, la provincia, l’uomo, il lavoro, la disoccupazione di oggi? Rimaniamo nel Novecento, nell’eredità più vicina temporalmente. Dov’è finita l’epicità dei luoghi? Dov’è confinata l’utopia di Paolo Volponi e di Pier Paolo Pasolini, che biasimavano la modernità senza progresso? Dove riconoscere la corruzione borghese e lo sfilacciamento sentimentale di Alberto Moravia? Dove rivivere gli affetti familiari di Alberto Bevilacqua? Dove rileggere la tensione religiosa di Giorgio Saviane e l’illuminismo del romanzo sociale di Leonardo Sciascia, come la retrospettiva dei delusi di Antonio Tabucchi, che conservava la matrice di Federigo Tozzi?
4. Con Marchesini discordo quando afferma che la poesia è divenuta anacronistica. Lo è per vocazione, sin dalla nascita. I temi assoluti, sovrastorici (nascita, morte, amore ecc.) sono lo snodo, da sempre, di chi pubblica versi non lasciandosi inquinare da altre forme d’arte. “La vera poesia è il contrario della solitudine, perché mira a rendere più intenso il rapporto con l’altro. L’artista solitario, rinchiudendosi nella propria differenza, finisce per non sopportare più gli altri. La vicinanza di altri poeti è invece sempre benefica alla poesia. Io ne ho beneficiato tutta la vita”, disse Yves Bonnefoy in un’intervista apparsa il 5 luglio 2013 su Repubblica a cura di Fabio Gambaro, dove si capisce il fondamento di un bene comune che nasce dall’utilizzo della libertà di parola, o meglio della ricerca della libertà di parola. Dice bene Marchesini quando colpisce l’esatto rovescio del dialogo provvidenziale di Bonnefoy, che è annidato nella società mondana, attivista, nel “tribuno”, nello “scrittore uomo d’azione” e nel “modello politico-culturale velleitario e malinconico”. Penso a Giovanni Raboni, che ho conosciuto, a quella corrente interiore che gli permetteva di vedere le cose, di coglierle nell’essenza, nella sacrale conservazione di una vita passata in disparte. Il significato della morte riappare in tutta la sua emblematicità. Un orizzonte congiunge due estremi, un’associazione di idee nel travaso da un territorio all’altro, ad una metamorfosi che trattiene il tempo e lo fa vibrare (la comunione tra i vivi e i morti). Il poeta immagina il fantasma della finitudine umana e lo proietta in un estremo sentire di fisionomie e somiglianze. È questa la vera opposizione all’horror vacui, ad una paura ancestrale dell’uomo. L’assillo esistenziale si infonde in molti poeti della nostra contemporaneità, anche tra i più giovani. Proprio per questo la qualità della poesia italiana che viene pubblicata è ben più alta della qualità del romanzo. Il poeta cerca ancora l’assoluto.
5. Sul Foglio, lo stesso giorno di Marchesini, il critico Alfonso Berardinelli ha affrontato magistralmente il problema sul tramonto della lettura. L’Aie, l’Associazione italiana editori, riferiva tempo fa che il 58,8% della popolazione nazionale, durante l’anno, non apre nemmeno un libro contro il 37,8% della Spagna e il 30% della Francia. E tra i laureati, il 25% dei neodottori italiani, ricevuta la pergamena, abbandona completamente la lettura per svago o nel tempo libero. Tuttavia, rispetto alla media, sono gli eletti dai cittadini e la classe dirigente ad andare peggio. Il 39,1% dei manager, dirigenti e politici, non legge nemmeno un volume ogni dodici mesi. Scrive il romanziere Nicola Lagioia su Repubblica del 22 gennaio: “Cominciamo dalle scuole. Le biblioteche scolastiche sarebbero i luoghi perfetti per la promozione della lettura, se solo fossero sufficientemente attrezzate, se fossero attive (in molte scuole ci sono biblioteche dove in un anno non entra un libro), e soprattutto se ci fosse un bibliotecario, cioè una persona il cui compito è promuovere la lettura tra gli studenti, con strategie che variano a seconda del contesto in cui si trova”. Può essere un’idea, come gli incentivi fiscali per l’acquisto dei libri, o una promozione che parta dal ministero (Dario Franceschini finora ha speso solo vane parole) e che si concentri nelle città di provincia, non solo in qualche grande centro. Servirebbero finanziamenti mirati per creare ex novo delle fiere (almeno una per ogni regione). Bisognerebbe organizzare incontri con gli autori a cadenze mensili nelle scuole e nelle biblioteche. Ammonisce Berardinelli: “Meno si vedono lettori e più la lettura è scoraggiata. L’essere umano è un animale mimetico”. Non è neppure scontato che uno studioso di letteratura sia un buon lettore. Lo studiare non implica il leggere. Ma se non ci sono lettori anche i libri perdono significato. La provocazione di Berardinelli è di fondare scuole di lettura al posto delle numerosissime scuole di scrittura. Altro pungolo pertinente: “Se a coloro che non hanno trovato un editore si aggiungono coloro che lo cercano, si può arrivare alla conclusione che non si legge perché chi potrebbe farlo è impegnato a scrivere”. Il terzo punto dolente toccato da Berardinelli riguarda il recensire ciò che è stato già recensito, quando non c’è più niente da dire. In molti casi si scrive sul già scritto. La critica è asfittica, non rischia, non si espone. Il padre del modernismo, Charles Baudelaire, ammoniva che in fondo all’ignoto c’è il nuovo. Ma chi se ne accorgerà mai, aggiungiamo, se i nuovi autori sono infossati nelle catacombe? I non-libri risultano talismani, afferma ancora Berardinelli. Il poeta Maurizio Cucchi su Avvenire del 6 febbraio, ribadisce il concetto di confusione generato dal “pop”. Eppure dovrebbe crescere una cultura di ricerca e di élite accanto a quella di massa. Al mercato fa comodo la confusione, ma la letteratura migliore ci rimette. Siamo nella società della comunicazione spicciola e non del sapere e della conoscenza. Torniamo ai libri d’intrattenimento a discapito della qualità, ancora salvaguardata solo dalla poesia, che però ha meno lettori dei pieghevoli pubblicitari lasciati nelle cassette della posta. Et non est finis pessimus.
Alessandro Moscè