
“Eravamo felici”. Lo scrittore senza libri. Storia di Michi Panero, un fuoriclasse della dissoluzione
Cultura generale
Silvano Calzini
La fine del mondo è monotona. Il massacro accade in un indistinto grigiore: se il testo sacro gravita di nomi, a grappolo – i biblici s’incarnano in nomi/clan, in nomi/totem, Abramo, Giuseppe, Giuda, Mosè, Achab, Saul, Davide… – l’Apocalisse è muta. L’umanità è un tutt’uno, pappa di sangue alle caviglie del Dio famelico, volti ridotti a nebbiolina, terreno di guerra – poltiglia di volti, caviglie, urla – nella sempiterna sfida tra Agnello e Drago. Soltanto uno, colui che vede – vedo, vedo, vedo: nessuna visione anima il testo sigillato, ma visiva verità –, il testimone, prescelto per la rivelazione (apocalisse, appunto), ha un nome: Giovanni – servo suo Ioánni – nel caso dell’Apocalisse, il rotolo che chiude la Bibbia cristiana spalancandola, micidiale serratura che rende il libro infinito.
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Perché il libro infinito? Perché nel mondo apocalittico il tempo non esiste, tutto è ora – ecco, ecco, ecco ripete Giovanni, in una mantica del vedere –, è prossimo – tempus enim prope est – ed è continuamente. Tutto è l’istante del compimento, ed è ciò che sfugge; tutto è dentro la rapina, è già e non ancora. La lotta è perenne, la fine del mondo accade qui ed è rimandata nell’altrove, l’Armaghedòn è lì da sempre, per sempre, nel sempre. D’altronde, Dio è “Colui che è che era che viene”, “Alfa e Omega” (Ap 1, 8), scaturigine e chiusura, fiore che sboccia e sepolcro. Il cristianesimo ci ha sottratto per sempre il tempo: esaurita l’attesa del Messia, terminata l’era in cui gli dèi morivano e si ricavavano tra le cose periture – fiumi, alberi, pietre, fauni stagionali –, tutto è l’ora, l’arrivo, il tempo ultimo, il giudizio senza ultimatum, the second coming. Vita da diseredati, dunque, senza eredi né approdi, segata ogni ascendenza, ogni discendenza, per sempre sulla soglia dello zero; dunque, a che pro, ancora, avviare una casa, avvitarsi in una famiglia, decidere del mio e del tuo, nel sovvertimento di tutti i poteri, autenticamente mutilati (il tempo, la morte, i tiranni che governano opifici di ombre)?
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L’Apocalisse denuda, frantuma le identità fino al singulto; la rivelazione è plumbea, scevra di retorica: chi la legge avverte un senso di completa claustrofobia – non pretende lettori, pesca convertiti, il testo. Le immagini non sono il riflesso di una poetica, ma s’impongono come verità, come segni – i cavalieri, la bestia, “le cavallette simili a cavalli all’assalto” con “facce come quelle degli uomini” e “denti che somigliavano a quelli dei leoni” –; non cullano il senso estetico, procurano estasi, semmai, schiacciano, recludono in un verbo senza misericordia – tutto è sempre ed è mai, tutto è già deciso. Sono i poeti, piuttosto, i romanzieri, slegati dal rivelato, veri visionari, a mettere aggettivi intorno a ciò che non ammicca, dice.
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“L’Apocalisse di Giovanni è uno dei testi che più hanno formato l’immaginario occidentale… libro incomprensibile nel suo senso più profondo, su cui è impossibile dire l’ultima parola e che è quindi inesauribile”, scrive Andrea Esposito, scrittore, che ha raccolto per il Saggiatore I racconti dell’apocalisse. Cosa ci dicono questi “racconti”? Che l’uomo, alieno dall’apocalisse, la culla, la desidera, la vuole, anela la fine, rivelazione a lettere di fuoco. Incomparabilmente lontano dall’origine, escluso dal mondo – dominiamo la natura per esserne rigettati –, in una specie di cupa medietà, di stinta modestia, l’uomo ambisce a un finale, folgorante. Meraviglia della creatura che vive per distruggere, per distruggersi – che sia l’eros, il delirio delle armi, la crudele compassione dell’orante: ogni gesto procura falò. Si potrebbe dire che l’uomo non è l’essere che dà la vita, ma che pensa la morte, di continuo.
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Per estremismo, il libro curato da Esposito è esatto al nostro tempo: crisi economica, sanitaria, climatica, sociale, vaccini & bombe, frustrazioni di massa, latenti e patenti depressioni ci distinguono. La percezione è che la Terra sia prossima al collasso, che il ‘mondano’ ci abbia intiepidito, stritolato; che si dica pace per rinfocolare la guerra, che questo mondo non si possa riformare, semmai rifiutare. I testi antologizzati sono spesso insoliti, frutto, presumo, di una ricerca famelica, a cento bocche – partite leggendo George C. Wallis, Begun Rokheya Sakhawat Hossain, Secondo Lorenzini, Frank L. Pollock. “La fine era vicina; il Sole aveva smesso di scaldare, era solo un tizzone rosso fuoco sospeso in cielo; e questi due, per quanto ne sapessero, erano le ultime persone ancora vive in un mondo selvaggio fatto di ghiaccio e neve e freddo insopportabile” (questo è Wallis, Gli ultimi giorni della Terra). Spesso gli ultimi giorni replicano i primi: si profila, allora, un Eden a contrario, bello perché prossimo all’esplosione, un nuovo Adamo, infecondo; ogni luogo è l’ombelico, il polo, il roveto che arde. L’ultimo giorno viene per tutti, potenti e inermi, ovunque, ma riduce a un’eclatante singolarità.
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Non so perché Esposito non abbia antologizzato L’ultimo giorno, racconto memorabile di Richard Matheson, forse è troppo lungo. Ad ogni modo, sorprende come siano gli abitanti del Nuovo Mondo ad essere ossessionati dalla fine del mondo e dagli altri mondi. In un’antologia sulla “Fantascienza americana dell’Ottocento”, Il laboratorio dei sogni (Editori Riuniti, 1988), Carlo Pagetti aveva sviluppato questa idea intitolando una delle sezioni del libro L’immaginazione apocalittica. Tra tutti, sorprende sempre la fatale eleganza di Nathaniel Hawthorne – antologizzato da Esposito con L’olocausto della Terra –, la sapienza con cui il grande americano sa dosare fiaba e crudeltà, una ninnananna piena di denti. La fine del mondo ‘Nat’ la trovava nella “stanza stregata” dove, come un alchimista, esagerava i suoi romanzi; M.P. Shiel – raccolto con un brandello dal classico della narrativa apocalittica, La nube purpurea –, nato in un’isola, Montserrat, sognava la fine, forse, sull’isola di Redonda, quello scoglio delle Antille donatogli dal padre, si faceva chiamare Re Felipe.
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Se poi penso a Guido Morselli, mi accorgo che una certa serafica serenità coinvolge chi narra la fine, una brezza, il profumo azzurro degli angeli decapitati. Una pace.
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Certo, Esposito raduna anche i classici del genere – da Jack London a Jules Verne, da Mary Shelley a Gustav Meyrink e H.P. Lovecraft, da Leopardi a Puškin –, ma per quelli fate voi. Amo, piuttosto, in questo libro di diseguale potenza – a forza di cantare la fine, la allontaniamo, infine – gli “intermezzi” dove l’autore passa in rassegna alcuni grandi testi definitivi: Snorri Sturluson che “racconta la battaglia degli dèi che porterà alla distruzione di questo mondo e alla sua rigenerazione”, il Ragnarok; gli Oracoli sibillini; brani dal libro di Daniele e dal Pastore di Erma, autentica prelibatezza della letteratura extra canonica (“Come l’oro si prova col fuoco e diventa prezioso, così siete provati anche voi che abitate tra quelli del mondo”); alcune visioni di Ildegarda di Bingen, i testi degli aztechi sterminati da Cortés. Una letteratura per gli afflitti – il giudizio ultimo vedrà primeggiare gli umiliati ingiustamente, i giusti ammazzati, i martiri –, morte che raspa un riscatto, diventa l’angusto spazio in cui affilare la propria personale ascesi.
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Il racconto di Robert Walser, poi, parabola a contrario, dimostra che la “Fine del mondo” può essere “una casa colonica… grande, bella, una vera meraviglia di casa… calda, semplice, invitante, così fiera, così graziosa e insieme così nobile”. Qualcosa che si può mangiare, come una torta. Di cui essere grati. Intanto, sul lato destro della guancia, mastico la parola “restaurazione”: l’ha pronunciata Pietro, davanti al tempio, a Gerusalemme, così dicono gli Atti.