16 Aprile 2023

La merda d’artista, il taglio di Fontana, il dollaro di Warhol, l’orinatoio… Come si valuta un’opera d’arte?

Può accadere che un manufatto goda di considerazione artistica soltanto molto tempo dopo la sua creazione: ciò che era concepito secondo altre intenzioni subisce così una radicale alienazione. Un oggetto qualsiasi, se realizzato con moralità, rivela maggiori qualità artistiche di un quadro o di una scultura, di opere che sono il frutto di artisti mossi dalle migliori intenzioni. Al contrario, sono molte, troppe addirittura, le produzioni che non possono dirsi arte pur volendolo essere. È anche per questi motivi che capire l’arte può essere un’operazione incerta e complessa. Navighiamo a vista e il cielo è coperto di nuvole: allenare la capacità di vedere e imparare da chi questa abilità l’ha affinata nel tempo sono operazioni essenziali al nostro orientamento.

Lo stesso oggetto, anche se minimo e apparentemente secondario, acquisisce una luce nuova quando pienamente capito. Talvolta, i sussurri di esperti sacerdoti possono iniziarci a questi misteri. Eravamo ciechi, vedevamo per speculum et in enigmate, ma basta una parola per aprirci gli occhi. A tale proposito conosco un antiquario, A. R., che, oltre alla capacità di vedere, possiede il dono di un’assoluta eloquenza. Nella sua casa incantata la volgarità non è ammessa, e tutto riluce di brillantezze inattese. Lo spazio per muoversi scarseggia; ovunque sono sparsi dipinti, libri e manufatti. In situazioni del genere occorre fermarsi: saranno gli occhi e lo spirito a proiettarsi liberi; del resto, in certe case non si abita, ma si esiste soltanto. È un fenomeno insolito, questo, e opposto a ciò che talvolta accade nelle botteghe di blasonati mercanti dove le opere, nel tentativo di sembrare meglio di ciò che sono, appaiono peggio di ciò che realmente non siano. Non si tratta, dunque, solo della qualità dell’oggetto, quanto di un nuovo modo di vederlo che, in una qualche misura, lo rende veramente migliore.

Avrete capito che il merito non è della casa in sé, quanto del druido che ne occupa le stanze. Nessun inganno, intendiamoci: si impara a vedere l’arte con le parole degli altri, e quelle di A. R., limate a lungo e levigate dal vento di lunghe conversazioni, sono la stella che indica la rotta della sensibilità.

Tuttavia, con l’arte contemporanea le variabili aumentano e, con esse, anche le nostre fatiche. Ciò che funzionava per l’arte antica adesso non ci accomoda più. È deludente ma può capitare: talvolta, occhi e consigli non sono sufficienti. Una larga parte dell’arte prodotta dai primi anni del Novecento ad oggi non può essere misurata soltanto sul piano estetico, e il messaggio che essa vuole esprimere diventa un fondamentale criterio di valutazione, forse il prioritario. Ecco perché molta arte contemporanea è brutta, o, meglio, è dispensata da essere bella. Che poi le idee migliori si manifestino quasi sempre con risultati esteticamente efficaci – e, in senso lato, anche piacevoli – è un altro discorso.

Questo fenomeno dimostra un riflesso incondizionato proprio dei grandi esperti. Maghi e artisti lo sanno: il segreto è che non ci sono segreti. Così come dietro ad ogni stupefacente apparizione c’è un trucco, dietro ad ogni capolavoro, anche il più immediato e concettuale, si nascondono anni di fatica e di duro lavoro. Pensiamo ai celebri dripping di Jackson Pollock: il loro successo risiede nell’intelligenza e nella novità della modalità di esecuzione, certo, ma è innegabile che siano dei sommi esempi di armonia e proporzione. È questo il motivo per cui un qualsiasi mestierante ancora incastrato nell’espediente del dripping, e ce ne sono molti, produce quasi sempre scarabocchi insignificanti. Per i tagli di Lucio Fontana vale lo stesso, «sono solo dei tagli, riuscirebbero a tutti», sarà…, ma i suoi sono sempre così perfetti da far pensare che le idee migliori siano variopinte farfalle in cerca dell’ombra di dedizione e perizia.

Anche chi persegue il brutto talvolta finisce per ottenere il bello. I laidi e corrotti feticci di Michel Nedjar possiedono una loro bellezza e non avremmo il coraggio di modificarne neanche il minimo dettaglio. Perfino la Merda di artista di Piero Manzoni, estrema negazione della ricerca del bello, in fin dei conti ci appare nella sua gradevolezza: le proporzioni del contenitore, il caratteredella scritta e la scelta dei colori ne fanno un esempio di assoluta eleganza.

In ogni caso, il sistema di valutazione economica di un oggetto d’arte prodotto negli ultimi decenni è del tutto particolare, e non possiamo non guardare incuriositi allo scollamento definitivo tra valore e qualità del manufatto. In un primo momento l’artista si afferma sul mercato: a tale consacrazione intervengono fattori molteplici e non di rado esogeni al contesto strettamente artistico. Successivamente, la nostra valutazione della produzione di un artista è resa possibile dalla storia delle sue quotazioni. È per questo motivo che, spesso, la misurazione della potenza dell’idea o dell’efficacia estetica, se non ancorata alla presenza di un nome, scivola in un indistinto mare di relativismo. Può sembrare paradossale, ma a volte è più semplice valutare economicamente un oggetto di duemila anni fa che non un’opera d’arte concettuale eseguita il mese scorso e di cui non se ne conosce l’autore.

Tuttavia, anche la solidità del vincolo rappresentato dalla firma – che altro non dovrebbe essere che il marchio della paternità creativa – dimostra, in fondo, la sua fragilità. Marcel Duchamp prende un volgare orinatoio, frutto del lavoro di altri, e lo consacra opera d’arte. E Andy Warhol? Fa più o meno le stesse operazioni, e i suoi Brillo boxes non sono suoi, ma lo sono, e diventano le sue opere più emblematiche; è un truffatore dunque? Addirittura, egli firma direttamente le banconote: l’arte è così intrinseca al valore economico da identificarsi totalmente con la sua espressione, il denaro. Ma l’ideazione della banconota, né tantomeno la sua creazione, non riguarda Warhol. Dunque, egli si è appropriato di qualcosa che è stato sviluppato da altri. In casi come questi, lo scopo del nome, della firma, non è quello di rivendicare la paternità di un progetto, quanto di sacralizzare economicamente la banconota sovrascrivendo un nuovo valore al precedente, un nuovo valore relativo alla figura di Andy Wahrol. Relativo alla sua persona però, non al suo nome: la firma è il più immediato rimando all’aura dell’artista; è un mezzo, non un fine.

Se la questione sta così, ecco che anche il sigillo della firma appare in tutta la sua debolezza, e non si vede perché una simile operazione non possa essere condotta con nomi diversi dal proprio. Ma poi cosa è un nome proprio: Duchamp non ha firmato l’orinatoio con i suoi riferimenti, e ha scritto “R. Mutt”. Un nome inventato? Lo pseudonimo di Elsa von Freytag-Loringhoven (che a sua volta si chiamò anche Elsa Plötz ed Elsa Endell)? Quello di Louise Norton? Come vediamo, una gran confusione. In fondo, i nomi non contano: né il proprio, né quelli inventati, né quelli altrui. «What’s in a name? That which we call a rose by any other word would smell as sweet».

Antonio Soldi

Gruppo MAGOG