04 Settembre 2020

“Perché una storia così, una storia così terribile, non era mai stata raccontata?”. Tre domande ad Antonio Pagliaro

Antonio, tu hai scritto in prevalenza thriller/noir ambientati in Sicilia: cosa ti ha spinto questa volta a indagare e raccontare la vicenda realmente accaduta di tre bambine uccise a Marsala negli anni ’70?

Fra i thriller, che però preferisco chiamare noir, c’era già stata nel 2010 la parentesi di Giapponese cannibale, un breve true crime che racconta la storia di Issei Sagawa. Già allora mi resi conto che raccontare (e anche leggere) storie vere, “trascinare la realtà dentro i confini della narrativa” come dice Carrère, è la cosa che mi piace di più. Credo che sia la cosa più difficile e affascinante. Da allora avrei scritto solo true crime se avessero un mercato almeno decente. Invece no, non so se la gente non ne legga perché non se ne pubblicano (quei pochi che si pubblicano sono spesso pessimi, io stesso faccio grande fatica a trovarne di buoni in italiano, mentre nel mercato anglosassone sono molti), oppure non se ne pubblicano perché la gente non li legge (in questo caso: come fanno gli editori a saperlo?). La storia, poi, è una storia di cui avevo sbiaditi ricordi. Magari non della storia mentre stava avvenendo, in fondo avevo tre anni, ma di ciò che accadde dopo e durò per anni, le indagini, gli arresti, i processi. Ci sono, nella mia memoria, pezzi di telegiornale, prime pagine con caratteri cubitali, genitori che mormorano e poi si zittiscono. Qualche anno fa avrei voluto leggerne, ma ho scoperto che in fondo nessuno l’aveva raccontata dall’inizio alla fine. Sì, c’è uno splendido reportage di Vincenzo Consolo, ma è solo il racconto di una parte del secondo processo. Perché una storia così, probabilmente la storia più terribile mai accaduta in Sicilia, e in Sicilia di storie terribili ne sono successe, non era mai stata raccontata? Ho provato a farlo io.

Il libro si colloca tra thriller e reportage: la narrazione è condotta con la mano esperta di chi sa mantenere alta la tensione, pur nella ricchezza di riferimenti processuali e di ricostruzione precisa non solo dei fatti, ma anche del quadro complessivo, non solo siciliano, ma italiano, nel quale si sono svolti. Quanto tempo hai impiegato per scriverlo e quanto spazio hai riservato all’immaginazione rispetto ai fatti di cronaca?

C’è un tempo di gestazione, lunghissimo, in cui ho raccolto materiale e idee. Molti anni. Un tempo più breve in cui ho incontrato persone che in qualche modo erano state parte della storia. Poi la scrittura non ha preso molto tempo, alcuni mesi. Ho cercato di essere fedele a quanto davvero successo. Non sempre questo è stato possibile: sia perché a volte le cronache del tempo erano contraddittorie, sia perché molte cose che accadono e che sono documentate hanno bisogno di essere “raccordate”, e i raccordi bisogna inventarseli. Però dopo tanto studio, i personaggi, che in realtà sono persone, li conosci e capisci anche come si muovono, come parlano, come agiscono.

Sui fatti, siamo negli anni ’70, irrompe la TV: Rischiatutto, Canzonissima, il Festival di Sanremo. È il primo caso che si impose all’attenzione anche grazie alla televisione? Quanto ha influito, se ha influito, la diffusione mediatica?

Secondo me non è il primo caso che si impose all’attenzione grazie alla televisione. Il televisore era ancora un bene di lusso, si guardava per lo più nei circoli, trasmetteva poche ore al giorno e non aveva ancora scoperto la cronaca morbosa. La gente guardava “Rischiatutto”, non “Chi l’ha visto?”. I marsalesi seguivano il caso alla radio e sui quotidiani, ma soprattutto nelle piazze, dove c’erano grandi assemblee. Per molti, per i più poveri, la piazza era l’unico modo di avere notizie. Questo poi aveva una conseguenza nefasta: queste folle diventavano facilmente folle nere, assetate di vendetta contro il primo malcapitato. La tv cambierà tutto, credo, con la tragedia di Vermicino, ma Marsala accade dieci anni prima.

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L’autore: Antonio Pagliaro. Palermitano, è autore dei romanzi Il sangue degli altri (Sironi, 2007), I cani di via Lincoln (Laurana, 2010), La notte del gatto nero (Guanda, 2012), Il bacio della bielorussa (Guanda, 2015) e del racconto lungo Il giapponese cannibale (Senzapatria, 2010). Ha curato per l’editore Laurana l’antologia Palermo criminale. Il grande romanzo della città (2014). Il suo sito web è antoniopagliaro.com

La lettura. Un true crime, come lo ha definito l’autore nell’intervista: un genere poco praticato in Italia e di conseguenza poco frequentato dai lettori. In effetti Storia terribile delle bambine di Marsala è un true crime nella misura in cui racconta la vicenda del Mostro di Marsala che nell’autunno del 1971 uccise tre bambine di nove, sette e cinque anni: un crimine orrendo che all’epoca fece scalpore. Tuttavia, pur con la veridicità degli eventi e i riferimenti costanti alla cronaca dei fatti, nonché a quelli processuali (che sono riportati con dovizia di particolari) Antonio Pagliaro costruisce una narrazione rapida, sostenuta da una prosa asciutta dal ritmo incalzante, calibrata perfettamente; non mi sono distratta neanche un attimo, né mai staccata dalla pagina. L’immersione totale nella vicenda, che dipinge un quadro non solo del fatto di cronaca, ma di una città, Marsala (“una città povera, con il reddito pro-capite tra i più bassi d’Italia”) della Sicilia e di un’Italia intera, lascia lo spazio alla riflessione, al dubbio, quando “la storia semplice” di memoria “sciasciana” si complica e ci si rende conto che verità processuale e verità storica non sono sempre sullo stesso piano e non sempre coincidono. All’epoca (come nell’altro famoso caso del Mostro di Firenze) sono in pochi e credere che Michele Vinci, zio di una delle vittime, abbia agito da solo e nel corso del tempo emergono dettagli sempre più inquietanti, alcuni rivelati dallo stesso Vinci, che prima afferma, poi nega, racconta storie sempre diverse. Chi c’è davvero dietro quel delitto? Orge sataniche che avrebbero coinvolto qualche nome importante? La mafia? Un complotto? Un avvertimento? Persone che non possono essere infangate da un’accusa? E ancora: Vinci è nel pieno delle sue facoltà mentali? È sano o folle, ha diritto all’infermità mentale o ha preso in giro tutti? Sta di fatto che Antonella, Ninfa e Virginia “nisciru e un turnarunu chiù”; seimila cinquecento pagine di atti e l’assassino è un marsalese normale, perché “in giro c’è gente cattiva.” Vinci, peraltro, sarà condannato e sconterà 29 anni di carcere, e forse nessuno conosce la verità. Uno scrittore brillante, Antonio Pagliaro, che ci ha consegnato una storia da leggere assolutamente, non solo perché raccontata in maniera egregia, e non è poco, ma perché ci restituisce la memoria di tre innocenti: tre bambine, alle quali rivolgere il  nostro sguardo e alle quali l’autore dedica questa storia.

La citazione. La pena non può scaturire dell’emozione. È dura spiegare che Vinci non è un mostro ma vittima. I mostri non esistono. Come un tempo le streghe, i mostri simboleggiano solo la nostra capacità di comprendere” (Elio Esposito, difensore di Michele Vinci)

A volte le storie succedono insieme, ma non si intrecciano. A volte vicende che dovrebbero rimanere segrete diventano pubbliche perché una storia più grande alza coperchi. Ma i coperchi possiamo tenerli chiusi: la storia delle bambine di Marsala è solo una terribile storia semplice” (Antonio Pagliaro, in Appendice)

Daniela Grandinetti

*In copertina: immagine tratta da “l’Unità”; il 12 novembre 1971 “carabinieri e vigili del fuoco ispezionano il pozzo dove sono state trovate uccise le bambine Ninfa e Virginia Marchese”

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