12 Novembre 2023

Requiem per Antonio D’Orrico. Sulla delirante pratica del “marketting” e lo “svettante nanismo” di alcuni giornalisti

«Credo che non potesse capitare scrittore più giusto di Ken Follett con il suo romanzo Le armi della luce per quest’ultimo appuntamento con voi, cari lettori. È giusto perché Follett è un narratore (cosa diversa da uno scrittore) e io ho sempre preferito i narratori. (…) Non c’è voto stavolta (sapeste quanto mi è costato doverli dare). La mia gratitudine a voi tutti».

(Antonio D’Orrico, “la Lettura” #620, 15 ottobre 2023)

Questo è il (peloso) commiato dai lettori che la ex vedette dei recensori italiani, il celebre inventore del cosiddetto marketting editoriale, ha affidato alla sua ultima rubrica “La pagella” nel supplemento culturale del Corriere della Sera. Diciamo “peloso” perché l’affermazione sapeste quanto mi è costato dare voti ai libri recensiti o segnalati è melensamente falsa, tipica di chi vuol apparire immacolato di fronte al bilancio definitivo di una carriera che definire discutibile è pietoso eufemismo. Sul marketting di Antonio D’Orrico, ovvero sulla sua politica di potere consolidatasi in una specie di canone giornalistico, abbiamo parlato in più occasioni: una critica che stroncava o esaltava in modo arbitrario e naïf libri, scrittori e generi, per promuovere soprattutto amici, colleghi e protetti, nonché autori che andavano lanciati per fini commerciali. Con le sue tipiche argomentazioni facili e dirette, con la sbrigatività superficiale e irriguardosa che lo rese famoso, ai tempi d’oro D’Orrico riusciva a creare un’amplificazione sui giornali che poteva anche durare mesi. Ma grazie al Cielo erano altri tempi.

Oggi che ha dichiarato di uscire di scena possiamo fare un riassunto ragionato delle nefandezze di cui il nostro, ormai settantenne, si è macchiato negli ultimi decenni. Non stiamo esagerando con queste definizioni, perché la sua instancabile attività, certo non fine a se stessa, aveva un disegno strategico chiaro: riformare – ossia ridefinire, ridimensionare, semplificare – il comune sistema cognitivo con cui si legge, si valuta, si vive e si introietta un’opera letteraria. Modernizzarlo, per usare un altro eufemismo. L’obiettivo era ridisegnare i canoni artistici ed estetici della narrativa, svuotarli del loro significato e potenziale espressivo, per trasformarli in criteri generali di immediata suggestione, superficialmente pratici, di facile fruizione e smercio. Un disegno, come si vede, fatalmente asservito al moderno funzionamento della macchina industriale che produce libri, per trarne il massimo profitto monetario col minimo investimento in termini di patrimonio autoriale. In altre parole, si voleva rieducare l’utenza per farne fonte di reddito, a diretto beneficio di un’élite di autori e autrici funzionali al sistema, irreggimentati a dovere, sfruttando l’autorevolezza e l’appeal mediatico del recensore a fini essenzialmente corporativi.

Per fare qualche esempio, l’arroganza con cui il braccio armato D’Orrico esercitava il suo ruolo diventa evidente quando, il 4 settembre del 2003, sul supplemento “Sette” del Corsera, offende gratuitamente la scrittrice Rosa Matteucci per il suo libro Libera la Karenina che è in te:

«Viva Anna Karenina e abbasso chi, come ha fatto una poveretta pubblicata da Adelphi, la nomina invano nel titolo di un suo libro orribile (ma anche dire orribile è dire troppo, in altre civiltà per reati molto meno gravi di questo tagliano le mani)…».

Come si vede, a parte il delirio di onnipotenza che traspare dalle righe, diventano chiari gli effetti collaterali del marketting applicato: se da un lato ci si incarica di magnificare con toni clamorosi un parterre di autori (celebre il Giorgio Faletti definito “il più grande scrittore italiano), dall’altro, per contropartita, si devono sacrificare personaggi non utili, su cui potersi accanire per il solo fatto che essendo di provincia non potranno mai andare da nessuna parte (immaginiamo che, per il famoso critico trapiantato a Milano, Orvieto è come dire Burundi). Da qui la licenza di definire l’autrice “una poveretta” e di immaginarne il taglio delle mani su un giornale come il Corriere della sera. In un’altra occasione, lo sprezzante DOrrico attacca direttamente l’editor del libro che ha deciso di maltrattare – L’Inglesina in soffitta edito da Sironi – proponendosi di sostituirlo: “Luca Masali, scrittore di fantastoria come correttamente dice Giulio Mozzi (che è il suo procuratore-allenatore-produttore) (…) se fossi l’editore farei una seconda edizione dopo un editing spietato”.

A dispetto di queste operazioni arroganti e puerili, dettate da una umoralità sprezzante, nessuno al Corsera si è mai sognato di ammettere i danni provocati dalle intemperanze del suo book-jockey, e tanto meno di pretendere serietà dalle sue recensioni. E la cosa non stupisce, data la disperata necessità di ritorni economici per ogni iniziativa editoriale in cui si abbia qualche interesse. In sostanza, occorreva svuotare i canoni estetici della letteratura per trasformarli in fruibilità diretta; offrirli come il progresso che avanza, come la radiosa scoperta della facilità, per farli materializzare in pile di volumi “di grido” destinati a colonizzare gli spazi delle librerie e a invaderne le vetrine, per macinare soldi e riempire tasche, emarginando tutto ciò che non rientrava nel progetto. È chiaro che portare avanti questo Grande Compito richiedeva un impegno costante, che a un certo punto ha richiesto di spingersi oltre, fino alla radice, minando le fondamenta stesse del patrimonio letterario del Novecento, con l’espediente di dichiararlo ormai sorpassato e non più utile, dunque da archiviare. Ne prende atto Antonio Moresco il 24 febbraio 2006, nell’articolo “L’aria che tira” sul blog ilprimoamore.com:

«Nell’estate del 2004, “improvvisamente”, lo scrittore Sebastiano Vassalli si è reso conto che i grandi autori del secolo precedente: i Kafka, i Joyce, i Musil, i Céline, i Gadda, pur continuando a dirci molte cose della condizione umana, avevano cessato di essere “moderni”. Benvenuto nel Club, caro Vassalli, di quelli che più o meno improvvisamente si sono accorti che qualcosa non va più, che quegli autori, grandissimi, appartengono a un’altra dimensione e, in un certo senso, non sono più nostri contemporanei». Così comincia la recensione di Antonio D’Orrico all’ultimo libro di Vassalli, apparsa sul “Magazine” del “Corriere della Sera”. Seguono grandi lodi al libro (non l’ho letto e quindi non sono in grado di dire se le meriti e se la posizione espressa dall’Autore sia esattamente quella riassunta dal Recensore): «Bel libro di racconti, anzi bellissimo e, soprattutto, molto contemporaneo […]. Mi sono innamorato di questo libro di racconti, ho scoperto un Vassalli leggero e ironico […]. Li leggo e li rileggo. Grande Vassalli». Poi un dubbio finale: «Va bene dire ciao a Kafka & Co., ma chiedo a Vassalli: ciao anche a Nabokov, Bellow & Co.?».

Qui Antonio Moresco, di fronte a una cialtronata tanto colossale, sparata nel giornale più importante del Paese con una sfacciataggine che non sappiamo come definire, sottolinea l’evidenza. “È una cosa piccola piccola, ma significativa. Finalmente l’hanno detta fuori dai denti, hanno mostrato quello che li rode! Hanno fatto un passo avanti davvero chiaro, dopo un uso tanto grottesco delle pagine culturali e delle loro sinergie, che va avanti da tempo. È qui che si voleva arrivare, a far fuori l’ingombro della grande letteratura che ci precede, la sua incontrollabilità e la sua forza di precognizione e di spostamento. È questa l’aria che tira”. Dunque, i grandi scrittori del passato – e aggiungiamo le grandi scrittrici, visto che il book-jockey D’Orrico nomina solo maschi – hanno cessato di essere moderni: è arrivato il momento di metterli finalmente da parte per fare largo alle frotte di parvenu (ovviamente quelli graditi e funzionali al loro recinto, quelli capaci di dare profitti) che premono alle frontiere per veder “uscire” i loro libri, essere “recensiti”, essere “promossi” nelle inchiostrature redazionali, essere presentati e venduti ai banchetti commerciali che ormai s’irradiano come tentacoli lungo la Penisola. Da tempo nelle pagine culturali si sentiva quest’aria, quest’odore allusivo, quest’intento malcelato di “ridimensionare tutto, di rendere ogni cosa proporzionale alle proprie frustrazioni e alle proprie illusioni perdute o tradite e alle proprie forze, un bisogno di indistinguibilità e di ordinata mediocrità occultato dietro piccole coperture ideologiche populistiche e demagogiche, di asservimento ai bisogni delle grandi macchine che producono libri clonati per lettori che si vorrebbero anch’essi clonati, ai loro bisogni e ai loro orizzonti”.

Già quindici anni fa si denunciava questo complotto, analizzandolo senza ritegno, e noi non possiamo che tornare a sventolare l’avviso, ripetere l’allarme, perché oggi il dominio dei social, quello che ormai governa e scandisce e orienta, sta tentando di sistematizzare definitivamente l’assetto della fruizione culturale, letteraria, intellettiva, emozionale. Abbiamo visto che la grande mutazione, partita col gioco narcisistico del critico-recensore che si fa bello con una trasgressione pret-a-porter pronta a spazzare tutto, si è sviluppata negli anni con la bulimia della produzione cartacea, la mercatizzazione schiacciante delle librerie di catena, il fascettismo fosforescente pieno di millanterie, il dumping degli editori da cinque-euro-e-novantanove, con la dittatura vampiresca della catena distributiva e la disonestà intellettuale di chi ha la responsabilità d’informare. Uno show che continua, peggiorando sempre e mantenendo fermo l’obiettivo: abbassare le attese dei lettori, eliminare o ridimensionare la diversità, l’irriducibilità e la forza che si può liberare attraverso la letteratura e le altre forme di espressione.

Citando Antonio D’Orrico: «in Kafka & Co c’è qualcosa che non va più, appartengono a un’altra dimensione». Ma si noti la sfrontatezza: se prima aveva evocato addirittura il taglio delle mani per Rosa Matteucci, solo perché era “una poveretta” che aveva osato nominare Anna Karenina, noi cosa dovremmo far tagliare al Grande Critico per questa blasfemia? I grandi classici sono ancora lì, come ricorda Moresco: “non si sono spostati di un millimetro, continuano a esserci più contemporanei dei mediocri contemporanei che – loro sì – vivono in un’altra dimensione e paiono non vedere cosa sta succedendo alla nostra vita e alla nostra specie. Continuano a dirci cose decisive ed esplosive, se non abbiamo paura di ascoltarli. Le zucche arroganti e vuote dei venditori che vediamo ergersi impettiti dalle pagine dei giornali o nel buco nero della televisione erano già state individuate e oltrepassate. Leggetevi, per esempio, Le illusioni perdute di Balzac e vedrete se non ci sono già anche i piccoli D’Orrico di allora, più tutto il resto”. Perché, detto con grande chiarezza,

“D’Orrico ha almeno il dono di uno svettante nanismo e di una stupidità proterva e tutta d’un pezzo, il pregio di dire chiaro e tondo quello che pensa, di esibire la propria arguta mediocrità come se fosse una buona novella. Non ha onore, e quindi non si può dire a lui che tutto ciò non gli fa certo onore”.

In più, non ha fatto onore a quello che ancora oggi è il primo giornale italiano in termini di vendite e di autorevolezza percepita, sia pure in costante china discendente.

Sappiamo che i processi di omologazione sono diffusi e tendono a plasmare le epoche, e si somigliano fra loro, al punto che quando i classici della letteratura ce li descrivono possiamo cogliere le analogie col nostro tempo, nei meccanismi e nei risvolti psico-antropologici. E questa deriva era ben chiara non solo alla vecchia generazione, ma anche a chi era nato dopo: emblematico quanto scrisse Massimiliano Parente su “il Domenicale” del 5 marzo 2005, sotto il titolo programmatico Ma tanto voi autori da due lire siete già tutti spacciati:

“Chi ci tiene alla lingua sa che la mistificazione è tutta qui. Stanno tentando, tutti insieme, i grandi e i piccini, gli editori e gli scrittorini, di depotenziare la letteratura, di radere al suolo qualsiasi categoria estetica, di cancellare la forma. Alcuni, in buona e cattiva fede, parlano di ‘massimalismo’ per ingrigliare la letteratura intransigente e non di genere e ricondurla a un genere che non esiste, come se la letteratura vera non lo fosse sempre stata, come se Dostoevskij, Flaubert, Sterne, Joyce, Faulkner, Proust, Kafka, Melville, Leopardi, Beckett, Fenoglio, Gadda, D’Arrigo, Busi, Moresco, e ogni scrittore che sia tale non abbia avuto un suo massimalismo inconciliabile con il resto. Uno scrittore il genere o lo fonda o lo sfonda. Ma poiché pretendono di parlare di letteratura facendo a meno della lingua parlano senza dire niente, il Paradiso di Milton e le Illusioni di Balzac sono persi in partenza senza neanche tentare un saltino. L’Italia è un paese fondato sul palato, gastronomico perfino in letteratura, ecco perché nessuno replica, nessuno si scandalizza se Faletti viene definito il più grande scrittore italiano. Gli addetti ai lavori, critici e scrittori, essendo appunto dei mestieranti dei contenuti, non sanno più la differenza tra dire «sempre caro mi fu quest’ermo colle» e «mi piace stare in collina». Se parli di forma fanno no no con la testaccia, fanno spallucce, e tirano fuori l’avanguardismo e il Gruppo 63, come se l’antitesi di Covacich o della Mazzantini fossero ancora gli sperimentalismi sintattici di Nanni Balestrini e Angelo Guglielmi, o, in versione moderna, le cacchine di Aldo Nove. Che poi basta con questa storia degli sperimentalismi, delle avanguardie, sciorinati come arma tanto dai critici quanto dagli scrittori per liberarsi del fardello di avere un’estetica e continuare a sfornare storielle vendibili, sceneggiature formato romanzo. Contenti tutti, editori che non ci rimettono e scrittori che nessuno studierà. Meglio un uovo oggi che una gallina domani, meglio ancora una batteria di galline sculatrici di uova in serie e per giunta starnazzanti (fossero almeno oneste, galline artigiane e senza pretese proustiane, come De Carlo, come Ken Follett, non ci sarebbe niente da ridire; qui invece quando non piagnucolano a ovetto partorito si danno pure le arie, spesso entrambe le cose insieme)”.

Dopo anni, il risultato lo abbiamo sotto gli occhi, e non sappiamo se le cose cambieranno. Già allora i nostri narratori sembravano voler raccontare il proprio tempo tutti nello stesso modo, tranne forse i seguaci dell’evasione acronica / ucronica / postcronica e via dicendo, anche quella divenuta uniformante e prevedibile. E sorvoliamo sulla truffa del noir italiano, puro opportunismo arrivista di cui non vale la pena di parlare, servito solo a ottenere entrature e stipendi dalle produzioni tv. Ecco quindi i noti diarismi, le auto-fiction, l’ombelicalismo da scuola di scrittura, con i plotoni di “io narranti spaesati, giovani alienati impiegati in spietate multinazionali, moralismi e pacifismi e bambinismi, tutto uguale ai tormenti della letteratura americana di venti o trent’anni fa, solo trentanni dopo, e ambientati a Roma anziché a Los Angeles” (ibidem). Tutti sintomi cronici di un infantilismo strutturale che ben conosciamo e che non sembra volerci lasciare, come segno di un inguaribile provincialismo letterario. Se oggi si vuole recuperare chi ha precorso i tempi, nel Novecento, servono l’indagine e l’esercizio della memoria, la passione, perché pochissimi vogliono o sono capaci di riproporlo per assorbirne l’eredità. Inevitabile che questo, alla fine, diventi una missione.

Paolo Ferrucci

Gruppo MAGOG