La casa editrice Il Saggiatore ha recentemente pubblicato l’antologia Poesie dell’Italia contemporanea: più di mille pagine sugli ultimi cinquant’anni di poesia in italiano (l’espressione è d’obbligo essendone il dialetto escluso), che includono seicento testi tratti da centinaia di volumi; gli autori sono in secondo piano, secondo le intenzioni del libro stesso, che opta per una rassegna non autoriale, né generazionale. La struttura è invece storica e sociologica: il periodo che va dal 1971 al 2021 è diviso in cinque decadi, ognuna delle quali annovera alcuni libri di poesia stampati nella decade stessa, divisi per anni, non necessariamente quelli più significativi del percorso dei loro autori. L’idea è interessante, anche se non innovativa: la divisione in decadi era già stata utilizzata da Francesco Napoli nell’antologia Poesia presente (Raffaelli, Rimini 2011), mentre l’impianto basato sui libri anziché sugli autori si ritrova in Trent’anni di Novecento (Book, Castelmaggiore 2005) di Alberto Bertoni.
L’assunto fondamentale è che la poesia italiana contemporanea ha reciso il legame con la tradizione. A partire dal 1971, le raccolte Satura di Montale e Trasumanar e organizzar di Pasolini, hanno deviato la poesia in direzione della prosa staccandosi dalle metriche precedenti, come è accaduto pure con Viaggio d’inverno di Attilio Bertolucci, che andrebbe aggiunto. È ormai tesi indiscutibile, affermata particolarmente dalla critica accademica: semplificando, anche la poesia è divenuta postmoderna. Da qui il carattere di questa antologia, gremita di libri e citazioni, orizzontale nella gradazione dei valori, deresponsabilizzata nella scelta, soprattutto quando dichiara che
“la poesia è divenuta… una riserva di linguaggio praticamente senza limiti: un genere letterario così accogliente, radicalmente permeabile e plurivoco, che la sua perimetrazione è un vero e proprio calvario teorico”.
Alcune citazioni riportate, come quella di Jean-Marie Gleize: “(la poesia contemporanea è) quel genere letterario che è tutto ciò che ancora non è (più tutto ciò che è stato)” sono troppo generiche per approfondire la situazione, mentre quando si attesta che “l’abolizione del criterio generazionale, la riduzione del peso autoriale” sono rotture che aprono a “qualche vantaggio evidente” meglio si capisce ciò che il curatore chiama “paesaggi”. Potrebbe ad esempio davvero svelare le “filiazioni reciproche” tra gli autori (il che, detto tra parentesi, è un modo per richiamare in causa la tradizione): ovvero, gli autori che pubblicano nello stesso periodo si leggono e influenzano e proporre una lettura diacronica delle opere facilita l’emergere di queste influenze vicendevoli. Per farlo, però, sarebbe stato necessario scegliere con maggior apertura e comprensività, mentre, a proposito di paesaggi, l’antologia manca l’appuntamento con praterie di poeti che hanno lavorato in dialogo costante sia nell’ambito della propria generazione, sia con i maestri precedenti e coi giovani emergenti. Non s’intende fare il solito gioco delle assenze/presenze: ogni antologia presenta poeti senza importanza e ignora autori fondamentali. Sta nella natura delle antologie, sempre di più. Però, a proposito del confronto diacronico delle opere, una eccessiva manchevolezza di visione inficia il lavoro. Si pensi, tanto per fare un nome, all’assenza di Franco Loi, non tanto come poeta (evidentemente non si ritiene che quelle in dialetto rientrino tra le “poesie dell’Italia contemporanea”), ma come funzione guida, attuata da un privilegiato osservatorio editoriale e realizzata scrivendo su strumenti importanti, come l’inserto domenicale del Sole 24 Ore. La “funzione Loi”, solo per fare un esempio tra molti (Caproni, Sereni, Luzi, Testori, Betocchi), non è considerata, mentre è più facile riconoscervi autori-guida Antonio Porta o Edoardo Sanguineti.
La “riduzione del peso autoriale”, infatti, vale per i poeti ma forse non per la critica di riferimento. A pagina undici dell’introduzione si parla di “uno degli ultimi lavori antologici autorevolmente riconosciuti da quasi tutti coloro che frequentano il mondo della poesia”. Si tratta del lavoro critico Parola plurale, scritto a più mani, ma coordinato da un gruppo di accademici tra i quali spicca Andrea Cortellessa. La citazione è illuminante, perché ci aiuta a riconoscere una delle fonti primarie da cui l’antologia trae i libri, cioè la critica accademica, oggi orientata alla poesia neo avanguardistica e neo-neo-avanguardistica, secondo la definizione che ne dà Gianluigi Simonetti in La letteratura circostante (Il Mulino, Bologna 2018). Questo spiega la numerosa presenza di poeti sperimentali anche recenti.
Le decadi in cui l’antologia è divisa si aprono e si chiudono con episodi storici eletti ad evento: la strage di Piazza Fontana, l’avvento di Berlusconi sulla scena politica, l’abbattimento delle Torri Gemelle, la caduta del muro di Berlino, tra gli altri. Scelti come episodi paradigmatici, intendono segnalare le “soglie” oltre le quali avviene un cambiamento culturale, politico o sociale che si riflette sull’atteggiamento rispetto alla poesia di autori e lettori. Il primo periodo o “paesaggio”, ad esempio, va dalla bomba di Piazza Fontana (1969) al crollo del palco del festival di Castelporziano (1979). Il primo simboleggia l’inizio di un periodo tragico della storia d’Italia, quello del terrorismo, il secondo la fine dell’autorevolezza indiscussa dei poeti e dei festival. Ma c’è un’evidente sproporzione nell’importanza storica tra i due fatti: il crollo del palco di Castelporziano è marginale, un episodio legato a una certa generazione, che i giovani non ricorderebbero se non fosse riportato da una critica che sembra persino nostalgica di quel clima; peccato, perché in questa antologia l’episodio è raccontato in modo gustoso e piacevole, ma ininfluente (tanto che si può ancora osservare come i festival non siano affatto tramontati, ad esempio, ma soprattutto oggi siano tornati in auge persino nel definire l’autorialità: molti ritengono che l’esservi invitati sia un attestato della propria importanza come autore, sia tra i poeti, sia tra gli spettatori, che accorrono in massa agli eventi).
L’errore di valutazione degli eventi storici nasconde un difetto strutturale dell’antologia: l’eccessiva rigidità nella scelta della divisione in decadi. Non è affatto scontato che lo scenario della società italiana cambi regolarmente ogni dieci anni. A distanza di tempo, nel futuro, eventi che ai contemporanei sono sembrati cambiamenti epocali saranno ridimensionati alla giusta importanza, e sarebbe opportuno che chi intende usare questo metodo se ne accorgesse fin d’ora. Episodi qui presi come soglie di cambiamento, appartengono invece allo stesso “paesaggio”: si pensi alla guerra del Golfo e all’abbattimento delle Torri Gemelle, che fanno da delimitazione a diverse decadi ma appartengono evidentemente allo stesso atteggiamento dell’Occidente nei confronti dell’Oriente, soprattutto islamico, riguardanti le vicende del terrorismo, delle guerre in Medioriente, il corso dei rapporti tra Israele e gli stati arabi e tutto un campo sociale e storico che certamente non sta in una decade, pur influenzando direttamente la società italiana.
Mentre per gli autori sperimentali, suggeriti dall’accademia strutturalista, l’antologia dichiara di aver setacciato documenti nascosti e minimi, fino ai ciclostilati, per quelli legati al filone tradizionale, lirico, novecentesco la scelta è caduta sui poeti pubblicati dalle case editrici aziendali, distribuiti in libreria, ignorando quasi del tutto la piccola editoria, comprese gran parte delle collane e delle riviste che in queste decadi hanno operato fruttuosamente perfino in provincia. Anche in questo caso si tratta di un criterio già utilizzato: Cucchi e Giovanardi in Poeti italiani del Secondo Novecento (Mondadori, Milano 2004) lo dichiararono esplicitamente in sede di introduzione. Viene riportato in primo piano un parametro estetico che si considerava in crisi e superato: quello editoriale, la reperibilità commerciale di un libro come coefficiente del suo valore estetico. Così l’impressione è che i quadri d’insieme che l’antologia vorrebbe ingegnosamente ricostruire, non si formano. Facciamo un esempio.
Alle pagine 106 e 107 del libro troviamo la poesia Due mondi – e io vengo dall’altro del Diario bizantino di Cristina Campo. Le viene accostata a pagina 105 una poesia di Nelo Risi, che riportiamo:
Capirei…
se un’elegia ti pagasse la cena
se un’ode ti scaldasse la casa
se un inno ti curasse la pressione
se un idillio ti consentisse un salario
se un madrigale ti garantisse la pensione
se una rima facesse da gentil ramo a un piviere
se la poesia insomma servisse a qualcosa
fosse un mestiere che rende…Chi sa fare di meglio
non perda tempo dietro i versi.
Non occorrono raffinati strumenti interpretativi per capire che si tratta di un testo modesto. La reiterazione sgradevole del “se” a inizio verso ci porta in un ambito di composizione dilettantesca, il pensiero è un luogo comune (“carmina non dant panem”), le immagini e il lessico (eccetto forse il sesto verso) sono il risultato di un debole sforzo compositivo, la conclusione incoerente: perché, se così stanno le cose, l’autore scrive? Si gira pagina e questa mediocrità inaspettatamente antologizzata si scontra col testo di Cristina Campo, che non occorre riportare: una poesia assoluta, misteriosa, precisa, colta, testimonianza di una delle pochissime esperienze poetiche che potremmo commisurare coi giganti del secolo del calibro, ad esempio, di Marina Cvetaeva, alle cui cadenze la poesia di Campo è prossima. Quali sono dunque il rapporto, il dialogo, le reciproche influenze? Chissà se la Campo conosceva il testo di Risi ma, in tutti i casi, è come se lo ignorasse; ignoranza ricambiata evidentemente da Risi, poeta invece stimato da Antonio Porta: nella sua Poesia degli anni Settanta, (altra antologia impostata annalisticamente) tesa ad attestare la crisi della poesia stessa, ricorda che per il 1969 aveva trovato solo lui.
In conclusione, questa antologia vien fuori dal combinato disposto tra l’accademia strutturalista e l’editoria aziendalista; un terzo elemento di scelta, l’autonomia personale del curatore, porta a qualche piacevole scoperta, ma l’enfasi data ad autori o autrici ancora in fase di affermazione evidenziano una scelta caratterizzata da motivazioni personali e amicali, più che da oneste valutazioni estetiche. L’aura di libera, personale, decennale ricerca di cui il libro è rivestito, è inoltre smentita da alcune circostanze. L’agenzia Ansa, ad esempio, ne ha annunciato con una velina la pubblicazione, cosa di cui non si ha memoria per un’antologia di poesia contemporanea; il che indica che il progetto è ben sostenuto finanziariamente, con un investimento in comunicazione che intende porlo in un determinato segmento di mercato; la voluminosità del libro va nella stessa direzione, quella di presentarlo come manuale, deposito esauriente di materiale di ricerca; le indicazioni finali di tipo didattico, infine, strizzano l’occhio al mondo della scuola, con le sue distinzioni semplici da seguire e utilizzare in un’ipotetica lezione in classe: poesie “facili e difficili”, “civili e incivili”, “io e non io” e altre categorie che fanno ormai parte del bagaglio didattico medio di chi prova a insegnare poesia.
La concezione ultima che guida il volume è quella del relativismo, frutto del rifiuto del criterio autoriale e generazionale. Il relativismo di mercato si fonda infatti sul progressivo azzeramento delle differenze di valore, sull’orizzontalità degli oggetti in tutti i campi, sulla fondamentale interscambiabilità delle esperienze, per giungere, negli ultimi tempi, al crescente disvalore dell’umano, il maggior pericolo per le società attuali, probabilmente in tutto il mondo. È quanto accade in questa antologia. I libri sono le merci poste sugli scaffali degli anni del supermercato della poesia contemporanea. Contrariamente a quanto ha affermato proprio in questi giorni Maurizio Cucchi alla trasmissione “Fahrenheit” su Radio 3, la poesia non è affatto impermeabile alla cultura di massa. Anzi, è in atto una serie di movimenti per farla entrare in quell’ambito, a cui era stata effettivamente refrattaria fino a qualche anno fa: il Premio Strega Poesia (è stato recentemente dimostrato, testi alla mano, che i premi meglio sponsorizzati hanno unicamente lo scopo di far vendere i libri); l’arminizzazione del poeta; l’espansione dei festival letterari; la mescolanza del genere poesia con la musica, il teatro, la performance pubblica, in definitiva lo spettacolo, così cara ancora alla critica accademica; infine prodotti recenti come l’antologia poetica che Crocetti ha affidato a Jovanotti della cui categoria, con le dovute distinzioni in fatto di documentazione e fondamenta teoriche, fa parte anche l’antologia del Saggiatore.
Gianfranco Lauretano