Di Antigone si dice quando la ragione ‘di cuore’ supera la ‘ragion di Stato’, spesso in relazione alla ‘disobbedienza civile’. Che parapiglia di segni, che s’incastrano sull’indiscusso e l’indicibile del mito. In una sintesi estrema, che non chiarifica ma abbaglia, Simone Weil scrive: “La legge non scritta alla quale questa giovinetta obbediva, lontanissima dall’avere qualcosa in comune con un qualche diritto o con alcunché di naturale, non era altro che l’amore estremo, assurdo, che ha spinto il Cristo sulla Croce. La Giustizia, compagna delle divinità dell’altro mondo, prescrive questo eccesso d’amore. Nessun diritto potrebbe prescriverlo. Il diritto non ha alcun legame diretto con l’amore”. Condivido questo pensiero con Silvio Castiglioni, teatrante di genio, avvezzo a portare in scena l’atto letterario – da Alessandro Manzoni a Silvio D’Arzo, da Dostoevskij a Mandel’stam, da Nino Pedretti ad Andrea Zanzotto – che mi mostra il suo ultimo progetto. S’intitola Notizie dalla città di Tebe, andrà in scena al Teatro Titano giovedì 11 luglio, ore 21, nella Repubblica di San Marino, ed è esito di un lavoro teatrale condotto con l’aiuto di un poeta, Franca Mancinelli. Che uno Stato ragioni su se stesso a partire da un testo che ne scassa le ‘ragioni’ mi pare magnifico. Se penso a Tebe, vado alla Sfinge e alle Baccanti, ai draghi e agli incesti e ai fratricidi: al luogo che odora di enigma. A un caos aggiogato di norme. Tebe, per altro, ha origine nel ratto di Europa da parte di Zeus: abitare il fato di quel mito ci induce a orientare un destino. D’altronde, nel primo stasimo di Antigone, Sofocle detta, con verbo che fa evolvere il mistero, la statura dell’umano: “Pullula mistero. E nulla più misterioso d’uomo vive”, traduce Ezio Savino; così traduceva Camillo Sbarbaro: “Molte sono le meraviglie ma nulla è più portentoso dell’uomo”. La versione-interpretazione di Hölderlin, del 1804, è un morso in faccia: “Mostruoso è molto. Ma niente/ Più mostruoso dell’uomo”. (d.b.)
Intanto. Cosa c’entra Tebe con San Marino? Tebe è terra di draghi e di sfingi, di profeti malcreduti e di unioni incestuose, della sfida tra contratto politico e amore filiale. Come l’avete incardinata, lassù, perché?
Silvio Castiglioni: Un giorno ci trovavamo nella cosiddetta Cava dei Balestrieri, un luogo simbolico dell’identità sammarinese, ora a ridosso del neonato Museo di Arte Contemporanea che accoglie opere di grandissimo interesse, realizzate proprio a San Marino in un’epoca recente quando la Repubblica attirava e incoraggiava artisti di livello internazionale. In quel luogo è comparsa la figura di Antigone, la prima volta. Occorre sapere che questo progetto è in qualche modo legato al riconoscimento ottenuto dalla Repubblica quale Patrimonio dell’Umanità. E le motivazioni sono scolpite sulla porta d’ingresso a San Marino Città: per la ricchezza e l’originalità del patrimonio immateriale costituito dalle istituzioni democratiche rappresentative e partecipate della Repubblica. Una democrazia antica ed efficiente che ha promosso in anticipo sui tempi alcune significative conquiste. Ed è a questa capacità di emancipazione delle fasce meno favorite della popolazione, di tolleranza, di innovazione (come testimonia quel Museo) che occorre richiamarsi oggi. Uscire dalla mera sopravvivenza e incamminarsi nuovamente sul sentiero delle proposte ardite, del laboratorio di convivenza. Forse Antigone, la disubbidiente, era comparsa per ricordarci tutto questo. Abbiamo cercato anche radici più antiche. Franca mi aveva parlato delle statuette in bronzo rinvenute nell’antico santuario della Tanaccia e mi ci ha portato. Il sito, che oggi si presenta come un dirupo in mezzo al bosco, pare fosse il primo insediamento sul monte Titano, un tempo meta di pellegrinaggi, un luogo di culto attivo almeno 5 secoli avanti Cristo.
Franca Mancinelli: Quando inizi a riflettere su un luogo, e lo fai scavando attraverso gli strati e i depositi culturali che si sono accumulati nel tempo, incontri in qualche modo le sue radici, che sono universali. È così che siamo arrivati da San Marino alla forma e idea di città, e quindi alla polis. E da lì ad Antigone, la tragedia che mette in scena il difficile equilibrio su cui si regge la polis. Una comunità non può fondare le sue leggi sulla trasgressione della legge più antica, che appartiene all’origine stessa dell’umanità, come quella legata al seppellimento dei propri cari. Lavorando ci siamo poi accorti che questo motivo antico, tragico, era capace di fare traspirare conflitti e contraddizioni che il gruppo di partecipanti del laboratorio viveva o portava nella propria storia, come appartenente a una piccola comunità che ha lottato per secoli per mantenere la propria indipendenza, e ha quindi nel suo Dna una lunga catena di tensioni, compromessi, identità difesa. Nel lavoro è poi confluita l’esperienza che Silvio ha portato dall’Antigone di Sofocle di Tiezzi, che si rifaceva alla versione di Hölderlin, adattata da Brecht.
Flirto con i dati culturali che avete disseminato. La vostra Tebe è letta attraverso una lente ‘germanica’: l’Edipo di Hölderlin e le ‘voci’ di Bernhard. Come mai, come si coagula tutta questa materia?
SC: All’inizio c’è sempre il caso che ci mette lo zampino. Thomas Bernhard è stato uno degli inneschi del lavoro, un punto di partenza. Sono molto affezionato a un suo librino L’imitatore di voci, che a volte utilizzo come materiale nei laboratori. In questo caso ha acceso un grande interesse e alimentato una risposta sorprendente. L’abbiamo usato come modello, come esempio, per mettere a punto un nostro prontuario di cronache di varia umanità. Ognuno ha inventato un caso bizzarro o paradossale della vita, spesso di cronaca nera, trattandolo con la stucchevole prosopopea di un cronista di provincia, come fa magistralmente Bernhard. Ci siamo divertiti molto a pescare a man bassa in tutte le follie e le idiozie e le catastrofi domestiche che abbondano nei comportamenti dell’essere umano di ogni latitudine. Poi è arrivata la figura di Antigone, la ragazza che dice no. L’idea di un conflitto che può lacerare una comunità ha preso le sue sembianze, nel confronto scontro con Creonte. E l’Antigone che io meglio conosco, per averci lavorato con la compagnia Lombardi-Tiezzi, è quella filtrata dalla traduzione in tedesco che ne fece in età romantica il grande poeta Hölderlin, fedele a Sofocle nella sostanza, e però ricca di una singolare potenza poetica, inusuale in una traduzione dal greco classico, lingua che Hölderlin sembra non padroneggiasse molto bene e quindi piena di geniali svarioni. Quando Brecht fece la sua riscrittura da Sofocle interpolando un paio di scene dal sapore contemporaneo – la Germania nazista –, utilizzò proprio la versione di Hölderlin. Abbiamo isolato alcune scene principali di quell’Antigone su cui poi è intervenuta Franca, tagliando e riscrivendo, riportando quella lingua complessa e a tratti arcaica, più vicina alla bocca dei partecipanti del laboratorio – che hanno alcune esperienze di teatro o si sono avvicinati al suo linguaggio per la prima volta. I due spunti, Bernhard e Hölderlin/Brecht, si sono incontrati e poi intrecciati coi contributi testuali dei partecipanti. E qui l’intervento di Franca è stato veramente decisivo nello spogliare e nel fare spazio, per fare emergere la parola nella sua potenziale carica poetica. Incrementando l’integrazione e la collaborazione nel nostro coro, o stormo, come ama chiamarlo Franca.
FM: Il pozzo buio, senza fondo, del mito, e la contemporaneità. Antigone e Bernhard. A unirli è la stessa forma di ricerca e di interrogazione, che trova nel gruppo di persone con cui abbiamo lavorato, il punto di partenza e di unione. Perché questo gruppo, per accordarsi e trovare sintonia, all’inizio del lavoro è diventato un coro. Fare parte di un coro significa riconoscersi all’interno di uno stesso corpo, che obbedisce a uno stesso ritmo e a forze comuni, perché ha saputo creare al proprio interno quello spazio sacro, dove ciascuno può essere quello che è, libero da ogni sguardo e giudizio, e in questo spazio dare voce alle tante vite che gli appartengono, che la vita quotidiana non gli consente di esprimere: può tornare a giocare, con la profonda e seria libertà dell’infanzia. Iniziare a recitare, come ci ricordava Silvio durante questo lavoro, è proprio questo “facciamo che”, questo luogo di “sacra impunità” all’interno del quale ognuno può sentirsi protetto e insieme liberato dai confini che l’identità individuale ci assegna. Recitare è lo stesso di giocare, così in inglese, francese e tedesco: to play, jouer, spielen.
…c’è poi, appunto, questo lavoro sul ‘coro’, sulla dimensione ‘corale’, greco classica, poi perduta – nel teatro moderno, eventualmente, vige il monologo, non il dire insieme – come mai?
SC: Sono ossessionato dalla dimensione del coro. Forse perché ho fatto molti monologhi, o soliloqui, come preferiva chiamarli Leo de Berardinis. D’altra parte come ci ricorda ‘Lello’ Baldini, uno che se ne intendeva, ciascuno di noi non fa altro per tutta la vita, monologhi. Non si fa che parlare allo specchio, a se stessi, a vanvera. Nel mio caso misurarmi col monologo è stata anche una scelta dettata dalla necessità di salvaguardare una certa intimità dell’agire scenico. Non volevo perdere il contatto col mio mondo interiore. E poi una necessità, se volevo esplorare certe direzioni o misurarmi con certi temi, in una dimensione di autoproduzione. Ma se ho la fortuna di incontrare un gruppo di persone all’insegna del teatro, come in questo percorso sanmarinese, il lavoro sul coro si impone come la dimensione o la condizione madre, che genera tutto il resto. Nel coro si sta come nel grande orecchio, in perpetuo ascolto. Il coro è uno scambio fra individui diversi ma di uguale valore, la metafora perfetta della buona politica. I diversi, per storia indole pensiero tendenze sessuali ecc., devono mettersi d’accordo, devono mediare, trovare una soluzione. Il concetto di coro è potente, una comunità parallela, che funziona solo se è solidale, ma non impersonale. Possiamo anche immaginarlo come una rappresentanza degli spettatori sulla scena, un gruppo di cittadini che ha facoltà di intervenire nell’azione o di commentarla in diretta. Ovviamente il mio non vuol essere un discorso storico. In fondo il teatro greco antico non è durato che pochi decenni e poi è scomparso per secoli e secoli. Ma ci ha regalato delle idee formidabili. Come appunto il coro, o come il protagonista, il primo agonista ossia un individuo che esce dal coro e al coro si contrappone, che non obbedisce più all’obbligo della mediazione ma asseconda il suo destino divergente, e percorre una sua traiettoria individuale. Sono idee potenti, capaci di alimentare uno sguardo perforante sulla realtà. E poi quando ci si ritrova insieme per iniziare un lavoro teatrale, un viaggio che potrebbe portare a uno spettacolo, è fondamentale passare dal coro, se non altro per accordare gli strumenti e cercare la sintonia, come ha detto Franca. In questo caso il coro è proprio il protagonista dell’azione principale. Distribuisce e riassorbe in se stesso le diverse parti. Un gruppo di cittadini patisce al suo interno una divisione profonda che può generare un conflitto anche catastrofico. Se saltano i dispositivi di sicurezza coi quali ogni comunità si protegge dalle lacerazioni anche gravi, può accadere il peggio. Occorre esorcizzare questo pericolo. La contrapposizione Antigone / Creonte ‘interpreta’ questa lacerazione. Il coro si sdoppia in due, due partiti, due fazioni, due squadre, due eserciti. Per un po’, almeno. Poi bisogna ricomporre, risanare. E pregare.
FM: Uno dei privilegi più grandi che l’esistenza ci riserva è quello di potere essere solo sguardo. La scrittura è un’esperienza dello sguardo, nasce dal corpo, dall’ascolto di ciò che transita in esso, ma è insieme anche la possibilità di scorporarsi, fare spazio e “prendere corpo” altrove, nelle cose e negli altri. Durante questo laboratorio, per ore ho potuto esercitare questo privilegio che mi è stato concesso da Silvio e dal gruppo. Per questo sono colma di riconoscenza, perché sono stata colmata di doni. Uno dei più grandi è forse quello di avere potuto seguire il lento processo che ha portato sedici persone a formare un coro, e poi, dal suo interno, da questo spazio di accoglienza che si è fatto ascolto e risonanza, all’apertura di altre possibilità di vita, di nuove rotte. Ho potuto così assistere a tante nascite. Un tono di voce che non trovava la forza di liberarsi, si dà nitido, un gesto a lungo contratto e imprigionato, si riconosce, scopre di potere esistere. Per ognuna di queste nascite ho esultato internamente e continuo ad esultare, come festeggiando una vittoria contro le prigionie che i nostri Creonte ci impongono e che continuiamo a scontare inconsapevoli.
Il teatro è ancora un atto ‘politico’? Intendo, sa far levitare i luoghi oltre la cronaca, a titillare il mito?
SC: La cronaca, la maniera in cui abitualmente ci si presenta la realtà, è un colossale artificio mediatico in balia di una folle emotività che non ci fa veder nulla, se non quello che desideriamo, o che abbiamo paura di vedere. È indubbio che qualcosa stia accadendo, ma che cosa? Un mio maestro ha detto: il teatro è l’ultimo posto dove andare a nascondersi, poiché in teatro si vede tutto. È concepito apposta, no?, per vedere, per leggere dentro. Se provi a fregarmi me ne accorgo subito, non così nella realtà, pare. Il velo di polvere che ricopre ogni cosa, ogni fatto e misfatto, a volte è così spesso che non si riconosce più nemmeno la sagoma delle cose che stanno sotto. Per questo credo che il teatro sia uno degli ultimi posti dove possa rifugiarsi la politica oggi. In teatro è difficile mentire a se sessi, (come in letteratura, direbbe Brodskij), anzi è quasi impossibile, dunque è un atto profondamente politico…
FM: Sì, è un atto politico, come ogni atto autentico, che nasce da una fede, da un affidamento profondo. Facendo teatro si vive la parola, la si abita, le si ridona un corpo. Ci si affida interamente a questa forma custodita nella lingua. Oggi siamo abituati a parole di superficie, disinnescate dalla loro carica creativa, uniformate alle leggi della comunicazione e del mercato. Parole a cui non si può credere, a cui è necessario non credere, da cui bisogna difendersi, arginandole, creando uno spazio di silenzio. È in questo spazio vuoto, marginale, che accade ancora la poesia, il teatro. Prima di questo laboratorio pensavo che il lettore più attento di un testo fosse il suo traduttore. Più del critico, spesso viziato da lenti intellettuali e speculative, il traduttore è chiamato a calarsi nella materia della lingua, e riportarne in vita strati sommersi. Ora penso che forse, ancora più del traduttore da una lingua all’altra, il lettore più attento possa essere chi traduce dalla pagina al corpo. Lavorare con Silvio mi ha dato la possibilità di assistere a un lavoro che porta a sondare la parola come un terreno su cui gettare le fondamenta del presente, vicino alle faglie da cui affiora, come un’acqua primordiale, il mito.
*In copertina: Charles Jalabert, “Edipo e Antigone lasciano la città di Tebe”, 1842