19 Gennaio 2022

Enrico IV di Pirandello compie cent'anni! E ancora non sappiamo il suo vero nome...

“Circa vent’anni addietro, alcuni giovani signori e signore dell’aristocrazia pensarono di fare per loro diletto, in tempo di carnevale, una ‘cavalcata in costume’ in una villa patrizia: ciascuno di quei signori s’era scelto un personaggio storico, re o principe, da figurare con la sua dama accanto, regina o principessa, sul cavallo bardato secondo i costumi dell’epoca. Uno di questi signori s’era scelto il personaggio di Enrico IV; e per rappresentarlo il meglio possibile, s’era dato la pena e il tormento d’uno studio intensissimo, minuzioso e preciso, che lo aveva per circa un mese ossessionato. […] Senza falsa modestia, l’argomento mi pare degno di Lei e della potenza della Sua arte” ha scritto Luigi Pirandello in una lettera a Ruggero Ruggeri del 21 settembre 1921. La genesi del testo visse l’attesa nella cerniera che separava la fine dell’anno e l’inizio del nuovo: pronto nella seconda metà del 1921, debuttò a febbraio del 1922, il giorno 24 per la precisione, sulle assi del Teatro Manzoni di Milano. Esattamente 100 anni fa quindi uno dei capolavori del Nobel di Girgenti si presentò al mondo. Dopo quella data, la concezione di teatro cambiò radicalmente visione.

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La prima anomalia risiede proprio nel protagonista, un unicum di tutta, o quasi, la produzione teatrale pirandelliana: il lettore e lo spettatore non hanno accesso al suo vero nome. In scena, e nelle pagine scritte quindi, il ruolo che gli è stato assegnato è e sarà per sempre la sua vita. Un Enrico IV che parte da lontano (Enrico IV di Franconia fu, dal 1056, re dei Romani e imperatore romano da 1084 sino a quando abdicò, nel 1105) e che si presenta, novecentissimo e novecentesco, nella rilettura, nella nuova vita, nel nuovo ruolo che gli concede Pirandello.

Fotografia di Tommaso Le Pera

L’accoglienza fu straordinaria, a differenza dei Sei personaggi in cerca d’autore. Nella tappa a Roma, svoltasi nell’autunno dello stesso anno, Fausto Maria Martini (“La Tribuna”, Roma, 18 ottobre 1922) recensì la mise en scene con queste parole: “La più tipica perché in nessun’altra delle commedie di Pirandello quello che è considerato il leitmotiv del suo teatro e della sua poesia tormentata e tormentosa trova uno sviluppo così pieno, armonico, limpido come in questa tragedia: la più alta perché a parere nostro in nessuna delle sue opere precedenti il Pirandello tocca quel vertice di poesia, veramente areato da una specie di amletica grandezza, che egli tocca nell’indimenticabile scena dell’Enrico IV, nella quale il fosco pro­tagonista della tragedia rivela ai servi la simulazione della sua pazzia”.

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Sulla traccia di alcuni testi già dati al palco – quelli della “seconda fase”, quelli cioè “umoristici/grotteschi” (Il berretto a sonagli, Il giuoco delle parti, L’uomo, la bestia e la virtù, giusto per ricordare qualche titolo, e l’elenco sarebbe ancora lungo) – Pirandello analizza (qui con efficacia micidiale) il rapporto bivalente e non sempre bidirezionale tra la vita e la forma, tra la finzione e la realtà. Tra la persona e personaggio (in latino “personae” significa “personaggi”). Una sfida a cui gli attori non possono esimersi: sul palco devono dimenticare il loro nome e il loro cognome per “essere”, “sembrare” o “diventare” – chi ce la fa – Enrico IV.

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Fotografia di Tommaso Le Pera

Ce l’ha fatta Ruggero Ruggeri, ovviamente, accolto da applausi e favori. Come anche Salvo Randone, alla fine degli anni Sessanta. Come Romolo Valli, diretto da Giorgio De Lullo, i due geni della Compagnia dei Giovani fondata nel 1954 e che riuniva anche Rossella Falk, Elsa Albani e Anna Maria Guarnieri. Uno dei meriti che venne riconosciuto alla Compagnia – che affrontò Enrico IV negli anni Settanta, nel 1977: al Teatro Eliseo di Roma l’allestimento aveva due sipari (uno per la tragedia e uno per la recita) di color rosso (il colore della vita) e oro (il colore del sogno), e il trono di Enrico IV fu ornato da due bocche di leone, simbolo di sacralità e potenzia – fu, come scrisse Masolino D’Amico, “quello di liberare Pirandello dal ‘pirandellismo’, di presentare un Pirandello internazionale proprio perché esprimeva i problemi esistenziali di ogni uomo al di là dei confini geografici e sociali”. La chicca ideata dalla Compagnia dei Giovani? Due pomi rossi disegnati sulle guance di Romolo Valli, pazzo e consapevole di dover recitare quella parte per essere ancora ascoltato dalla corte di tirapiedi e lacchè. E solo alla fine, con un guizzo negli occhi, rivela – a chi lo circonda – la sua recita. Si disvela cioè la finzione teatrale: non è una realtà storica ma un’illusione creata per assecondare la pazzia del re. La tragedia “in maschera” quindi non è quella di un personaggio bensì quella di un’intera classe sociale.

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Enrico IV l’ho incocciato negli anni dell’Università ad Urbino, alla fine del secolo scorso. Negli scaffali di casa riaffiora un quaderno, quello degli appunti. Il testo mette in scena la vita, intesa come finzione, lì dove la finzione, la finta pazzia, è del tutto consapevole: il protagonista ha sofferto la propria alienazione, unica scappatoia per riparare le ferite della psiche. Enrico IV, che cade da cavallo durante una recita e che sbatte la testa, è innamorato di Matilde e sarà solo nella finzione, quindi nella recita, che riuscirà a svelarle il suo sentimento. Il teatro, in questo caso, si trasforma in un regno di libertà: la pazzia è la capacità di credere nella luna nel pozzo dove tutti potrebbero riconoscersi, evitando il conflitto tra essere e apparire. Enrico, conscio di avere una sola modalità per farsi accettare – quello della follia – costruisce dentro il suo castello immaginario e reale una trappola per gli altri. È lui che vuole condurre il gioco. Chi entra nel suo spazio, nella sua “stanza della tortura”, è costretto a recitare. Per essere ancora e sempre Enrico IV, deve esserci un pubblico. In sala e sul palco.

Fotografia di Tommaso Le Pera

In quasi tutti i lavori di Pirandello i fatti non avvengono sulla scena. I fatti sono già avvenuti. E anche i moventi dell’azione possono risultare oltremodo oscuri. “In Enrico IV la scena non accoglierà più personaggi che agiscono, ma personaggi che hanno agito – scrive Giovanni Macchia -. Sulla scena il dramma diviene allora una cosa sola con la discussione del dramma. Pirandello non ci lascia mai andare a letto tranquilli. Richiede che il dubbio installi in noi le sue profonde radici, fino al punto che esso scoppi nel dissenso o nel rifiuto. Lo spettatore pirandelliano è visitato da un malessere vago, irritato. Ma il destino dell’artista oggi non sarà quello di farsi amare. Direi che è quasi impossibile amare Pirandello”.

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Enrico IV non è una maschera. È una follia. Perché, come l’Amleto di Shakespeare, racconta l’inautenticità dell’essere e di ogni forma umana.

Alessandro Carli

Gruppo MAGOG