Di Anne Bradstreet si ricorda il primato. È la prima donna statunitense ad essere designata poetessa; è la prima poetessa in lingua inglese di cui è stato pubblicato un libro. Il libro s’intitola The Tenth Muse Lately Sprung Up in America, viene stampato a Londra nel 1650, per interesse del cognato di Anne; all’epoca, le congreghe puritane relegavano la femmina alle virtù familiari, la poesia era cosa, si diceva, futile e per menti coriacee al peccato, virili.
Non è soltanto – è ovvio – questione di cogliere una primizia, di primato.
Harold Bloom installa Anne Bradstreet in posizione eminente nella sua immane antologia American Religious Poems (2006), riconoscendo nella sua opera – né occasionale né devozionale – il carisma di un’epoca. Nata Dudley nel marzo del 1612, a Northampton, UK, presso famiglia abbiente, sposò il ministro Simon Bradstreet a sedici anni: a diciotto si imbarcò con il marito sull’Arabella, parte della flotta del politico puritano John Winthrop, con lo scopo di colonizzare il New England. Fu una vita avventurosa e ricca di mutamenti, quella di Anne, donna che accettò il ‘ruolo’ ma non l’immobilismo; il padre e il marito ricoprirono le massime cariche alla guida di quello che sarebbe diventato il Massachusetts; tra l’atro, furono tra i fondatori dell’università di Harvard.
La vita di Anne, sovraccarica di figli – sei – fu un distillato di dolori – vaiolo, tubercolosi, accessi paralitici –: morì nel 1672, sessantenne. Benché privata di un’educazione regolare, studiò, grazie al padre, illuminato, Edmund Spenser e William Shakespeare; amava i versi dell’ugonotto Du Bartas. In sintesi, consegnò il repertorio biblico alla selvatica natura americana: Giobbe tra le querce e i Mohicani. Predicò la rinuncia, i sintagmi di una morigeratezza lunare – non priva di lupi.
Alcuni levigati ritratti postumi – quello di Edmund H. Garrett ad esempio; di lei non possediamo profili d’epoca – la vedono al desco, mentre scrive, in foggia puritana; lo sguardo – virgineo, docile, erbivoro – che fissa i remoti cieli del Padre. Insomma: di Anne Bradstreet si è tentato di fare, nel secolo scorso, un santino. Peggio ancora: si è estorto dalla sua esistenza il fiele femminista – è la prima donna poetessa!, certo, ma senza esasperazioni d’amazzone o da terrorista di Dio, restando ciò che era, moglie & madre & figlia, trovando lì il proprio compito, fondamenta del credo. In realtà, la formidabile Anne al focolare preferiva il fuoco che arde: nei Verses upon the Burning of Our House, scritti nel luglio del 1666, ringrazia Dio perché la sua casa è stata sbriciolata da un incendio, e la sua famiglia ha perduto gli averi casalinghi. La distruzione della casa è evento simbolico immedicabile: raffigura il senso dell’estrema nudità, il fuoco-fenice insegna che la vera dimora non è sulla terra ma lassù, nei cieli. Nell’ardore, Anne Bradstreet detta una poesia dalla terribile ascesi: un inno alla cenere, alla necessità di perdere tutto per assaporare, di quel tutto, la scintillante bellezza. Ogni sottrazione rende liberi. Suprema spoliazione.
Allo stesso modo, il suo canzoniere del dolore reca l’enigma di un cupo fascino. Più soffre, più Anne si sente ‘chiamata’: la poesia non è un lenitivo ma un legame di sangue; soffrire sigilla il rapporto profondo tra la creatura e il Creatore. Ogni sequela è autenticata dalla croce. Il lavoro poetico di Anne Bradstreet, così, si allinea, a tratti, alle grandi intuizioni delle mistiche italiane: Angela da Foligno, Maria Maddalena de’ Pazzi, ad esempio, e si manifesterà per rifratte intuizioni, con refrattaria forza, in autori più noti come Nathaniel Hawthorne. Nel Novecento, John Berryman scrive un Omaggio a Mistress Bradstreet (1956) tradotto da Sergio Perosa nel 1969 per la ‘bianca’ Einaudi.
Dopo la morte di Anne, il marito si risposò; visse a Salem. Di Anne Bradstreet non si conosce dove sia sepolto il corpo, quasi che, per effetto del fuoco interiore, quella donna sia scomparsa, levitando, puf. Cenere alla cenere, vanità delle vanità.
***
Versi sopra l’incendio della propria casa
Riposavo, silente era la notte,
incurante della vicinanza al dolore,
mi ha svegliato il rumore impetuoso
di grida impietrite dalla pietà.
Quell’urlo terribile, “Fuoco, fuoco”,
mi era – che nessuno lo sappia – grato.
Mi mossi, andando verso la luce,
ho votato a Dio il mio pianto
perché mi conforti nell’angoscia
perché non mi lasci sola.
Sono uscita all’aperto:
la fiamma sbriciola la mia dimora.
Non potei fissarla a lungo:
benedissi il Suo nome che tutto dona
e a tutti sottrae, lo benedissi perché
i miei beni ritornavano polvere:
così è stato, ed è stato giusto.
Tutto è Suo – non mio.
Il rimorso morda altrove.
Altro potrebbero sottrarmi:
ne ho a sufficienza per vivere.
Camminando tra le rovine
gli occhi, lividi di dolore,
si posano sui luoghi della
mia vita: lì ho vissuto
e ho a lungo mentito. Là c’è
un baule, lì quell’altro; laggiù
c’è la scrivania su cui lavoravo:
le cose che amo sono cenere
e non le vedrò mai più.
Nessun ospite siederà sotto il tuo tetto
nessuno mangerà alla tua tavola;
nessuna storia divertente sarà raccontata
nessuna candela potrà più brillare
nessuno ascolterà il canto dello sposo.
Il silenzio: alcova delle tue menzogne.
Addio a tutto – tutto è vanità.
Poi, subito, rimprovero il mio cuore:
e della tua ricchezza ancora sulla terra?
perché hai riposto la tua fede nella polvere?
perché affidarsi a braccia di carne, mortali?
Innalza i pensieri sopra le nubi
quel letamaio di fumi si dilegui:
la tua casa è costruita in cielo
creata da un onnipotente Architetto
arredata di gloria, perenne
anche se scegli di abbandonarla.
La ha acquistata chi riesce a sostenere
un prezzo tanto alto da restare ignoto.
Eppure, te ne ha fatto dono.
Abbondante è la ricchezza – non hai bisogno di altro.
Addio, mia pelle; addio, mio ricovero
il mondo non si può più amare:
il mio tesoro è soltanto lassù.
*
Per avermi liberata dalla febbre
Assediata dal dolore
dolore fuori
dolore dentro
carne che non trova riparo
mi hai liberato.
Corpo che nel sudore ribolle
testa che per il soffrire si spezza
nulla reca pace: sono così
debole che non posso parlare.
La paura obnubila l’anima
tu mi levi l’appiglio
nessuna prova mi conforta
leggere non posso:
“Non nascondermi il Tuo volto” ho urlato
“Dal rogo eleva la mia anima.
Tu conosci il mio cuore, per questo lo provi
non sono che il rotolo della Tua misericordia”.
Sai che ho ceduto:
“Guarisci la mia anima:
anche se annulli la carne
nient’altro che un’alcova di polvere
alla gloria mi porti”.
Mi hai dato ascolto e la bestia bastone
hai rimosso: risparmi la pochezza
del mio corpo, tenerissimo amore:
il cuore non trema più –
Oh potente mio Dio
sia lode al Padrone
lode al mio Signore, dico
che riscatta l’anima dalla fossa
creata per dirGli soltanto
sì –
*
Al mio caro, amato marito
Se mai due sono stati uno – noi lo siamo.
Se mai uomo è stato amato dalla moglie – tu lo sei.
Se mai moglie è stata felice in un uomo
vi sia di conforto, donne: io lo sono.
Il tuo amore vale più di mille miniere d’oro
di tutte le ricchezze che l’Oriente nasconde.
I fiumi non riescono a spegnere il mio amore
non concedermi altro premio che l’amore.
Non ho modo di ripagare il tuo amore
prego che i cieli mille volte ti compensino.
Viviamo preservando il nostro amore:
quando saremo morti, vivremo per sempre insieme.
*
Versi sul corpo martoriato
Nell’angoscia del cuore rotto da sventure
e immani dolori – nient’altro conosce con tale
sapienza il corpo – nei sonni trafitti dalla veglia
affogati di lacrime che scorrono da un cupo
volto, finché la natura non esaurisce i suoi
assalti e gli occhi ritornano nudi, un deserto;
allora alzo lo sguardo verso il trono, in alto,
ragione di ogni risorsa, motivo di ogni miseria;
Egli spezza le nubi e mostra che la mia ancora
è arpionata nella valle della salvezza.
Estorce dall’anima il dolore, munge il male
dal corpo, mi conduce a riva dopo un viaggio
su un mare in tempesta.
Anne Bradstreet