Sacerdotessa del nichilismo a tinte pastello di credo adelphiano, Anna Maria Ortese, melodrammatica tutta dramma e poco melò, torna ad affollare le librerie con Vera gioia è vestita di dolore – epistolario a senso unico indirizzato a Marta Maria Pezzoli, in amicizia ‘Mattia’, compendio di lettere scritte allo specchio negli anni 1940-1944 che essudano odio e livore, ortesiano cliché aromatizzato dall’editore da svenevoli essenze al femminile. Fatuo insulto al lettore ‘subalterno’, più che invito alla lettura, lo scritto che accompagna il carteggio propina una versione infarcita di confidenze e fedeli tenerezze fra donne, buona, forse, per una serie televisiva alla Sex and the City. Certo, non per la realtà – ch’è sana lotta, scontro tra virago – né tantomeno per il realismo – insopportabilmente magico – della Ortese.
Mesta conseguenza d’una operazione editoriale in cui l’artista – espropriata d’autorevole autorialità – ha finito per surclassare l’opera, divenendo di diritto autrice faro d’un certo, vacuo intellettualismo glamour, attualizzata dal suo editore come figura atta a tutte le stagioni, che mai sfigura. Quantomeno a cena con amici engagé.
Streghetta da rione, con malia da manicure, l’Ortese affattura miscredenti spiriti con melensaggini di simil caratura: «Mattia, tu ami chi ti consola con la parola e poi il ‘suo’ cuore è distante e ha paura? No, vero? Nemmeno io. Io amo chi mi vuol bene per la mia disperazione – quello sento fratello o sorella – quello amo. Spero che sempre, fino alla fine, Iddio mi faccia conoscere la santa disperazione, che porge alle creature il bicchiere d’ebbrezza e apre loro gli occhi sul mare della realtà. Vera gioia, è vestita di dolore. Vero dolore, è vestito di gioia. Sentire, sentire, sempre più ‘sentire’. Io non desidero altro» – di sorellanze esplicitate dunque sintetiche, scroscianti geremiadi, visionari patimenti.
Santa protettrice delle aspiranti prosatrici contemporanee, gineceo di wannabe, discutibili epigoni i cui scritti si manifestano, nei casi migliori, come un carnevale di aggettivi pretenziosamente lirico e costellato di elementi avifaunistici d’occasione, quale ricompensa o ratifica per la fedeltà delle sue plagiarie, si suggerisce all’editore – in luogo della commerciale shopper elargita agli affezionati – di soppiantare il cadeau da ‘ogni tre libri acquistati’, con l’iconico rossetto vermiglio d’ordinanza ortesiana, fluido e unisex. Basta poi equipaggiarsi di chioma corvina e sguardo corrucciato da falena per veleggiare dritti verso il premio Strega. Oramai quello del prossimo anno.
Virtuosa della mistica da melodramma – scrivere «è il rifugio triste, non è la vita» – ma priva d’ogni indizio di misticismo, la Ortese si amalgama ad un tempo in cui la scrittura non è ispirazione, bensì consolazione, affratellandosi idealmente all’autore-tipo attuale – narrazione di artificioso tormento al limite dell’auto-aiuto dove la miseria interiore si fa posa esistenziale. Letteratura che odia l’uomo dietro il paravento dell’umanitarismo.
Sgraziata per costituzione intellettuale, nella corrispondenza ora edita, non concede alla controparte – di cui quasi non v’è traccia – neppure la grazia, non si pretende d’una amicizia, ma nondimeno d’un apprendistato esistenziale. L’altra, in lei s’annulla, di lei s’affama, ma lei non nutre.
D’esplicitata invidia per la De Céspedes, «come scrittrice, pei suoi successi, mi fa stizza e confusa gelosia», si spertica invero in lodi di carta per Katherine Mansfield – «la purissima, la incantata». Quella Mansfield che Virginia Woolf, nel suo Diario di una scrittrice – nella traduzione di Vittoria Guerrini alias Cristina Campo – qualificò come mente di poco spessore, che «si accontenta di un’eleganza superficiale», di visione povera e facile, scarsamente interessante. A diradare profeticamente l’affezione della Ortese per la stessa ‘Caterina’. Sorellanza, questa sì, fra spiriti affini.
E se fra un’ortensia e un’Ortese, chiacchierando di vissuto femminile – copertina acquerellata sottobraccio che grida erudizione da circolo letterario e canapè damascato – assale, improvvisa, quell’urticante voglia di epistolari, s’apra allora lo spirito alla corrispondenza fra Cristina Campo – altra signora cara all’editore dell’esoterismo prêt-à-porter – e la poetessa Alejandra Pizarnik.
Cara amica, la patria è la lingua, scrive CC all’amica argentina, mente l’Ortese dichiara – monomaniacale – che la patria è la sofferenza. Tanto aristocratica l’una – che della poetica patria fa la sua religione, quella della parola, tanto affetta, l’altra, da trasandatezza ideale e stilistica.
Così nobilmente tiranneggia, la Campo – s’infila, pedante, a tratti importuna, nelle crepe dell’altro –, domanda, predica, scortata di sprezzatura – «Le regalo questa parola come un talismano, una di quelle pietre, tagliate in due, che ci si divide tra amici» – quanto il dispotismo della Ortese si risolve in volgare prevaricazione – «Ieri sera ti scrissi una lunga lettera, ma oggi non la spedisco più, sentendola un po’ inutile. Mi faceva piacere parlarti, ecco tutto, ne ho avuto bene lo stesso. […] Ti voglio bene, perché forse sei l’ultima amica».
Isolato frammento mortale e non mortifero, nel carteggio ortesiano, l’amore. Breve e malcorrisposto per il poeta Alfonso Gatto – che dall’imponente quindi floscio ego, emerge come una nota a margine scritta in caratteri minuti. «Mattìa, forse la misura la troverei amando un uomo e dei figli, non credi? Io sono come un albero che vuole mettere in cielo le sue radici».
Per un unico, appartato istante, anche la Ortese, come la Campo, guarda in alto. In un ipotetico carteggio fra le due, quest’ultima, probabilmente avrebbe sentenziato, raccomandandola più in alto ancora, con un: “Cosa Le posso dire? Creda nell’anima”.