21 Marzo 2019

Cosa resta della donna carnale e passionale, della dea dalla chioma dorata? Viaggio nella vita di Anita Ekberg, tra Fellini e Álvaro Mutis

Nella lettura dei libri che riempiono gli scaffali si possono trovare accostamenti interessanti, motivi radicali che si intersecano inconsapevolmente, che si assomigliano nelle tramature plasmate, sia quando il romanzo ha la firma di un grande scrittore, sia quando è di un autore che non ha la fama internazionale. Veniamo al dunque, da questo presupposto di similitudine. Perché la vecchiaia fa così paura come contenesse qualcosa di sinistro, di sulfureo? Perché si tende a rifuggirla, anche letterariamente, cinematograficamente, convergendo verso lo splendore degli anni fiorenti? Perché, presumiamo, è l’anticamera della morte, del mistero più insondabile e disorientante, che segue ad un’intera vita che non sappiamo se avrà un seguito. Spesso anche perché la vecchiaia è preceduta dal decadimento fisico e dalla malattia, da una fase di dolore acuto. Nel romanzo di cui parliamo, non affiora niente di sublime, di delizioso, ma qualcosa di estremo, di torvo nella verità rivelatrice alla ricerca di un linguaggio esatto insito nell’esperienza mutuata dalla cronaca e rielaborata in forma di mito originale.

Il libro del marchigiano Alessandro Moscè, Gli ultimi giorni di Anita Ekberg (Melville 2018), ricorda quelle strane storie, nude e complesse, in cui il fragore di un’esistenza si spegne un poco alla volta come il rumore di un bastimento vecchio, per richiamare Pablo Neruda e una sua celebre poesia. L’ansimare agonico di Anita Ekberg sembra lo stesso borbottio caro ad Álvaro Mutis (scrittore e poeta colombiano naturalizzato messicano, maestro della letteratura ispanoamericana) che con L’ultimo scalo del Tramp Steamer (Adelphi 1991) ha raccontato la vicenda finale non di un uomo o di una donna, ma di una nave mercantile che affrontò molti viaggi trasportando prodotti di ogni genere e che non fu più in grado di continuare la sua corsa. Moscè, invece, narra della diva svedese nel suo splendore ai tempi della Dolce vita (1960), nella fascinazione trasgressiva degli amori, dei successi, ma anche del periodo buio, quando entrerà in una casa di riposo di Rocca di Papa per non uscirne più, sola e dimenticata da tutti. Come il Tramp Steamer che ha tirato a campare trascinando la sagoma malconcia più di quanto le sue precarie condizioni facessero immaginare. Mutis dice una frase che meglio non potrebbe indicare l’esperienza ultimativa del mercantile: “C’era, in quell’errabondo relitto marino, una sorta di testimonianza del nostro destino sulla terra”. Moscè, parallelamente, afferma: “Il dover chiedere, il dovere dipendere, il dover parlare a bassa voce, implorando. Non si può perorare la serenità se non si cammina più, se non si esce più, se non si fa più una gita, una vacanza al mare”. Un destino partecipato, un segno che si muove all’unisono tra oggetti e persone, perché periscono anche le cose, come Musil ci dimostra con uno struggente romanzo rinvigorito dall’amore tra la proprietaria della nave, una libica, e il capitano di origine basca. L’amore, per Moscè, è quello di Anita Ekberg con il grande uomo d’affari Gianni Agnelli, un sentimento discreto e perfino sapiente, perché tra i due c’era dialogo, confronto, non solo accensione erotica. Ma anche l’amore si spegne, tra l’inizio, il compimento e la vocazione a morire in una superba imposizione, in un magma che non si districa nell’oscillazione tra terra e cielo, tra uomo e divino, in forme non più concrete, palpabili.

Se l’immagine di Anita Ekberg che sta male è dolcemente ossessiva, spigolosa, alcuni momenti di stasi, di calma, sono allietati dal sogno nell’imponderabile magia, nonostante le cicatrici e le ferite sul corpo martoriato. Le stesse del mercantile che navigava con i suoi carichi, con le macchine in azione, la capienza delle stive e il funzionamento perfetto della gru. Sarà fatto a brandelli da un avversario vorace come il tumore che annienterà l’attrice svedese in un ospedale di periferia. Il tempo erode: già, il tempo, il vero filo rosso di ogni romanzo che fa i conti con la sottrazione di beni immateriali. Cosa resta di una donna passionale, carnale, di quella dea dalla chioma dorata, dalla pelle di seta, consacrata da un fotogramma dentro la Fontana di Trevi? Il mito, la rimemorazione che fa perdere i contorni soggettivi e che acquista un tono più alto nel vissuto, nella visione del personaggio intramontabile, quasi a sancire il dominio terreno dell’età giovanile. Moscè, con un romanzo spurio, tra il saggio e il racconto obliquo, che spinge tra il dramma e la conoscenza, tocca punte di immaginazione poetica nel dosaggio di affermazioni spesso sentenziose: modulate dalla coscienza, da anime inquiete, da motti di spirito che contagiano anche altri spettri viventi della casa di riposo, tra cui un prete, un musicista e una menade che legge i tarocchi. Il linguaggio che Moscè utilizza è solenne e il suo sguardo pieno di riferimenti va ad un entusiasmo affievolito, ad un malessere che costituisce l’impalcatura della memoria vivente, accesa dagli episodi esilaranti del passato che compensano la solitudine straziante e arida del presente. Gli ultimi giorni di Anita Ekberg è un libro iniziatico, profetico, perfino metafisico, perché nel rincorrere il tempo Alessandro Moscè intravede l’aldilà, un’apparizione onirica, maestosa. Non poteva mancare il prestigiatore di queste comparse fantasmagoriche: Federico Fellini, che rappresenta la giovinezza, il surreale, la libertà, la fantasia, l’anticonformismo, una dimensione non solo terrestre.

Anita Ekberg è morta l’11 gennaio 2015. Le esequie si sono tenute nella chiesa evangelica luterana, a Roma. Sulla bara è stato deposto un mazzo di gigli bianchi. Il rito è stato celebrato in lingua inglese e non in svedese. Al termine dei funerali, poco partecipati, l’attrice, come espressamente richiesto, è stata cremata e le sue ceneri sono tornate a Malmöe, sua città natale. Una gigantografia di Anita Ekberg seduta è stata issata dal bordo della Fontana di Trevi con la scritta “Ciao Anita”. È stato questo l’unico l’omaggio che il Comune di Roma ha voluto renderle il 13 gennaio 2015. La foto campeggiava al centro delle impalcature che rivestivano la storica fontana. Molti curiosi ne hanno approfittato per scattare un selfie.

Elisabetta Monti

Gruppo MAGOG