09 Settembre 2023

“La mia anima si rannicchia in sé. Tu sei con me nella mia sofferenza, Dio mio? Sei la mia sofferenza?”

È tempo di smarrimento. Tutto m’inquieta, tutto mi spaventa. I pensieri sono sempre più convulsi ed incoerenti, e deformano giornate sempre più brevi. Consumo il tempo nell’apprensione.

Ad ogni istante mi pare di precipitare: la forza della mente viene meno, ed il vacillare di questo appiglio sul mondo produce vertigini – vertigini che mozzano il fiato, vertigini che sembrano il preludio ad un’imminente sincope. Ed allora ecco tento lo sforzo di restare vigile, che prosciuga le mie energie; e tento anche quello, ancor più poderoso e perciò sfiancante, per non essere sopraffatto dallo sconforto, dall’angoscia.

Tutto mi suscita angoscia. Il ventre si gonfia, soffocando il respiro. È come claustrofobia – una claustrofobia provocata dall’angustia dell’esistenza. Alle volte vorrei mettermi a gridare, oppure a correre su e giù quasi a smaltire l’oppressione; oppure, mi verrebbe da rannicchiarmi su me stesso e piangere, come un bambino che si è smarrito e grida la sua paura, quasi volesse evocare il soccorso della mamma.

In effetti, è proprio così che sono: come un bambino che si è smarrito. Il bambino finisce col farsi prevaricare dalla paura; la paura è paralizzante; ma a paralizzarsi non sono tanto i muscoli, quanto piuttosto il pensiero, che si disarticola in immagini gementi. Si è davvero smarrito il bambino? Al bambino non interessa l’oggettività della situazione; è la sua soggettività a porre la prospettiva – così che per lui è stato sufficiente perdere di vista il suo punto di riferimento per sentirsi smarrito. Il bambino non ha altro conforto che la disperazione, che però non conforta.

Io sono come questo bambino. Resto sorpreso nel constatare come tutte le speculazioni teoriche e le altrettanto teoriche verità (o presunte tali) acquisite siano quella “ragione del bambino” che, proprio in quanto sospesa nella sua dimensione teorica, viene sopraffatta dalla violenza dell’emozione soggettiva. L’emozione, cioè: l’angoscia è suscitato dal non vedere più i punti di riferimento. «Non vedere» significa non percepire più immediatamente la loro presenza, e quindi la loro influenza che si stimava benefica. Chi ha conseguito la maturità spirituale non ha più bisogno di percepire immediatamente quell’energia promanantesi dai suoi punti di riferimento; egli la gode mediatamente, cioè: mediata in sé stesso – così che non sia più necessario il punto di riferimento esterno. Perciò, tale percezione risulta essere in effetti più immediata, perché l’energia promana da una fonte scaturente nel Sé. È la differenza tra chi per riscaldarsi si accosta al fuoco, e chi sarebbe capace di accendere il fuoco dentro di sé. Ma questo fuoco interiore può accenderlo solo chi ha conseguito la maturità spirituale, cioè: a chi è spiritualmente adulto; in questo senso, io sono piuttosto un «bambino spirituale», per l’appunto – e che, come tale, ha paura.

Ma di cosa ho paura?

Io so che la Provvidenza esiste; e so che la Provvidenza vòlge tutto al Bene; ma questa consapevolezza è marginalizzata dalla prevaricante paura del bambino. La mia anima si rannicchia in sé. Nel rannicchiarsi assume la forma d’un diaframma: l’anima diviene diaframma allo Spirito. La mia anima diventa oscura, così che oscuro diventa il mondo che si pone su di lei. In quest’oscurità, tutto è paura, angoscia, disperazione. Che sia questa condizione ciò che alcuni chiamano «notte oscura dell’anima» [s. Giovanni della Croce]?

Stamattina sono andato a confessarmi da mons. P. Lui per confortarmi ha citato il Salmo XXIII, 4: «Anche se vado per una valle oscura, non temo alcun male, perché tu sei con me». La mia anima è ora questa valle oscura; e come accade in ogni valle oscura, tutto ciò che vi è in mezzo diviene oscuro. Ma Tu, Dio mio, sei con me? Il mio intelletto sa che Tu sei con me, così come Tu sei con tutti e con il Tutto. Cosa dovrei attendermi? – conforto emotivo? Che Tu venga ad asciugare le mie lacrime? Che Tu infonda forza e coraggio nella mia anima?

Il Tuo disegno non ci è noto, ma sappiamo che prevede anche ciò che noi consideriamo comunemente «male». Io so che tutto ciò che è detto «male» è nella sua essenza diverso da come si manifesta alla nostra percezione volgare – così come so che è proprio per rimarcare la volgarità di questo sentire che l’Uomo la cui anima è matura è chiamato da alcuni «nobile» [Meister Eckhart]. Una consapevolezza superiore al sentire volgare. Ma c’è uno iato tra questa consapevolezza ed il vivere secondo questa consapevolezza; e tale iato in me è diventato un abisso, dal quale forse solo la Tua voce, Dio mio, potrebbe trarmi fuori.

Un’opera di William Congdon (1912-1998)

 La Tua voce non tace, mai. Sono io che non sono capace di ascoltarla. Sono io che sono distratto. Sono io che chiudendomi nel mio Ego, non riesco a sentirla. Eppure, io so che anche in questa valle oscura Tu sei con me. Non Ti vedo, non Ti sento; ma Ti so. Consapevolezza intellettuale, che è Fede, che è – o dovrebbe essere – forza spirituale per comprendere e trascendere il Tutto, inclusa la “valle oscura” stessa, cioè: la mia anima.

L’anima è suscettibile. È essa che i demòni tentano con parole, immagini, pensieri. Lo Spirito invece non può essere tentato, perché lo Spirito è Dio. Ed è secondo lo Spirito, e nel gergo dello Spirito che ci parlano gli Angeli del Signore e i Santi, ai quali ci affidiamo per conoscere la Tua presenza.

La Tua presenza è inesorabile, Dio mio. Anche il Creato lo è: esso non è revocabile, perché non è possibile rinunciare alla manifestazione del Tutto che deve compiersi. Ed è proprio in questo Tutto inesorabilmente presente che noi viviamo il nostro dramma cosmico. Di questo dramma Tu sei il regista, ma anche l’autentico protagonista, che agisce secondo la trama che Tu hai realizzato, cioè: quella della Provvidenza. La scena è la Storia; ma cos’è la Storia, se non la manifestazione della Provvidenza sul crinale della nostra auto-coscienza?

Noi siamo liberi, si, ma solo in quanto noi siamo Te. Non siamo liberi solo se e per quanto non siamo Te. Non siamo liberi se ci lasciamo sedurre dall’Avversario – diventeremmo i «cattivi», cioè: “prigionieri”, e prigionieri si è solo del Diavolo, come ben dicevano i saggi medioevali («captivitas diaboli»); insomma: i cattivi del dramma cosmico. Ma se noi siamo Te, siamo assolutamente liberi. Noi saremmo così protagonisti di quel dramma cosmico del quale Tu sei il protagonista. Per essere Te, noi non possiamo che fare la Tua volontà. In questa volontà c’è anche l’esperienza del male. D’altronde, «male» è ciò che è percepito come tale, mentre la comprensione della Tua volontà trascende la percezione immediata – sì che il male si scopre mediatamente quale privazione del Bene; privazione che noi stessi c’imponiamo quando le nostre anime non sono diafane allo Spirito.

Hai esultato quando hai visto Tuo Figlio entrare trionfalmente in Gerusalemme? Ti sei addolorato quando è stato giudicato ingiustamente, schernito, flagellato, ed infine inchiodato su una croce? Si. Si, perché Tu sei nel dolore e nell’esaltazione, ma in essi non ti esaurisci – così come in nient’altro. Tu sei dovunque, perché la Tua Provvidenza è dovunque. Ma siccome Tu sei il Bene, il Bene è dovunque e trascende il Tutto.

Tu sei con me nella mia sofferenza, Dio mio? Sei la mia sofferenza? Io so che ci sei, so che lo sei. Non abbandonarmi alla tentazione del Diavolo, che vorrebbe allontanarmi da Te per farmi suo prigioniero e schiavo. Non abbandonarmi a me, al mio miserabile egoismo, sì tanto diabolico che diverrei io stesso il Diavolo al quale asservirmi. Insegnami, Dio mio, come io possa ricordarmi sempre della Tua presenza.

Atto Dominici

Gruppo MAGOG