“Ho la testa piena di assurdità, mia moglie cerca molluschi”. Le lettere di Dylan Thomas
Poesia
Giorgio Anelli
Who rides on a tiger can never dismount;
asleep on an elephant, that is repose.Marianne Moore
E va bene, l’umanesimo è agli sgoccioli e la mutazione antropologica ci obbligherà a ideare nuove categorie per interpretare i fenomeni storici. Tra qualche decennio, avrà senso parlare di letteratura italiana o siamo già immersi nella Weltliteratur o, meglio, nella world literature? Ed esistono ancora il Centro dell’Impero e le Province? Non è ormai anacronistico parlare di canone e anti-canone, di classico e di contemporaneo? E la letteratura stessa, nella civiltà dello spettacolo e del consumo, non si piegherà definitivamente al presente, assolvendo a una mera funzione di intrattenimento?
In attesa dell’estinzione – va là, dai, non tutto andrà perduto: si tratta di una metamorfosi, nobilitate questa parentesi citando Martha Nussbaum, matta sempre gradita nel mazzo – in attesa dell’estinzione, dicevamo, i critici se ne stanno al fresco nelle loro Accademie, compilando manuali scolastici aggiornati agli anni Sessanta, o al più si affacciano ai balconi come pittime per cantare l’eutanasia della critica, leticare sulle troppe e troppo diversamente tarate bussole per orientarsi (al tempo dei navigatori aggiornati in tempo reale…), solleticare nostalgie militanti denunciando il capitalismo colpevole di aver sfregiato irrimediabilmente le Belle Lettere. Qualcuno, addirittura, ripensa a sé stesso e alla propria opera (fermentazione di carcasse altrui) come all’ultima incarnazione possibile dello scrittore in senso stretto. Intanto, ogni giorno si pubblicano centinaia di libri (la maggior parte dei quali riversati direttamente nell’oblio), legioni di autori resistono alla macchia, misconosciuti, e i poeti vivacchiano, tra una lettura in libreria e un concorso, una pubblicazione sul web e un librino autosostenuto per qualche editore artigianale.
Stop. Smontiamo subito dal testo il tono della lamentazione. Qui si prova tristezza e persino rabbia per l’ingiustizia perpetrata per inerzia e omertà, ma non si vuole certamente piagnucolare attenzione. Le opere, come i figli, devono imparare a cavarsela da sole e per quel che mi riguarda andrebbero tutte pubblicate anonime. E poi alla fine se c’è talento qualche soluzione nuova, al di là dell’indole personale, si trova. In tempi non sospetti, Saba ha pensato bene di farsi interprete di sé stesso. Ai giorni nostri, Moresco si è auto-riconosciuto (magari anche con ragione, eh) lo scrittore più importante del suo tempo. Tra questi estremi, ci sono infinite strategie. Anche quella di tirarsi fuori dalla mischia, di restare conformi al proprio mood. Piuttosto che scadere nel piagnisteo, preferisco semmai provocare e rilanciare la sfida. Eccovela servita, se vi aggrada: cari critici, scendete dalla torre d’avorio delle Accademie e rimboccatevi le maniche. Ci sono ovunque autori che meritano di uscire dalla clandestinità e di ottenere il battesimo di un giudizio. La sfida è questa: sterminateci, se ne siete capaci, ma senza giudizi sommari, senza inquadrature epocali.
Che una miriade di professori, di critici, di dottorandi, di assistenti, di segretari, di studiosi per mestiere e per passione stiano lì a rifinire i profili dei vari Lucini o Roccatagliata Ceccardi, mentre percorsi di stile e di conoscenza preziosi e consapevoli di scrittori viventi restano ignorati, è più di un difetto di pigrizia, è un atto di tradimento (giusto per riecheggiare un monito già datato) verso il futuro, che non risanerà le ingiustizie perché non potrà più recuperare (salvo qualche caso, magari creato ad arte e funzionale al sistema) ciò che il presente ha sommerso. Abbandonate il fioretto, brandite l’ascia e scendete a creare nuovi sentieri nel folto della foresta. Non andate troppo per il sottile: nella mano un libro, magari celebrato, e nell’altra uno dei tanti: soppesate e scagliate via ciò che non serve. Costruite mappe, magari provvisorie, nei continenti inesplorati che sono emersi in questi decenni. In particolare, non passate mai sotto silenzio ciò che ottiene visibilità, altrimenti il criterio quantitativo si trasforma automaticamente in criterio qualitativo. Ogni tanto persino a qualche Fabio Volo scatta il bisogno della spilletta di approvazione critica da fissarsi sul petto, nella convinzione (prima vittima dell’equivoco del silenzio) di meritarsela. Non abbiate paura di sbagliare: dovrete comunque rendere conto dei giudizi che non avete avuto il coraggio o la lungimiranza di esprimere.
Qualche decennio fa, pur non considerandomi uno del mestiere, mi sono prestato a un simile compito (I poeti nel limbo. Studio sulla generazione perduta e sulla fine della tradizione), per senso di responsabilità e di urgenza verso un oggetto (la poesia contemporanea) che consideravo e considero ancora degno di amore. Sì, è questione di amore, anche quando su qualcuno si giunge a un giudizio negativo netto (ma pur sempre aperto, sempre sottoponibile a revisione, proprio in quanto “critico”). “Una fatica immane, per partorire un topolino”, sussurrò a quanto pare un autorevole direttore editoriale che nemmeno recensì (fece recensire) il libro. Me l’avesse detto in faccia, gli avrei recitato, a guisa di una combinazione di cazzotti sul grugno, qualche verso dei più di sessanta poeti inclusi nello studio e degli altrettanti non inclusi ma letti con la medesima dovizia. Perché la critica non brilla di luce propria: è il suo limite, ma anche la sua gloria. Eppure attendere che il capolavoro si riveli da sé per poi mettersi in scia è il primo alibi. La letteratura contemporanea è mediocre? Dimostratelo, attenti a non perdervi nel mucchio, però, la pepita d’oro.
Ora, un po’ fissato lo sarò anche, ma del tutto fesso no. So bene che nel nuovo millennio di ricognizioni meritevoli (e forse altrettanto neglette della mia) ce ne sono state, anche se ciò che mi viene in mente sono esperienze un po’ diverse, interessanti anzitutto nella formula di concepimento innovativa: penso per esempio all’antologia Parola plurale di Cortellessa & C., penso alle classifiche di qualità promosse da Alberto Casadei & C. Ma poi, che altro? Qualche critico “militante” (altra etichetta obsoleta?) realmente attivo c’è, per esempio Gilda Policastro. E mi faccio da solo la tara mettendo in conto una sconfinata ignoranza: chissà quanti libri, quante iniziative e quanti critici avranno operato in direzione ostinata e contraria rispetto al disimpegno che denuncio. Eppure, il ragionamento fila ugualmente: il lavoro sui contemporanei si perde nella vastità e voracità dell’epoca.
Il punto, però, non è l’insostenibilità dell’impresa. Ne ho esperienza: i libri da leggere sono veramente tanti. Troppi. E gli scrittori viventi sono creature suscettibili, petulanti e vendicative. Ma il nostro orizzonte di partenza era chiaro da subito: non si tratta di vincere, si tratta di morire combattendo. Quello che serve è uscire dall’esercizio estemporaneo delle proprie capacità, giusto per mantenersi, se non in forma, in uno stato almeno decoroso, considerata l’età e l’epoca. Voglio dire: occorre metodo e completezza. La recensione per il libro ricevuto (con quel po’ di benevolenza che innesca) o per il compagno di merende letterarie, se è la sola modalità operativa, è già un peccato capitale. C’è bisogno di critici precisi e spietati, e in movimento. Non è la ricerca l’altro compito (rispetto alla conservazione) delle Accademie?
Ulteriore alibi da smontare: “Da soli non si può mappare un panorama tanto vasto e complesso!”. Ma qui nessuno è mai solo! Il giudizio di valore è il primo passo nel lento lavorìo per la definizione di una tradizione (ovvero un sistema a sua volta dinamico e aperto), dal momento che un canone è il frutto di una complessa concertazione fra i protagonisti della letteratura (scrittori, critici, lettori…).
Stiamo affrontando problemi non nuovi: i contemporanei spesso si sono sentiti ignorati e solo post mortem molti classici si sono affermati. Ma oggi le medesime questioni mettono radici un quadro complessivo del tutto inedito. Persi nella Grande Rete, spetta a noi trovare il modo di stringere Nodi più significativi. Anche sul web, per esempio, scoppiata la bolla dei blog e dei social, ora gli spazi letterari più accreditati si riconoscono, e non sono nemmeno così tanti.
C’è troppa dispersione, troppo individualismo, fra gli scrittori. Manca il senso di un’opera comune e la responsabilità di lavorare per tutti, anche per chi non appartiene alla stessa scuderia ideale.
La maggior parte degli scrittori che conosco si lascia impaurire, cerca conforto nei sodali, taglia i ponti con chi non è un sostenitore; qualcuno fa persino causa se un altro, bontà sua, si permette di stroncargli un libro. È un fuggi fuggi generale, sotto forma di balletto. Così tutti apprendono l’arte dell’ammicco, nessuno entra nel merito della valutazione. Ci sono già abbastanza guai intorno: se si tratta di scrivere una fascetta elogiativa, ancorché ipocrita, non ci sono problemi, ma perché mai discutere nel (e sul) merito se si ottiene solo l’ostilità di qualcuno?
Ma se non lo scrittore (comunque mica tutti, eh), almeno il critico dovrebbe avere, anche da un punto di vista etico, la capacità di stare fuori della mischia mentre compie la propria funzione: malgrado una personale poetica, che lo renderà prossimo più ad alcuni che ad altri, egli non agisce solo all’interno della propria cerchia, non rimuove, senza analisi e giudizio, nemmeno le voci più differenti. Anzi.
Ci sarebbe dunque molto da fare. Avete tutti paura dell’impresa?
Prima dell’estinzione (mutazione, va là), lanciate almeno un ultimo ruggito.
Cerchiamo di morire da vivi, cari miei.