“Vorrei assolverti. Lo dico magistralmente alla vita”. Storie dal Tempio
Letterature
Veronica Tomassini
Mi affascinano gli ultimi anni di André Malraux: si sente una fratellanza plumbea con il vuoto, il fiato di una bestia braccata. L’uomo che si disse grande, e che fu mille per dileguarsi perfino da sé, l’eccellente scrittore della Condizione umana, il potentissimo braccio culturale di De Gaulle, scaltro, fascinoso, oratore impeccabile, torna in se stesso. Ed è una caduta, una specie di rovina. S’inventa – terminati i suoi alti incarichi politici in Francia – consigliere di Nixon, attirandosi il disprezzo di Henry Kissinger; appare in tivù, spesso eccitato dall’abuso di alcolici; lavora per portare la Gioconda in Giappone, è il 1974, ce la fa. Recupera alcuni libri dal titolo esemplare – La Métamorphose des dieux – e ne raduna altri, e lì flirta con il limbo, l’oblio, lo specchio – Le Miroir des limbes. Più volte aveva disfatto e ricostruito la propria mitologia, fino a farne la lama su cui rispecchiarsi e uccidersi. Non aveva bisogno di essere aggraziato con se stesso. In una delle sue pagine memorabili, fonda un gemellaggio tra l’arte degli antichi sciti e quella dei grandi contemporanei: “Le placche scite, dai mostri reali del Tesoro di Pietro il Grande fino alle fibbie delle cinture, rappresentavano combattimenti di animali. Motivo millenario, investito dello spirito del leone mesopotamico, dell’aquila e del serpente messicani. L’arte delle steppe ha rotto molto presto la continuità della forma; gli artigli di un rapace sono spesso le unghie di una fiera vicina, come Braque e Picasso inscrivono in una faccia anche il profilo. Chi ha fuso quel bronzo voleva inventare un segno della strage, devastato dallo spirito della strage come da un incendio”. Nel ricordo di Malraux, Picasso ha “l’espressione del viso immutabile: gli stessi occhi di un altro mondo, la stessa maschera da Pierrot stupito”. In questa pagina colgo due tarde interviste di Malraux, una divulgata nel settembre del 1972 da “France-Culture”, l’altra pubblicata nel 1974 su “Le Monde”, da cui estraggo blocchi esemplari. (d.b.)
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Ma che diavolo sta facendo? Delacroix è un grandissimo pittore, ma non è un uomo – come Picasso – che si è trovato dentro una trasformazione della pittura. Dicono che raffiguri la pittura moderna, ma insieme a lui dobbiamo considerare Ingres. Ingres era ossessionato dal mondo romano; Delacroix da quello veneziano. Sono entrambi arcaici – un po’ come Cézanne –, uomini che portano in sé un mondo sconosciuto e respinto. Non dimentichiamo che alla prima mostra di Cézanne un po’ tutti i pittori – tranne i suoi amici e ammiratori, è ovvio – reagirono dicendo, ma che diavolo sta facendo? Di fronte a Delacroix dissero: da dove arriva questa storia? Insomma, pensavano: ciò che rappresenta non è ciò che vogliamo rappresentare. Ecco. Questo è il punto.
Tiziano, il genio colossale. Un genio colossale come Tiziano ha realizzato gli schizzi de La ninfa e il pastore, la Pietà, l’Assunta e c’era soltanto uno che lo ritenesse il pittore più grande, l’Aretino. Fu l’Aretino che gli disse: ciò che fai va oltre ogni cosa che hai fatto. Tiziano rispose, lo so bene, e ne percepiamo l’amaro sottofondo, cosa posso fare di fronte al mondo intero? Alla fine della sua vita, la pittura fu cosa del tutto irrazionale. Da questo punto di vista, Tiziano è una figura gigantesca, di marziale importanza, perché è stato il primo a rompere con il disegno, con la linea pura.
Picasso e l’arbitrio come valore supremo. Senso dell’arte! Senso dell’arte! Cos’è mai la pittura? Con Picasso, l’arbitrio appartiene al dominio della pittura e della scultura, l’arbitrio è eletto a valore supremo. Nonostante la gloria senza precedenti, Picasso è, dopo il cubismo, il pittore meno accessibile della sua generazione. Curioso: parrebbe essere il più a contatto con le mode e i gusti attuali. Invece, è l’opposto: egli appartiene alla storia dell’arte perché non è contemporaneo a niente.
Siamo alla fine di un ciclo, abitiamo il tramonto. Viviamo alla fine di un’era senza precedenti, la fine di un ciclo, 1450-1950, che modella un’esatta civiltà. Il 1450 è l’inizio delle grandi scoperte, la conquista del mondo da parte dell’Europa; il 1950 sancisce la liberazione della Cina – Mao a Pechino – e quella dell’India – il discorso di Nehru. Seguirà la liberazione dell’Africa. Siamo consapevoli di trovarci al cospetto di un mondo che muore, e non sappiamo immaginarne un altro. Certo, c’è stata anche la fine di Roma, ma ce ne siamo accorti quando era del tutto defunta. Ora abitiamo il tramonto. A proposito di questo ciclo di cinquecento anni, mi intriga ragionare su una data particolare. Il 1870. Intorno a quell’anno sono accaduti eventi speciali di cui non abbiamo ancora capito la portata: l’Olympia (1863) ci ha condotti dentro la pittura moderna; il Giappone è entrato nella Storia, sono nati l’Impero tedesco e quello britannico; si sono susseguite grandi scoperte nell’ambito della fisica e dell’industria; è pubblico Il Capitale di Marx e La nascita della tragedia di Nietzsche, vive Rimbaud, Renan pubblica La vita di Gesù, Wagner trova la consacrazione che gli permette di realizzare L’anello del Nibelungo.
Ogni poeta è un uomo in lotta. Esiste un pensiero del nostro tempo che non sia interrogativo? Il pensiero moderno è anzi tutto un recinto di domande. Partiamo con le parole assolute, quelle decisive per ogni tempo: Dio, Amore, ad esempio. Sono parole che hanno sensi sovrapposti, mutevoli. Ciò che diciamo Dio, un tempo significava Creatore, un tempo Giudice, in altri tempi un vuoto, qualcosa che si può definire… Amore… Già. Ma quale Amore? Ogni poeta, intendo, è un uomo nel dialogo, in combutta con le domande, un uomo in lotta.
L’arte ci pone di fronte al problema fondamentale. Nell’arte si innalza la domanda enigmatica, quella verticale. Per molto tempo abbiamo creduto che l’arte fosse bellezza, che fosse facile, che tutto si riducesse a ‘cosa ne pensi della Gioconda?’. Ma l’arte è l’espressione misteriosa del mondo, e non riguarda ciò che penso della Gioconda. L’arte ci pone di fronte a un problema profondo e fondamentale, in questo l’arte è la sola rivale della religione. Le religioni non sono tutte uguali ma si interrogano sulle stesse cose, le arti non sono uguali ma sono sorrette dallo stesso interrogativo.