15 Dicembre 2018

“Anche se l’Accademia mi tratta da ‘eretico’, io sono felice. Facevo il cameriere, frequentavo il Conservatorio, tutto mi sembrava sbagliato. Finché…”: Giovanni Allevi si confessa a Francesco Consiglio

Colui che pianta gentilezza, dice un antico proverbio, raccoglie amore. Troppe volte, negli artisti di successo, mi è dispiaciuto riscontrare la mancanza di quel surplus di generosità nei confronti di chi vuole visitare le stanze più sacre del loro essere. Quando ho chiesto un’intervista a Giovanni Allevi, strappandolo alle prove dell’imminente “Equilibrium Christmas Tour”, non immaginavo, diffidente come sono, che avrebbe condiviso ricordi e pensieri con una tale cortesia da colmarmi il cuore di gioia. Così sarà per voi lettori, ci scommetto.

Uno dei tuoi più grandi meriti è quello di avere ripristinato la concordia tra la musica classica contemporanea e le grandi masse. Questa comunione si era spezzata quando i compositori avevano imboccato le astruse vie della musica dodecafonica e atonale. Con tutto il rispetto per i vari Berio, Nono, o Maderna, quella è musica contemporanea a chi l’ha scritta e a nessun altro, e lo si evince dal fatto che, morti gli autori, nessuno la suona più.

Ricordo che mi sedevo sempre nello stesso punto, per terra, in Piazza San Babila a Milano, per pensare. Avevo già 28 anni, facevo il cameriere per pagarmi l’affitto e frequentavo il corso superiore di Composizione al conservatorio “Verdi”. La mia anima era lacerata da una profonda inquietudine, avevo bisogno di pensare, riflettere. Tutto mi sembrava sbagliato. La musica “contemporanea”, nei confronti della quale mi veniva chiesto di avere una fede incondizionata, non mi sembrava più attuale. D’altra parte, la deriva commerciale del Minimalismo, che raccoglieva già un largo seguito di pubblico, mi appariva piuttosto una resa della musica, del tutto scollegata alla straordinaria profondità e complessità della tradizione classica. Io, seduto per terra come un senza tetto, osservavo i giovani radunati attorno alla fontana, e qualche ragazzino col violino in spalla che si avviava verso il vicino conservatorio. La scena che avevo davanti mi parlava di un vuoto incolmabile, una tradizione classica ormai persa nel passato, ed il presente con altri linguaggi, altri valori, lontani da essa anni luce. Era necessario che qualcuno colmasse il vuoto, e l’idea di compiere questo passo doveroso mi dilaniava l’anima, perché comporre musica nuova utilizzando le complesse e secolari forme classiche, sarebbe stato interpretato dal mondo accademico come un peccato di lesa maestà, mentre il grande pubblico, abituato all’eccessiva semplificazione del pop, sicuramente avrebbe ignorato il mio tentativo.

AlleviE invece è stato amore a prima vista. Con le sale piene di gente che non aveva mai assistito a un concerto di piano solo…

Sono passati più di vent’anni da quel momento. Il pubblico ha inspiegabilmente iniziato a seguirmi, affascinato da una complessità delle forme che non aveva riscontri nell’esperienza quotidiana. All’opposto, la reazione del mondo accademico ha avuto a tratti i contorni della ferocia. Sono stato tacciato di “eresia”, e come un moderno Prometeo, dopo aver voluto avvicinare una nuova musica classica al cuore della gente, sono stato incatenato alla rupe, per sempre.

Per sempre? Secondo me esageri. Se devo seguirti sulla via del mito, oggi mi sembri piuttosto un Prometeo liberato…

Ho un carattere mite e una predisposizione al dialogo, eppure ho dovuto affrontare l’esperienza impressionante di una contestazione di studenti proprio al Conservatorio di Milano e di un sit-in che impediva al pubblico di entrare al teatro, a un mio concerto a Livorno. Sono stati anni molto difficili per me, eppure ho imparato moltissimo. Ho potuto perfezionare la definizione di musica classica contemporanea e renderla inattaccabile. Ho anche capito qualcosa di più sulla paura del cambiamento insita nell’essere umano. Soprattutto ho compreso che c’è ancora tutto da inventare e che i tempi sono maturi per avviare un nuovo rinascimento.

Sei stato accusato di qualunque cosa, e soprattutto, ingiustamente, di fare musica pop spacciandola per classica. Questo tipo di critica nasce da un equivoco linguistico: ogni musica diventa pop se è popolare. Ma non è così! Molti critici dimenticano che Listz aveva ammiratrici esaltate che somigliavano alle moderne groupie e, in tempi più recenti, Arturo Benedetti Michelangeli, non certo l’archetipo del pianista pop, veniva invocato da un pubblico delirante. E dunque ti chiedo: la popolarità logora chi non ce l’ha?

Prima di rispondere voglio fare chiarezza sui termini. Il pop è un genere musicale individuato dalla forma canzone. La musica classica è invece costruita su altre forme più complesse e dilatate, come la sinfonia, la forma sonata o il concerto per pianoforte e orchestra, per fare un esempio. Sono quest’ultime le forme su cui, da sempre compongo la mia musica. Non è vero che i miei colleghi, quelli critici, non hanno compreso il mio gesto: anzi, sono stati i primi a capire il potenziale cambiamento apportato dalla mia musica, soprattutto sinfonica. E a giudicare dal tono delle loro reazioni, sembra ne siano stati profondamente turbati. Non si è trattato del semplice risentimento nei confronti di chi ha “successo”, ma di paura, di essere in un certo senso detronizzati, destituiti dal ruolo di sacerdoti della cultura alta, agli occhi della collettività. Illustrissimi interpreti e direttori d’orchestra, contrapposti al figlio di una maestra elementare e un professore di clarinetto. Tutto quanto posso dire ora è che non ho voluto questo scontro: è stata l’Accademia, dove io stesso mi sono formato, a trascinarmi in una guerra estetica logorante. Io credo nel presente, vivo nel nostro tempo, non due secoli fa. Io non voglio far sentire la gente “inferiore” perché non conosce una partitura di Brahms, ma credo che ogni epoca abbia diritto alla propria musica: a noi il dovere, e l’immenso piacere, di creare la musica dei nostri giorni.

Un tramonto appassiona tutti. Anche se la maggior parte di noi non sa nulla del complesso di apparenze atmosferiche che accompagnano il fenomeno astronomico, sgraniamo gli occhi e restiamo incantati a guardarlo. Con la musica è lo stesso. Anche il meno edotto degli uomini sarà pervaso da sentimenti di dolcezza e malinconia mentre ascolta il “Sogno d’amore” di Listz che avvisa di una chiamata in arrivo al cellulare. Eppure, difficilmente il possessore di quell’apparecchio sarà mosso dalla curiosità di scoprire chi ha scritto quel brano e chi lo suona sui palcoscenici di tutto il mondo. L’interesse emotivo non riesce a trasformarsi in interesse razionale.

È molto bella ed efficace la metafora del tramonto. Come dice Jung, la vera bellezza è nascosta e costa fatica. Solo dopo aver scalato una montagna è possibile godere di un panorama mozzafiato. Un tassista con la passione per l’Astronomia, mi raccontava, con le lacrime agli occhi, che dopo mesi di appostamenti col suo telescopio, era riuscito finalmente a scorgere una nebulosa, ed era valsa la pena affrontare l’attesa e il freddo. La Musica, la Cultura, la Conoscenza costano fatica, mentre ciò che dice tutto e subito, viene sì recepito dalla massa, ma spesso non lascia alcuna traccia. Eppure ciò che ci spinge ad andare in profondità non è soltanto un interesse razionale, ma una gioia più grande!

La musica che comunemente chiamiamo ‘classica’ è stata definita in tanti modi. Uno in particolare mi sembra fuorviante: ‘musica seria’. Questo aggettivo evoca un atteggiamento lontano da qualunque scherzo e ilarità, mentre Mozart, giusto per citare l’esempio più conosciuto, suonava musica divertente per un pubblico di dame e signori in merletti e parrucche che voleva allegria, intrattenimento e piacere. Sono concetti che la gente comune fatica ad associare alla musica classica, a torto ritenuta eccessivamente seria e, peggio ancora, seriosa. Ma se facciamo passare questa definizione, non stupiamoci se molti se ne tengono a distanza.

Devo dire, a favore della seriosità, che la musica classica, anche contemporanea, richiede un approccio religioso, rigoroso, ai limiti delle umane possibilità. Quando sei su quel palco, circondato dal silenzio assoluto, senti che ogni tua cellula, ogni fibra nervosa è protratta verso la realizzazione di un disegno interiore enorme. Ricordo una violoncellista, a Trieste, che sostituì il primo violoncello della mia orchestra. Dopo il concerto mi disse, con la meraviglia negli occhi, che mai si sarebbe aspettata una ricerca così spasmodica della purezza del suono e delle intenzioni musicali. Io non posso essere nella testa di molti, e sapere per quale motivo si tengono a distanza da tutto questo. Ma in fondo il numero che importanza ha? Continuo a credere che, oltre al condivisibile discorso sull’educazione musicale, sia ancora più importante comporre musica nuova, una musica che rappresenti un riscatto per la gente, la sublimazione delle sue aspirazioni, una musica che racconti il nostro tempo, non un’epoca di due secoli fa.

L’intelligenza degli animali è da sempre oggetto di studio da parte dei naturalisti di tutto il mondo. Vengono pubblicate classifiche che vedono ai primi posti i soliti noti: cani, gatti, delfini e scimpanzé. Mai una volta che ci fosse una lucertola. Nel tuo ultimo libro, L’equilibrio della lucertola, hai restituito l’onore a un animale ritenuto stupido! La tua lucertola parlante è più saggia di tanti life coach. Se oggi fosse qui con noi e le chiedessimo come possiamo attraversare il quotidiano inferno dei propri e altrui dubbi, delle ossessioni, delle ipocrisie salvavita, e al tempo stesso mantenere un cuore puro, cosa risponderebbe?

Ci direbbe di accettare il nostro inferno, i nostri dubbi, ossessioni, ipocrisie, gelosie, momenti di incertezza. È proprio da questo magma oscuro che nasce la scintilla, la genialità, la voglia di mettersi a caccia del paradiso.

Il rischio degli artisti di successo è rifare sempre lo stesso disco, per l’umanissima paura di uscire da schemi già collaudati e perdere quello stato di apparente equilibrio che fa credere di essere invulnerabili e desiderati dal pubblico. Poiché mi sembra evidente che tu abbia ultimamente cercato di convivere con un “salutare squilibrio artistico”, ti chiedo quali suoni e poetiche hai conservato durante il tuo percorso artistico e quali nuove idee musicali e poetiche hai sperimentato. C’è un filo conduttore che lega il primo album, 13 dita, con l’ultimo, Equilibrium? E cosa, invece, li distingue?

L’anziano Sergio Griffa per più di vent’anni ha preparato il pianoforte per le mie registrazioni, proprio dal primo album 13 dita. Era un filosofo, oltre che un incredibile talento nel suo lavoro. Spesso prendevamo un tè, vicino al suo laboratorio, e parlavamo. Mi esortava a dedicarmi al nuovo, come unico modo per affrontare la crisi. Anche se avessi perso il mio pubblico, avrei dovuto, per onestà, superare sempre me stesso, intraprendere strade nuove e portare la musica verso orizzonti sconosciuti: sorprendermi e sorprendere. Credo di aver mantenuto fede al suo incitamento.

Il 19 dicembre, a Milano, suonerai al Teatro Dal Verme. Il 26, a Roma, nella Sala Santa Cecilia dell’Auditorium Parco della Musica. E poi in giro per l’Italia: Gorizia, Riccione, Torino, Bologna e altre città. Alla fine di ogni intervista, faccio sempre la più classica e inevitabile delle domande: progetti per il futuro? Questa volta però mi pare di poter dire che il futuro è adesso. Puoi spingerti più in là?

Non dormo la notte per l’emozione, poiché dirigerò, nel prossimo tour natalizio, la prima esecuzione di due opere inedite. Contro ogni logica discografica, in linea con la mia incoscienza, regalerò al pubblico due nuovi brani sinfonici, che non faccio che ripassare nella mente durante le mie notti insonni. Il primo è una Rapsodia per Chitarra e Orchestra; l’altro è una sorpresa. Mentre se la mia mente si spinge alla prossima primavera, non vedo l’ora di tornare in Oriente, in particolare in Cina, dove ho scoperto, nello scorso tour, un pubblico festante di bambini, appassionatissimi alla mia musica!

Gruppo MAGOG