19 Marzo 2022

“Se Cristo è morto vogliamo la salma”. Anastasio dialoga con Davide Nota

Ho conosciuto Marco Anastasio casualmente, tra le tubature del mondo. Marco era assetato di poesia, cioè di una modalità di scrittura attraverso cui gli fosse possibile esprimere più articolatamente il proprio universo interiore. Il primo giorno che ci siamo incontrati, a Macerata, gli ho regalato il libro Allergia di Massimo Ferretti, uno dei poeti che più ho amato quando avevo la sua età e alla cui nuova edizione avevo da poco finito di lavorare con la Giometti&Antonello. Quel libro letteralmente lo strega, lo esalta, lo fa cadere da cavallo. E ormai, come dopo il morso iniziale del vampiro in The Addiction di Abel Ferrara, non si può più tornare indietro. Cʼè bisogno di procacciarsi altra poesia. La nostra corrispondenza si infittisce e si trasforma in una sorta di discussione permanente a cui seguono alcuni assolati incontri nelle Marche, tra le zolle, bevendo il vino cotto o la vodka di Jack Hirshmann e macinando di tutto, letteratura, esistenza, politica, storia, ricerca spirituale, segno, sogno, e in unʼamicizia, anche, perché le pagine che mastichiamo non sono lettera morta, citazione o erudizione, ma spirito vitale, linfa, nutrimento terrestre e ci riguardano direttamente, riguardano le nostre vite private, oggi, qui o lì, in quella casa, in quella stanza, in quella specifica circostanza, e le nostre esistenze storiche, il nostro pensiero in riferimento a ciò che accade nel mondo e al mondo. Naturalmente parliamo anche di Roversi e dei suoi esperimenti con Lucio Dalla e di Jim Morrison e dei suoi folgoranti Appunti sulla visione.

Da tutto questo turbinio di forze psichiche nasce un progetto a quattro mani, che chissà se e quando vedrà mai la luce ma, nel frattempo, Marco lavora in piena solitudine al suo secondo album, Mielemedicina, che è uscito il 25 febbraio per la Epic Records, e che un poʼ credo (o spero, o mi piace pensarla così) risenta anche di questo piccolo fuoco poetico e spirituale attorno al quale ci siamo seduti, scaldati, guardati negli occhi e raccontati qualche antica storia come durante la sosta notturna di una carovana. La canzone Magari è esplicitamente dedicata a Massimo Ferretti, che diventa qui una sorta di alterego di Anastasio, e per me pensare che questo fanciullo poetico di Chiaravalle, dimenticato e rimosso per così tanti anni, così ostinatamente irregolare, isolato e inassimilabile, possa oggi in qualche modo parlare attraverso le radio, i notebook o gli auricolari di una ragazzina o di un ragazzino di sedici anni che attendono lʼautobus per andare a scuola o di una donna o di un uomo che tornano a casa dopo avere staccato dal turno, in una qualsiasi periferia italiana del tutto simile al quartiere di Monticelli ad Ascoli Piceno, dove sono cresciuto, mi fa sorridere e in qualche modo mi fa essere felice. La conversazione che segue si è svolta telefonicamente il 9 marzo, due settimane dopo lʼuscita del disco.

Vorrei partire dal “feretro vuoto” della canzone Simbolismo, che a me pare il centro dellʼintero mandala, lʼenigma cristologico del disco da cui tutto parte e a cui tutto conduce e che ci interroga anche sullʼimmaginario traumatico di questi giorni dove la storia torna con i suoi impassibili meccanismi a schiacciare la vita. Di fronte ai “sovrani del mondo ma schiavi dellʼego” che “siedono tutti allʼidentico trono” cosa rappresenta quel feretro vuoto? Parlami di questa canzone.

Simbolismo è un pezzo giovanile, non si direbbe perché a risentirlo sembrerebbe un pezzo maturo ma lʼho scritto a diciannove anni ed era unʼetà in cui ero molto più acerbo di ora ma questo sottolinea in che stato di rapimento ero. È un pezzo che si è scritto da solo in pochissimo, in una sola sessione di scrittura, quindi in un paio dʼore. Insomma come è nato e come si è sviluppato è stato nel rapimento quindi le domande che tu mi fai sono domande a cui posso risponderti a posteriori. Il pezzo inizia con questo funambolo, questo uomo sul filo e la folla attorno a lui che vuole solo vederlo cadere, che vuole vederlo crollare, che fonde ammirazione e questa voglia di veder morire lʼidolo, e questa figura pure per me è interessante perché è sia Cristo stesso probabilmente ma anche la figura dellʼartista. Il tema centrale però è questo feretro vuoto, che sì, è simbolico, perché tutti si affrettano a fare questo funerale a Dio, vendono persino i biglietti, chiamano i bambini e davvero non vedono lʼora che tutto inizi, è un grande evento perché finalmente Dio si toglie dalle scatole e finalmente i sovrani sperano di prenderne il posto. Ma alla fine non parlo solo di sovrani di nazioni perché ognuno in qualche maniera è questo sovrano. Ognuno vorrebbe liberarsi di Dio e prenderne il posto, essere Dio di se stesso e venerarsi, in una visione quasi luciferina, senza nemmeno rendersi conto che è affollatissimo questo posto”.

Mielemedicina ha tre dimensioni: il primo piano del personaggio, il fondale storico e attorno alla storia il cosmo, questo ignoto spaziale che lʼuomo cerca non solo di raggiungere ma addirittura di “afferrare” come dici nella canzone Babele dove la torre del mito pare trasformarsi in uno dei razzi di Elon Musk. Ma è lo stesso universo dove si smarriscono gli occhi sognanti dei due amici dellʼultimo brano, Lʼuomo, il cosmo, da un parcheggio italiano, di provincia, tra i lampioni. Il cielo che si vede dalla torre di Babele e il cielo che si vede dal parcheggio della periferia italiana sono lo stesso cielo?

“Sono lo stesso cielo ma visto con occhi diversi, quello di Babele è anche più metaforico rispetto allʼaltro perché in Babele questo voler afferrare il cielo è anche voler afferrare la mela da parte di Adamo e insomma tutto diventa immagine della tecnica che vuole spingersi fino a guardare negli occhi Dio o a sostituirlo ma la metafora prosegue, perché una volta che raggiungi il cielo scopri che è un ambiente buio, freddo, inospitale e senza ossigeno. Insomma scopri che arrivato così in alto sei solo e la divinità a cui anelavi non la reggi perché la solitudine di Dio è una condizione che non sempre lʼuomo può reggere. Anzi forse mai. Questo è il cielo di Babele. Poi sì è bello anche il parallelismo che fai con i razzi di Elon Musk, questa torre che si stacca da terra, però anche questo ci fa pensare che lʼuomo appartiene alla terra e dalla terra può contemplare il cielo ma non può rubare al cielo il suo mistero perché questo mistero non è il cielo in sé stesso, così come perlomeno può intenderlo un uomo, ma è la distanza dal cielo. E quindi questa distanza va interrogata da lontano, come infatti fanno i due amici nel parcheggio che si fanno domande esistenziali e alzano lo sguardo per sentirsi piccoli, non trovano una risposta ma questo sentirsi piccoli in qualche modo li consola. Poi vabbè, Lʼuomo, il cosmo è un pezzo ispirato a una vicenda realmente accaduta”.

Me ne vuoi parlare?

“Sì, nel senso che il dialogo con questo mio amico che racconto nel pezzo è vero e si è svolto proprio così come lo racconto, in un parcheggio e guardando il cielo. Eravamo ai poli opposti della conversazione, io facevo un discorso di tipo spirituale e il mio amico un discorso come dire meccanicista sullʼuniverso. Poi siamo passati a parlare della morte, del nulla, e lì ho compreso la sua paura, la paura del grande vuoto, cioè le sue stesse sicurezze teoriche erano il suo incubo e questo lʼho trovato molto umano e profondo. Così poi provo a rispondere dicendo che anche ragionando scientificamente non cʼè motivo per credere che finito il tempo, cioè finito il nostro tempo, ciò che siamo stati scomparirà ma è verosimile credere che il tempo passato non sia realmente passato. Cioè, siamo passati noi ma il tempo è rimasto lì. Non so se hai mai letto Mattatoio n.5, in cui cʼè questa visione dove il tempo non passa davvero ma siamo noi che siamo obbligati a scorrere nel tempo. Eppure in qualche modo siamo ancora lì, in un posto nel tempo stiamo ancora nascendo, stiamo facendo il primo morso di cioccolata e ci stiamo ancora innamorando follemente. Il cielo sotto cui si svolge questa conversazione è un cielo italiano, hai detto bene, è una realtà provinciale in mezzo ai lampioni, è un cielo sbiadito e con poche stelle, però come ho detto importa chi lo guarda e in che modo lo guarda”.

Diciamo che ogni luogo può essere il centro di una serie di cerchi concentrici che tendono allʼinfinito e non esiste una capitale o una periferia per questo.

“Sì”.

Sempre in Babele parli di lingua, di linguaggio e di comunicazione. Cʼè un bellissimo libro, Gli occhi della lingua, in cui Derrida riflette su una lettera del 1926 di Gershom Scholem sulla lingua ebraica della tradizione sacra e sulla sua corruzione in ambito di comunicazione politica, dove le parole diventano strumenti e quindi menzogne. Tu parli di “ragione del possesso” che separa la lingua dal creato e ne fa una realtà virtuale e manipolatoria. Le parole cioè diventano i mattoni dellʼideologia, allucinazioni storiche attraverso cui si erigono le muraglie degli imperi che dividono uomo da uomo. Il gioco santo della nominazione, il cinguettio poetico del rapporto tra uomo e creato, così si corrompe e decade. La questione è infinita, infinibile e davvero originaria ed è sorprendente che venga affrontata in forma di canzone, in una canzone tra lʼaltro così amabile da essere mi par di capire una delle più ascoltate e gradite dellʼalbum. Parlami di Babele.

“Hai già detto moltissimo e in una maniera in cui io ancora non sono riuscito a dirlo quindi ti ringrazio perché ruberò alcune delle tue considerazioni. Allora Babele, diciamolo pure caro Davide, lʼabbiamo scritta palleggiandocela e ci siamo molto confrontati su questo pezzo. A me aveva ispirato un fumetto che si chiama La città di vetro dove cʼera questo vecchio pazzo fissato con questa roba della parola che si era separata dalle cose, questo tema però mi ha colpito tanto perché innanzitutto riguarda il mestiere che faccio e carica le parole di una responsabilità magica; cʼè una vecchia leggenda ebraica che dice che quando parli e le tue parole sono spente, quando parli per dare aria alla bocca, il diavolo esce dalla sua tana e si nutre di quelle parole sprecate. A me questa cosa mi ha colpito perché molto spesso io mi sono trovato a buttare parole, nellʼennesima intervista della giornata, magari mi impelagavo in discorsi che non riuscivo a reggere, su argomenti che credevo solo di aver capito e mi trovavo a fare queste giravolte. Ecco, io ho provato sofferenza fisica nel tirare fuori queste parole, sentivo di stare facendo qualcosa di brutto, di usare un potere in una maniera sbagliata, come formule magiche non solo fallite ma che possono fare dei danni e Babele secondo me sfiora anche questa cosa, cioè dice che le parole sono una forma di magia perché agiscono e creano la realtà, non sul piano fisico ma sul piano dellʼimmaginario, che però non è meno reale di quello fisico dato che determina le azioni delle persone. E il fatto che si indebolisca il linguaggio o che si inquini e corrompa questo potere di evocazione e di creazione è una piccola tragedia o una grande tragedia a seconda dei casi”.

Torniamo al nostro mandala. Partendo dal centro, e cioè dal feretro vuoto, siamo scesi nel cielo stellato in cui si affaccia la torre di Babele. Scendendo dalla torre entriamo invece nella dimensione storica del disco, composta oltre che dalla canzone Babele dai brani Lʼimpero che muore e da Tubature. Queste tubature io le immagino come un labirinto di percorsi obbligati ma anche indecifrabili, e quel rap-jazz con Stefano Bollani dà proprio lʼidea di un concerto folle di una banda di bambini pirata sotto i tombini di una metropoli, nelle fognature della storia, come alle origini del rap americano, penso ai Last poets, tra beat generation, spoken word e improvvisazioni jazzistiche. Cosa sono le tubature?

“Sono contento ti evochi la fanciullezza perché ci sono tanti richiami in Tubature allʼinfanzia, ai suoi giochi e alle sue filastrocche. Il pezzo doveva avere un carattere bambinesco e giocoso anche perché la base era già così, era giocosa, però è anche oscura, anzi scura più che oscura, e quindi mi piaceva in questo delirio buttarci alcuni riferimenti alla fanciullezza, “Questo bimbo a chi lo do”, il mostro dietro le tende e altro. Le tubature sono un labirinto interiore, sono gallerie nascoste e sotterranee, il nome mi è venuto perché a metà canzone il pezzo diventa un rap-jazz impazzito, raddoppia di velocità, e mi ricordava un poʼ la folle corsa dellʼacqua, anzi, mi sembrava di scivolare giù anchʼio in questo groviglio senza sapere dove sarei andato a finire. E scivolando incontro vari personaggi di fantasia e cose assurde che nella realtà non esistono e invece qui esistono come lo gnomo della monnezza e addirittura come i mercati azionari. Ma ti dico la verità, Tubature è un pezzo di cui ho particolare difficoltà a parlare perché è folle”.

È un flusso psichico.

“Sì, la tematica è quella del reale e dellʼimmaginario che si uniscono nel cervello umano e si contaminano. Lʼimmaginario non è reale eppure ci fa agire nella realtà, quindi in qualche modo è causa della realtà almeno quanto la realtà è causa dellʼimmaginario. Le tubature sono questo luogo dove lʼimmaginario esiste e dove appare, sia quello della storia, sia quello che noi siamo in grado di creare con la magia delle parole. Forse cioè il nostro immaginario può modificare la realtà prima che la realtà modifichi il nostro immaginario”.

Lʼimpero che muore mi sembra un racconto di Edgar Allan Poe, o di Michael Ende, contaminato dalla coscienza eretica di Pasolini che brucia e ribalta il senso comune delle cose con un semplice sguardo. Quella che sembrava una rivolta è in realtà una festa su cui il sovrano da un elicottero lancia petali e il palazzo preso dʼassalto si rivela il bozzolo di un potere che ha già cambiato forma.

“Mi piace a chi hai associato questo pezzo, io lʼho scritto cercando di renderlo una specie di visione, un luogo senza tempo perché da una parte abbiamo degli elementi che richiamano il passato come il castello però sua maestà fugge in elicottero, insomma non si sa se ci troviamo nel Medioevo o nel duemila. “Le feste dellʼimpero che muore sono sempre le più riuscite” è il verso che mi frullava e che mi ha dato lʼinnesco per scrivere questa canzone che allʼinizio descrive una scena delirante dove questo popolo festeggia la fine della storia, le ragazze appiccano incendi, i soldati ballano scalzi, sono tutte immagini grottesche e di delirio dove gli unici a piangere paradossalmente sono i pazzi, sono gli unici che piangono perché forse sono gli unici rimasti sani. Nella prima strofa è descritta una festa, non una rivolta. In effetti però è una festa di impazziti che danno fuoco alla città, il soldato scalzo è unʼimmagine emblematica di questa febbre perché il soldato è lʼultima persona al mondo che dovrebbe ballare scalzo e sua maestà inizialmente pare commosso, lancia petali dallʼelicottero e li guarda dallʼalto come un padre. Nella seconda strofa invece la festa è diventata una rivolta con questo popolo marciante che va a prendersi questo castello vuoto per poi scoprire che è soltanto il bozzolo di un potere che non esiste più”.

In Assurdo citi La tragedia delle foglie di Bukowski, in Dea dei due volti ti incarni in Baudelaire e canti il suo amore per Jeanne Duval, in Magari diventi addirittura Massimo Ferretti, il poeta più isolato del Novecento. La tua passione poetica mi pare chiara, ami gli irregolari, i senza scuola, i senza protezione.

“Mi rispecchio soprattutto in Massimo Ferretti perché è stato in qualche maniera più a contatto con il proprio ambiente culturale e quindi più in rottura. Io oggi sono abbastanza in rottura con quello che forse sarebbe dovuto essere il mio ambiente. In poesia voi parlate di ambienti culturali mentre in musica si parla di scene. Io mi sento abbastanza estraneo alle scene, pagandone un prezzo sicuramente in termini di relazioni sociali e forse per questo ho sentito molto vicina la poesia di Massimo Ferretti. Con Ferretti cʼè stata proprio una folgorazione, quella di prendere in mano un libro, aprirlo e leggere delle poesie luminose che mi hanno trasmesso tanto e mi hanno fatto venire voglia di scrivere una canzone assieme a lui”.

Tu sei a contatto con una fetta di pubblico molto giovane e quindi sono curioso di chiedertelo, come è vista oggi la poesia da un ragazzino di quindici o di sedici anni?

“La poesia è considerata un genere difficile per una serie di ragioni, non ultimo il fatto che si presenta più come una materia scolastica che come un linguaggio vivo che possa parlare di te o della tua esistenza. Secondo me semplicemente richiede uno stato mentale speciale per essere letta, una disposizione e quindi cʼè bisogno di un evento molto forte e forse anche molto privato e personale per entrarci. Studiarla a scuola sposta poco da questo punto di vista perché un ragazzino cerca un amico nellʼarte, non una lezione. Ma questo lo capisco, anche a me non interessa leggere per acculturarmi o per fare un discorso su un autore, leggo poesia per rubare qualche lampo o per essere colpito e provare piacere”.

Il primo piano del quadro è la canzone Assurdo. Che dice questo tuo autoritratto?

“Dice che “io, che di colpe ne ho, ho dato per scontato il mare e ho torturato i grilli e ho messo ad essiccare qualche sentimento”. È un pezzo di grande solitudine perché ritrovarsi a invocare il sole è quello che fanno le persone sole, non a caso la parola coincide. Sole, sole. Quindi è una confessione di uno stato di solitudine e di tristezza e per questo è il pezzo che incarna bene il titolo del disco, Mielemedicina, perché è anche il più cantabile e il più radiofonico ma è il più triste dellʼalbum sicuramente”.

Torniamo al punto iniziale della nostra conversazione e cioè al feretro vuoto di Simbolismo. Quel grido con cui si chiude la canzone “Se Cristo è morto vogliamo la salma” non ha un dopo, perché la canzone finisce lì e non è possibile sapere se Cristo non è morto, se lo vedremo sulla via di Emmaus in forma di compagno di strada o se invece è solo il grido disperato di un sogno che non vuole finire. Tu cosa pensi?

“Quando lʼho scritto immaginavo che fosse quasi un grido di protesta di chi ha pagato il biglietto per vedere Dio morto e invece si ritrova davanti a una bara vuota. È risorto? Non cʼè mai stato? Gli uomini non vedevano lʼora di disfarsene e ora però vogliono le prove. Ultimamente invece lo leggo anche come un urlo di speranza, cioè forse ci sono anchʼio lì a gridare che quel funerale è una farsa”.

*L’intervista ad Anastasio (in copertina nel ritratto fotografico di Valerio Nico) è a cura di Davide Nota

 

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