Il nome di Amy Lowell è legato al movimento dell’Imagismo, la corrente poetica che nel secondo decennio del Novecento volle prendere le distanze da ogni eredità postromantica flettendo la lirica alla cosiddetta prosa polifonica, sostituendo alla musicalità melodica modi vivacemente dissonanti e vicini al parlato. L’adesione di Miss Lowell all’Imagismo è caratterizzata primariamente da una forte tendenza alla ‘teatralizzazione della poesia’, a originali forme di ‘drammi in versi’ sulla scia delle raffinate e bizzarre performance in voga nei “Little Theatres” di cui Amy era appassionata spettatrice: brevi atti unici, quasi sempre monologhi, che anticipando il teatro dell’assurdo mettevano in scena drammi della solitudine (one man show) comici e graffianti.
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L’iniziale sintonia con Ezra Pound, che Amy incontra in Inghilterra nel 1913, si tramuta assai presto in rivalità portando a un feroce discidium, dovuto principalmente al carattere tirannico del “miglior fabbro”, che non sopporta l’eccessiva intraprendenza della discepola e non esita a ridicolizzarla ribattezzando il movimento col nomignolo “amygismo”, disapprovando fra l’altro come ‘rétro’ certe scelte stilistiche di lei, vagamente “sentimentali” (Pound si volge al “Vorticismo” e la lascia perdere). Senza porsi troppi problemi per l’ostilità di colui che del resto non ha mai considerato suo maestro (“Mi sento debitrice piuttosto ai francesi, soprattutto ai parnassiani”), Amy continuerà per la propria strada pubblicando libri che le assicureranno un notevole credito ( da A Dome of Many-Coloured Glass a Sword Blades and Poppy Seeds fino a Pictures of the Floating World) e diffondendo il suo verbo (imagista o amygista) in veste di conferenziera itinerante fino al suo ultimo giorno, rivelando un’energia e una capacità di interazione con i giochi editoriali e redazionali da indurre il suo contemporaneo Waldo Frank a definirla una manager d’eccezione, “l’unico vero ‘uomo di lettere’ che l’America abbia mai avuto”. In effetti, Miss Lowell può permettersi di andare dovunque voglia, disponendo, oltre che di un entusiasmo immarcescibile, di un patrimonio da ereditiera e di un fedelissimo autista personale
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Ma chi è biograficamente parlando Amy Lowell? Il suo luogo di nascita è Brookline, nel cuore di Boston, e appartiene a una delle famiglie più facoltose del Massachusetts (il paese di Lowell, luogo natale del pittore Whistler e di Jack Kerouac, è praticamente di proprietà dei suoi nonni); il padre la conduce con sé in Europa e in Egitto, in lunghi estenuanti viaggi che le minano la salute, suo fratello Percival, astronomo di fama alla perenne ricerca di comete e pianeti inesistenti, nonché fine studioso di cultura giapponese, le comunica l’amore per l’Oriente.
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Di fondamentale importanza per la sua formazione, ancor più che il contrastato sodalizio con Pound, è l’incontro in età giovanile con Eleonora Duse. Il ‘violon d’Ingres’ di Amy è la recitazione, ma non può realizzare questo desiderio a causa dell’imbarazzante involucro corporeo di cui una Natura matrigna ha voluto dotarla: Miss Lowell costituisce il caso più eclatante di obesità femminile del fulgido gotha della poesia nordamericana. Costretta da rigidi bustini e stecche metalliche che stritolano il suo corpo imprigionandolo come una gabbia, a trent’anni coprirà tutti gli specchi di casa per non correre il rischio di guardarsi (proprio come la nostra mitica Contessa Castiglioni) e passerà l’intera vita in un buio rischiarato solo da luci artificiali, dormendo di giorno e lavorando di notte. La sua pelle è di candida porcellana, lo sguardo da eterna bambina. La sua fortuna è la presenza di un’ancella discreta e devota come Ada Russell, non a caso un’attrice, una sorta di controfigura di ciò che fu per Gertrude Stein l’ectoplasmatica Alice Toklas, l’ombra silenziosa di un altro genio inconiugabile.
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La figura femminile è al centro di alcuni testi prodigiosi antesignani del delirio beckettiano, come Men, Women and Ghosts, monologo esistenzialista in cui si propone la stralunata cronaca in diretta di un uxoricidio commesso ovviamente da una donna completamente pazza, o The Day that was that Day, in cui una zitella pietosa salva l’amica dal suicidio per avvelenamento convincendola a sopravvivere, benché si senta awful tired come lei, e così “that day that was that day/vanished in the darkness”. Amy coltiva con pari entusiasmo e perizia il territorio onirico, come negli squisiti Dreams of War Time, e quello paesaggistico-orientale, sbizzarrendosi nella tecnica degli hokku e del verso cadenzato, che si alterna a quello metrico nello stesso componimento senza che si avverta alcuna incongruenza.
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Dalla prefazione a Sword Blades and Poppy Seed: “Molte delle mie poesie sono scritte in quello che i francesi chiamano vers libre: un termine più adatto all’uso e alla versificazione francese che non alla nostra; io preferisco chiamarla poesia ‘in cadenza non ritmata’… Tali componimenti si basano su un ‘ritmo organico’, cioè sul ritmo della voce che parla con la sua necessità di respirazione più che secondo un rigido schema metrico, ma si differenziano dai ritmi della prosa normale perché sono più curvi e contengono più accenti… È una forma fluida e cangiante, a volte prosa, a volte verso, che consente una grande varietà di trattamento”. Come non pensare alla capricciosa forma espressiva del ‘frammento lirico’, già corteggiata dal divino fanciullo Arthur Rimbaud e coltivata quasi sistematicamente dai nostri Vociani, quella che Papini definì “un’avventura colorita della frase, fra prosa e poesia”? Quasi sicuramente Amy Lowell non ne sapeva nulla, ma si tratta di convergenze psicoastrali.
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Oltre alla musica, ad attrarre continuamente l’inquieto spirito di questa strana ammaliante fata morgana, è il disegno pittorico e in generale la dimensione iconica. A proposito di certi suoi scritti Amy parla di written pictures, quadri scritti: i disegni orditi dalla parola, immuni da qualunque sbavatura di colore o di linea (negli stessi anni o poco dopo si sarebbe affermato in America il Movimento Precisionista) si stagliano sulla pagina gelidi e sensuali, come certi paesaggi di Hopper o di Georgia O’Keeffe. A tratti, senza nulla togliere a tanto austero nitore, affiora la soavità miniaturistica cinese e giapponese: Barbara Lanati, nella sua esaustiva introduzione all’unica edizione italiana della poesia lowelliana nella ‘Bianca’ Einaudi del 1990, conclude come segue: “Blu, grigio, porpora, bianco latte (la base cromatica delle stampe cinesi, la carta di riso) e chiazze rosse, come chiazze di sangue, ancora e sempre a ricordare, sinistra, rovesciata sineddoche, la lontananza, l’estraneità, la sensuale materialità della vita che la pagina volutamente esclude… Vita indissolubilmente annodata nella realtà alla morte, alla separazione, alla lacerazione e allo strappo. Che una ‘imagery’ agghiacciante ‘rappresenta’ quale senso ultimo della vita, e che – con determinazione – la parola poetica si assume il compito di esorcizzare”.
Silvio Raffo
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da Dreams in War Time:
I
I wandered through a house of many rooms.
It grew darker and darker,
until, at last, I could only find my way
by passing my fingers along the wall.
Suddenly my hand shot through an open window,
and the thorn of a rose I could not see
pricked it so sharply
that I cried aloud.
Vagavo in una casa di molte stanze.
Il buio s’infittiva, ed alla fine
riuscivo ad orientarmi a malapena
tastando la parete con le dita.
Ma d’un tratto incontrava la mia mano
una finestra aperta,
ed ecco che la spina di una rosa
invisibile acuta mi feriva
ed io piangevo forte.
II
I dug a grave under an oak-tree.
With infinite care, I stamped my spade
into the heavy grass.
The sod sucked it,
and I drew it out with effort,
watching the steel run liquid in the moonlight
as it came clear.
I stooped, and dug, and never turned,
for behind me,
on the dried leaves,
my own face lay like a white pebble,
waiting.
Sotto una quercia scavavo una fossa.
Nell’erba pregna di fango affondavo
con cura infinita la vanga,
la risucchiava la zolla,
a fatica di nuovo la estraevo,
osservando il metallo liquefarsi,
riemergere alla luce al chiar di luna.
Scavavo china senza mai voltarmi.
Alle mie spalle, sulle foglie secche,
il mio viso giaceva – un sasso bianco
in attesa.
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da Picture of the Floating World:
OMBRE CHINOISE
Red foxgloves against a yellow wall stricked with plum-coloured shadows;
a lady with a blue and red sunshade;
the slow dash of wawes upon a parapet.
That is all.
Non-existent – immortal –
as solid as the centre of a ring of fine gold.
Digitali purpuree contro una gialla parete striata d’ombre color prugna;
una dama con un parasole rosso e blu.
Lento frangersi d’onde a un parapetto.
E questo è tutto.
Inesistente – immortale –
solido come il cuore di un anello d’oro fino.
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The Taxi
When I go away from you
The world beats dead
Like a slackened drum.
I call out for you against the jutted stars
And shout into the ridges of the wind.
Streets coming fast,
One after the other,
Wedge you away from me,
And the lamps of the city prick my eyes
So that I can no longer see your face.
Why should I leave you,
To wound myself upon the sharp edges of the night?
E quando me ne vado via da te
il mondo batte sordo
come tamburo il cui suono si ottunde.
Lancio il tuo nome contro stelle aguzze
fende il mio grido i marosi del vento.
Rapide si rincorrono le strade
e l’una l’altra incalza, ti respinge
via lontano da me. Tutte le luci
della città trafiggono i miei occhi
e il tuo volto scompare alla mia vista.
Perché lasciarti, solo per ferirmi
sulle lame affilate della notte?
Amy Lowell
*la traduzione delle poesie è di Silvio Raffo