Era bello, atletico, dall’intelligenza rapinosa. Si chiamava Amos, come il profeta – un nome che significa “Dio solleva”. Anche il padre si chiamava Amos. Amos Parker Wilder era stato console degli Stati Uniti a Hong Kong e a Shangai. Thornton Wilder, il fratello, più giovane di due anni, diventerà un importante romanziere, un drammaturgo onorato, con una fissa sulla questione ‘morale’, sull’umanità in frantumi: i suoi libri di maggior successo – Il ponte di San Luis Rey, Idi di marzo, Piccola città, La famiglia Antrobus – gli consentono, tra l’altro, tre Pulitzer e un National Book Award; fu nominato al Nobel per la letteratura, dal 1929 al 1966, per quindici volte; oggi i suoi libri hanno una reputazione prossima all’oblio. Fu Amos, tuttavia – di secondo nome, niveo, faceva Niven –, il genio di una famiglia ricca di talenti – anche le sorelle, Charlotte e Isabel, avevano il carisma della scrittura, coltivato con successo.
Come il padre, Amos si laurea a Yale, parte volontario, durante la Prima guerra, a guidare ambulanze, nel 1917, ottenendo la Croix de Guerre; vi ritorna come caporale di artiglieria, sul campo. Il suo primo libro di poesie, Battle-Retrospect and Other Poems (1923), mette in versi, secondo una tradizione tipicamente anglofona – dai Battle Pieces di Melville alle Barrack-Room Ballads di Kipling – la guerra. Resta, Amos Wilder, un’anima tutto corpo e tutto spirito: nel 1922, anno capitale, è segretario di Albert Schweitzer a Oxford e tennista a Wimbledon. In effetti, Amos ha un talento naturale per il tennis: sul prato, nella competizione vinta da Gerald Patterson, grande atleta australiano, difende i colori americani. Passa il primo turno contro l’inglese Ingram, dopo una partita estenuante, data per persa (3-6, 4-6, 6-1, 7-5, 6-2), soccombe, senza scampo (6-1, 6-0, 6-1), contro Theodore Mavrogordato, tennista britannico già semifinalista a Wimbledon, atleta olimpico, profilo da Coppa Davis: si fermerà ai quarti.
Soprattutto, in quel turbinoso 1922 Amos Wilder comincia a studiare il Nuovo Testamento. Sarà ordinato sacerdote nel 1926, esercitando in una chiesa congregazionalista nel New Hampshire; per diversi anni insegna al Chicago Theological Seminary, dal 1954 è Hollis Professor of Divinity ad Harvard. “Ha scritto molto sui rapporti tra religione e poesia, letteratura, arte. Alcuni suoi scritti, dagli anni Quaranti, sono stati sollecitati dall’incontro con il teologo Reinhold Niebhur, che condivideva il suo interesse per la letteratura contemporanea”, ricorda Wolfgang Saxon sul “New York Times”. Nato nel 1895, Amos Wilder, a Bible Scholar, Literary Critic and Educator, morì a 97 anni, nel 1993. Tra i suoi libri più importanti – intradotti in Italia – ricordiamo The spiritual aspects of new poetry (1940), Theology and Modern Literature (1967), Theopoetic: Theology and the Religious Imagination (1976). Dieci anni fa, per la University of Notre Dame, Christopher J. Wheatley ha pubblicato uno studio su Thornton Wilder and Amos Wilder. Writing Religion in Twentieth-Century America. Le radici della ricerca spirituale di Amos Wilder, tuttavia, sono nel verbo poetico: Arachne, il suo libro decisivo è edito dalla Yale University Press nel 1928. Quasi che per adempiere il più importante, abbia dimenticato se stesso, Amos, infuocando il verbo. Passò una parte della vita ad agire – combattere; poetare; gareggiare – la seconda è figlia della contemplazione, del concetto. Dava ai versi un tono dissennato, proprio all’atleta.
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Ora, sogna…
I sogni usurpano il dondolio della mente,
un lampo fluttua sulla terra spopolata
da tutti i respiri mortali
Morfeo compone e Diana incatena.
Le barche tumefatte del pensiero mollano l’ancora;
immutabile la luna gonfia l’oceano,
una benedetta alienazione serra l’anima
della terra che sogna nel notturno sortilegio;
salva questo eccesso d’oro che sconfina
inutilmente dalla cupa cella:
le profondità del Lete, lento e letale,
non bagnano questo ricovero di veglia e di resa
la sua febbre si è placata.
Sali su quelle montagne, rivo dorato,
marea del sogno; inonda la cittadella del pensiero.
Sommergi, sommergi nella tua cruenta ipnosi
le domande esasperate.
Sfama l’anima sfiancata
con le fiamme del paradiso polare
attera e disarma Orione dalla lancia brunita
l’occhio di Diana
le fiamme di Arturo, e la folgorante danza delle Pleiadi.
*
Era un sogno?
È stato un sogno durato una notte d’estate,
forse, sfatti dall’oscurità di un bosco potente
cupo di eserciti estenuati; non so colpire
l’alba dall’insospettabile altezza:
dove si trovano i Poteri dell’Oscurità?
Era un sogno? Ostaggi simili a un acquazzone
incessanti cataratte di ombre
lungo nere strade torrenziali
l’esercito, invisibile, a sciami;
e tempeste di fuoco, granate nemiche
brancoliamo tra i bagliori, nel sospetto,
annientati dagli enormi faggi e sommersi
da questa doppia notte, lavoriamo in trincea
come in un regno sotterraneo, i convogli aumentano
come fiumi in piena, ci uniamo, rivo a rivo
in cieche contaminazioni, rauco caos della marcia
ruggito notturno del treno
che si perde tra i rami
nessun sussurro – solo tensione che agonizza
le vane grida del cielo.
Ci siamo inchinati all’oscurità, carnale,
soffocati dall’ora – il deserto è sopra di noi
opaco, tanto da scindere ogni futuro di luce
e nega l’alba – il bosco perpetua vendetta
una notte eterna s’intreccia alla nostra legione.
Era un sogno che dilaniava il giorno?
Siamo cresciuti tra le radici della notte
abbiamo scuoiato l’oscurità per incontrare
la grandiosa ipotesi dell’alba
mentre migliaia di sconosciuti
svanivano tessuti nell’oblio.
Giuramenti – grida – pianti
ruote – zoccoli – colpi.
Le bestie stordite combattono nel tumulto
il buio le minaccia verso un traguardo
ignoto: non sappiamo nulla
ma ci gettiamo, ciechi.
Amos N. Wilder