Questo articolo prevede un mutamento copernicano dell’idea di ‘cultura’.
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La ‘cultura’, che riguarda la cura nel coltivare se stessi in verifica al tempo, ora, si pratica in una sorta di samizdat, tra sottoscala e sontuosa anarchia. Non c’è altra via, d’altronde, perché il concetto di cura è in contrasto con la morale del mondo. Il mondo – inteso nell’accezione occidentale-statunitense – misura ogni cosa in base al fatturato. La mente è incommensurabile, è smisurata, non fa fattura e non fattura neppure fatti, ha l’ardire del contemplare, ha l’ardore.
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Questo esempio mi pare straordinario, a riguardo della sostanziosa costanza della cura. Tra il 12 e il 10 ottobre, tra Firenze e Rimini, per merito di diverse istituzioni – il patrocinio è del Pontificio Consiglio della Cultura, del Comune di Firenze e di quello di Rimini – si è svolta la seconda edizione del “convegno di studi” Lectures on Philo. Oggetto di contesa, tra esperti assoluti – da Claudio Zamagni a Yair Furstenberg della Hebrew University of Jerusalem, da Mons. Andrea Bellandi a Franco Cardini – la figura di Filone di Alessandria, “il Platone ebraico” (così Arnaldo Momigliano), genio dell’esegesi biblica, vissuto tra I secolo a.C. e I secolo d.C., guida della comunità ebraica di Alessandria, che fonde l’ebraismo alla cultura ellenistica e fa da ponte alla speculazione cristiana – tanto che in qualche modo è assunto come un proto-padre della Chiesa. Insomma, al posto di speculare a vanvera e in astratto intorno al ‘dialogo’, meglio studiare l’opera di chi ha fatto davvero dialogare Gerusalemme, Atene e Roma.
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Se la prima edizione del convegno giostrava intorno al De Vita Mosis di Filone, questa si concentra sul De Abrahamo. E qui s’avvera la nuova concezione – gloriosa perché nascosta – della cultura. Di Filone, nel parterre editoriale, c’è quasi nulla, tranne l’improponibile – troppo grosso, costoso – tomo Bompiani, edito nella collana del ‘Pensiero occidentale’, che raduna Tutti i trattati del commentario allegorico alla Bibbia. Come mai? Ovvio. Si ritiene che Filone interessi a quattro accademici e a una manciata di alienati. Insomma, l’editoria italica – che va dietro al cattivo gusto degli ipotetici lettori italiani – continua a pensare che siamo tutti una manica di idioti. E qui ci si mette l’impresa. Il glorioso, mai domo Guaraldi stampa il De Abrahamo con intro di Claudio Zamagni, curatela (testo esplicativo e traduzione) di Clara Kraus Raggiani, testo a fronte e perfino (voltando il libro) versione inglese per gentile concessione della Harvard University Press. Trattasi, dunque, di uno ‘strumento’ eccezionale che va ben al di là dei confini del convegno. Eppure, in puro samizdat, in purissima cura, il libro è fuori dal mondo, non ha neanche il marchio isbn.
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La cosa sconcertante, però, ai miei occhi avidi, è altra ancora. Il De Abrahamo, che trae miele morale dalla vicenda del patriarca, è un testo eccezionale. Perfino leggibile. Andrebbe usato come manuale per migliorare la propria vita, per orientare lo sguardo ad altezze consone. Intendo: bisognerebbe farne un bigino, un sunto, buono da assaggiare tutti i giorni per dare un peso – e una leggerezza, piuttosto – diverso al valzer quotidiano. Non ci credete, lo so. Tranquilli. Vi risparmio la fatica. Leggete qui. (d.b.)
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Santo e degno di lode è l’uomo che nutre speranza, proprio come al contrario empio e biasimevole è colui che dispera, cui la paura è cattiva consigliera di fronte a ogni evenienza. Non vi è infatti contrasto più netto di quel che esiste tra speranza e paura. Ed è proprio così: ambedue sono un’attesa, ma la speranza è attesa di bene, la paura è attesa di male e le loro nature sono quindi inconciliabili.
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L’uomo di poco conto passa il tempo a correre sulla piazza, nei teatri, nei tribunali, nelle assemblee e in ogni tipo di riunione o di adunanza, perché vive dandosi sempre un gran daffare; egli ha la lingua sempre sciolta a imbastire chiacchiere prolisse, inconcludenti e sconsiderate e porta caos e confusione in tutto, mescolando il falso con il vero, l’illecito a dirsi con il lecito, il privato con il pubblico, il profano con il sacro, il ridicolo con il serio, perché non è stato educato al silenzio, che in certe cose è la cosa più bella; e tiene le orecchie sempre tese per la sua spasmodica curiosità da intrigante.
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Degni della più viva ammirazione furono quegli uomini che seguirono il proprio libero e nobile impulso, non a imitazione d’altri o in opposizione a loro, ma per deliberata scelta del bello e del giusto in se stessi. Ma è altresì ammirevole l’uomo che si distinse dalla propria generazione e che non ebbe nulla in comune con ciò che la moltitudine perseguiva.
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Colui che ha avuto il dono non solo di cogliere con il sapere tutto quanto esiste nella natura, ma anche di vedere il Padre e Creatore dell’universo, deve rendersi conto di aver toccato il colmo della felicità, perché non vi è nulla al di sopra di Dio e chi è riuscito ad elevare fino a Lui l’occhio dell’anima, non deve formulare altra preghiera se non di arrestarsi e permanere in tale posizione.
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Allo scrutatore dei fenomeni celesti nulla assolutamente sembra più grande dell’universo, cui egli attribuisce l’origine di tutto il divenire. Il saggio, al contrario, intuendo con la sua vista più acuta che esiste un essere più perfetto, solo intelligibile, che comanda e governa e dal quale tutto il resto è dominato e guidato, deplora molti aspetti della vita passata, accusandosi di essere vissuto come un cieco, che cerca sostegno nelle cose sensibili, mancanti per loro natura di consistenza e di stabilità.
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In cosa si potrebbe riporre fede? Forse nelle cariche di potere, nella gloria, negli onori, nei cumuli di ricchezza, nella nobiltà di nascita, nella salute, nell’integrità dei sensi, nella forza e nella bellezza fisica? Ma ogni potere è cosa precaria, esposta alle insidie di infiniti nemici; e quand’anche esso si consolidi in qualche modo, il suo affermarsi è legato a un numero incalcolabile di mali che fanno e subiscono i detentori della supremazia. Gloria e onore sono possesso assai vacillante, i cui alti e bassi dipendono dal temperamento insensato e dalle parole gettate al vento di uomini non provati.
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Ricchezza e nobiltà capitano anche a uomini del tutto mediocri; se poi toccassero solo ai virtuosi sarebbe una gloria da ascrivere agli antenati e alla buona sorte, non a chi le possedesse.
Filone di Alessandria
(da Filone. De Abrahamo, Guaraldi 2018, trad. it. di Clara Kraus Raggiani)