“La bocca pura e la bocca impura”. Giuda iscariota, enigma insolubile
Letterature
Valerio Ragazzini
A frugare senza alcun metodo nella biblioteca di Amleto si rischia di fare la fine di Ofelia, gonfia d’acqua come un otre. Ce lo dice Amleto stesso, eppure ci ostiniamo, continuiamo a cercare in quella biblioteca. Aggiungerei, però, che a frugare nella biblioteca di Carmelo Bene si rischia anche di peggio. Tanto Amleto quanto Carmelo Bene mi ricordano un’arma carica appoggiata sul tavolo: la si teme, la si studia da lontano, non se ne comprende appieno la pericolosità; qualcosa ci attrae, la voglia di prenderla in mano è irresistibile.
Spettro: […] Se hai amato tuo padre…
Amleto: oh, Dio!
In queste due battute Shakespeare concentra tutta la tragedia di Amleto. Ma prima ancora di essere tragico, l’Amleto è misterioso. Il più grande enigma che avvolge l’intera opera sta proprio in quella vendetta che, nonostante le ripetute occasioni, non riesce a compiersi. Qualcosa sembra bloccare l’azione di Amleto e davanti allo spettro di suo padre vacilla; questo compito, la missione vendicativa, sembra essere l’ennesimo fardello caricato sulle sue spalle.
Perché Amleto non compie subito la sua vendetta?
Molti sono gli studiosi che nei secoli hanno tentato di dare una risposta; Ernest Jones, nel secondo capitolo di Amleto e Edipo ne fa una interessante carrellata, e si va da coloro che sostengono l’impossibilità di compiere una vendetta per timore delle reazioni del popolo danese, fino a chi sostiene l’inabilità di Amleto a trasformare in azioni i propri pensieri, o a chi nega l’esistenza stessa del problema, indicando magari il susseguirsi degli eventi come meri ostacoli alla vendetta.
Un punto, fra tutti questi, è da mettere in evidenza: Georg Brandes ci mette in guardia dall’interpretare la tragedia e il personaggio di Amleto con gli occhi moderni, cioè nel vedere in lui una “mente tarata da un atteggiamento morbosamente riflessivo, senza capacità d’azione”. In effetti, il problema di Amleto non è tanto l’agire, ma il come agire. Non è tanto la vendetta, ma l’oggetto della sua vendetta.
Fra tutte queste molteplici congetture, la più famosa è quella del complesso edipico (ripresa, come vedremo, da Bene). Amleto, essendo vittima di un tremendo complesso edipico, non può compiere la sua vendetta perché il padre-spettro, vero oggetto del suo odio, è già stato ucciso.
Shakespeare ci consegna un personaggio davvero enigmatico, e non è un caso se le spiegazioni più convincenti sull’agire e il sentire di Amleto vengono dalla psicanalisi. Quelle esagerate reazioni, quegli spropositi, rivelano “contributi forniti dall’inconscio, cioè dall’ancor viva psiche infantile” scrive Ernst Jones. In sostanza, questo nuovo matrimonio della regina madre con lo zio riattiverebbe certi complessi sopiti nella psiche di Amleto. Il dolore e l’angoscia di dover dividere l’affetto della madre con il padre tornerebbero vivi e presenti nel suo inconscio, causando quegli squilibri, quella depressione da cui sembra affetto. Shakespeare non ci ha dato una mappa della mente di Amleto, perché nemmeno lui la possedeva. Se il tema edipico potrà sembrare una forzatura o un esercizio di stile, certo è che aiuta a comprendere meglio il personaggio, farlo nostro, ed è indubitabile che il rapporto fra Amleto e suo padre sia del tutto peculiare, un dato che emerge dalla tragedia stessa. Amleto pare sia determinato alla vendetta, ma allo stesso tempo sembra volersene chiamare fuori, quasi sentisse la sua inferiorità rispetto alla possente figura del padre.
Da questo punto credo si possa allora fare un balzo verso Un Amleto di meno, testo di Jules Laforgue inserito nelle Moralità leggendarie. Questa riscrittura di Laforgue (da cui Bene trae maggior spunto se non addirittura interi brani) mette in evidenza alcuni aspetti che in Shakespeare restano solo latenti; esasperandoli, anche, ma senza tradirli. Laforgue prende in giro il principe di Danimarca, lo chiama “uomo d’azione” nelle sue Moralità leggendarie, quando egli è in realtà tutto il contrario. Il vero uomo d’azione è il padre assassinato, che si chiama anch’esso Amleto, quasi a costituire un perenne raffronto fra il figlio e quel genitore poderoso, un uomo che anche da spettro è vestito d’armatura, in pieno assetto da battaglia. Quasi il padre assassinato fosse un Amleto-azione, un Amleto degno del trono, un Amleto tutta volontà, mentre ci resta un figlio con velleità artistiche, un Amleto che immaginiamo gracilino, filosofeggiante e inconcludente. Un adolescente. Laforgue sembra proprio trascinare Amleto nella sua modernità.
La morte del padre come liberazione viene esasperata in Laforgue, il quale ci presenta un Amleto capriccioso, in balia di un tremendo egocentrismo e degli umori; non pazzo, ma carico di rabbia repressa, di un’ansia distruttiva che non porta a nulla.
Me ne infischio anche del trono. Abbrutisce troppo. […] I morti sono morti. Girerò il mondo. E Parigi!
Amleto assume in Laforgue la forma del figlio ormai libero dalle incombenze paterne, e si sbarazza del trono, si accontenta di punire lo zio assassino e la madre prostituta con quella farsa recitata dagli attori, come si addice proprio ad un uomo niente azione e tutte congetture, un uomo che predilige la vendetta morale e quella di sangue. E quando invece, alla fine, Amleto muore per un errore, Laforgue liquida il tutto con “Un Amleto di meno; non per questo la razza si è estinta, diciamolo pure!” Ma questo vituperare la figura di Amleto non è un’invenzione di Laforgue, né tantomeno di Bene. Shakespeare stesso sembra voler incarnare in Amleto tutte quelle forme proprie dell’artista, dell’attore: dove “volontà e immaginazione sono perfettamente parallele, più ancora, perfettamente integrate, poiché la volontà è volta a realizzare l’immaginazione non in azione ma nell’immagine di un’azione”, scrive Anna Luisa Zazo nella sua introduzione all’Amleto tradotto da Montale. Amleto non compie la sua vendetta perché l’ha già compiuta a parole. Non è un caso che lo smascheramento dell’assassinio avvenga attraverso una rappresentazione teatrale, una messa in scena.
A ben vedere, la maschera di Amleto mostra un totale disinteresse verso ogni cosa che lo circonda, lo stesso prendersi a cuore la vendetta dell’omicidio del padre, pare una posa, è drammatico nel dramma, e quindi finto. Amleto pare una maschera del teatro tutto, un personaggio che fa il personaggio. Ecco, l’impressione, complici le “incongruenze” e le “scene inutili”, è di una grande perdita di tempo; con un protagonista che sembra più interessato a struggersi. Un protagonista che sembra essere lì perché costretto, e non a caso nella riscrittura di Laforgue se ne vuole andare a Parigi per diventare un attore di successo insieme all’attrice Kate.
La straordinarietà di Amleto è proprio questa: un personaggio che sembra vedersi vivere, quasi la sua vita fosse l’oggetto di una rappresentazione, e quella presunta pazzia non è che un espediente per lasciarlo libero di gironzolare in mezzo a una manciata di personaggi vecchio stampo che sembrano andare in tilt davanti ai non-sensi, alle pernacchie, ai raggiri di Amleto. Per queste ragioni Laforgue deve aver sentito la necessità di riscriverlo, perché in fondo Amleto incarna il prototipo dell’artista decadente, con tutti i suoi difetti ben messi in evidenza. Amleto è tutto Novecento. In lui si scorgono già i segni del sottosuolo dostoevskiano, dove i propositi, gli spropositi, si gonfiano fino a esplodere come bolle di sapone.
A compiere un ultimo passo, dopo Laforgue, è Carmelo Bene. Il primo grande errore, ci informa Armando Petrini nel suo ottimo volume Amleto da Shakespeare a Laforgue per Carmelo Bene, è pensare all’Amleto di Bene come ad una dissacrazione, ad una caricatura; piuttosto, si parla di parodia, “intesa nella sua accezione più profonda e graffiante, e cioè come unica forma possibile del tragico contemporaneo: ‘quando sono assenti ironia e umorismo non c’è assolutamente parodia e dove non c’è parodia non c’è tragedia’ chiosa Bene”. Questa discesa nella parodia deriva dall’impossibilità del tragico contemporaneo. Bene rielabora, stravolge l’Amleto mettendo il fuoco sull’utilizzo dell’arte per svelare il male nella società; l’utilizzo del teatro per smascherare l’assassinio del re divine così centrale nelle sue riscritture, lasciando tutto il resto in ombra. Questo avviene perché per Carmelo Bene è impossibile rappresentare Shakespeare senza essere Shakespeare; l’unico modo per rivisitarlo è quello di riscriverlo. Soltanto riscrivendo si può “essere” Shakespeare e gettare un ponte fra noi e il suo teatro. Petrini definisce l’operazione di Bene sull’Amleto come un “tradimento fedele”, un “tradimento alla lettera”. Questo tradimento avviene per mezzo di un pastiche incredibile e geniale, dove Amleto recita Gozzano, canta “Ninuccia” e prende in prestito frasi dall’Ulisse di Joyce.
Forte dell’influsso di Laforgue, Bene estremizza il senso della rappresentazione, e si sbarazza di ogni cosa, non toglie di mezzo solo Amleto (in alcune scene i personaggi si rivolgono ad Amleto, assente dalla scena, come portassero avanti una rappresentazione senza più il protagonista), ma perfino le pedanti interpretazioni, come quella edipica: Bene mette in bocca ad un vecchio Polonio tutta l’interpretazione freudiana, fino a trafiggerlo con una spada, per sbarazzarsi anche di quell’erudita seccatura. Bene toglie di mezzo l’intera rappresentazione, nega qualsiasi interpretazione, e quel colpo di spada lo evidenzia molto chiaramente.
Jules Laforgue prima, sul finire del l’Ottocento, e Carmelo bene poi, negli anni Sessanta, non hanno operato una dissacrazione, come potrebbe sembrare, ma piuttosto una dissezione, una riscrittura dell’Amleto; si sono insinuati con il loro genio proprio in quella significativa fetta d’ombra che rende enigmatica l’intera tragedia. Attraverso queste due riscritture, Amleto si svela come personaggio tutto novecentesco, protagonista di un’opera miliare della letteratura. Ma non solo: queste riscritture rappresentano quasi alla lettera la lezione di Pound, di Joyce, di coloro che vedendo l’impossibilità per l’arte di proseguire il suo naturale cammino, se non con un’involuzione (che è evoluzione!). Armando Petrini ci ricorda: “Tutto è pensato” scrive Benjamin negli anni venti del novecento, ma è importante “pernottare” nel già pensato così da scoprire qualcosa “che nemmeno il suo costruttore presagiva”.
Una lezione che molti continuano a ignorare.
Valerio Ragazzini