19 Marzo 2024

Leggere Amedeo Giacomini in una casa abbandonata nel bosco. Ovvero: elogio di un poeta fuori dal mondo

Quando la primavera mostra la crosta lattea – una bava verde che già splende – gli uccelli si dispongono in laghi. Pozze di uccelli, armati di cinguettii, gettati a cerchio, come lacci: a pasturare la luce e i suoi cuccioli, si direbbe. Raggi solari presi al lazo, per dare conforto al nido, suddivisi in lingotti.

*

Nel proprio bosco, ciascuno ha i propri riferimenti. Nel mio – meglio: quello che mi ospita, prima di azzannarmi –, al confine tra Marche ed Emilia-Romagna, in visione di mare – sacerdotale fascia da monsignore azzurro – sono almeno due. Un orrido da tenere sul lato sinistro del cammino, bruma di dirupi e nubi di rovi, dove si acquatta, ne sono certo, il re del bosco, insieme a una granatiera di cinghiali, e il rigagnolo, in fondo. Non ci sono sentieri, questi due punti sono sufficienti per orientarsi. La pietra portante – su cui si ergono i borghi, intorno –, è gialla e mostra le costole, sembra un enorme Cristo dormiente. Una volta valicato il rigagnolo, si risale entro teorie di uliveti.

*

Dal lato della valle che va verso gli alti abitati, diverse case in abbandono. Una di queste case è interamente ricoperta da un albero: il tetto è sfondato, immagino un cenacolo di volpi, quando la notte dilata i lamenti. Ricordo la leggenda dell’antico pastore che a sera, con il coltello con cui pulisce gli zoccoletti delle capre, apre le budella del cielo perché si rovescino, come pesci, le stelle.

*

In una di queste case si può entrare. La trave pende come un arto inerte, ma c’è ancora il camino; un unico cavo elettrico, sbrindellato, rammenda l’idea della luce che fu, nei notturni di campagna: tenue, con tensione di lino, da tenere, come lenza, in bocca. Mi resta l’idea della lotta, i chiodi su cui si appendeva la bestia ridotta a prosciutto, la fuga, improvvisa. La casa ha tre stanze: una sedia è ancora presso il camino, in attesa del cantastorie. Diverse trame di edera proteggono il rifugio dal crollo, formano una specie di carapace verde.

*

Devo a Ivan Crico, che ne ha curato con coriacea dedizione il destino postumo, la scoperta di Amedeo Giacomini (1939-2006). Mia cecità, di sempre, con chiodi in batteria a battibeccare nel retro del cranio. Nel “Dizionario biografico dei friulani” Gian Mario Villalta scrive di Giacomini come della “figura di poeta e di letterato che meglio rappresenta, per il Friuli e non solo, la vitalità e le contraddizioni proprie dell’ultimo quarto del secolo scorso”. Auspicava, Villalta, “che l’interesse degli studiosi, sulla scia dei suoi ammiratori e discepoli, assuma l’impegno di comprendere in profondità quanto egli ha saputo comprendere e dire delle vicissitudini umane condivise dal suo tempo”. Sorge spesso, intorno al nome di Giacomini, la parola “maestro”; era molto amato dal poeta Pier Luigi Cappello. Con la pubblicazione delle “Poesie e prose” di Giacomini per Quodlibet, A prezzo di parole (2024; con sfoggio di contributi: di Giorgio Agamben, Matteo Vercesi e Ivan Crico), si è forse messa una pietra importante per la riscoperta di un poeta di tal potenza.

*

In Giacomini – sintetizzo per brutalità – il genio della ‘cultura’ – laureatosi a Urbino, sarà professore universitario a Udine – si fonde a quello della ‘natura’: figlio di possidenti in tracollo economico, il poeta ha vissuto la condizione del contadino, la tratta degli ‘ultimi’. Dopo la devastazione del ’76, Giacomini opta, come lingua poetica dunque etica, di rivolta e resistenza, per il friulano. Cito alcuni versi, potati col falcetto:

“Per l’amara, convinta certezza che vivo
non ho più bisogno dei morti”;

“Già si incista nel cuore
il ricordo del sole”;

“Si profila la sera
nel nido d’api del mio cuore”;

“Non sappiamo parole di pena,
ma uno sfrigolio di bave
che le strade rendono luccicanti
di specchiato dolore”.

È esercizio mutilato, però, di geroglifici sulla neve, senza l’originale inguine friulana: traccia di capriolo che potrebbe essere di lupo; non tutte le poesie sono nella posa della preda.

*

Metto altri dati alla rinfusa. L’amicizia di Giacomini con padre Turoldo e con Andrea Zanzotto; la traduzione della Historia Langobardorum di Paolo Diacono e de La terra amata, romanzo del francese e Nobel per la letteratura Le Clézio. Di certo, di Giacomini mi avrà parlato il mio vecchio professore, Remo Cacitti, che tanto si è prodigato per il suo Friuli; di certo me ne ha detto Flavio Santi – le orecchie, a volte, sono cisterne sapide di muschi, la tenia dell’oblio.

*

Di solito, emergendo dal bosco, dove s’inaugura un serpentino sentiero, volgo a destra: si apre un canneto, a raggera, che è il mio sole – o la mia armeria. Trovo una canna, la taglio e la lavoro, fabbricandomi un bastone flessibile. Lasciano crescere l’erba, in mareggiata, attorno agli ulivi: ne viene, sempre, una luce acquatica, da acquario. Gli uccelli, a tratti, mi sembrano sogliole, branzini, trote. Le bestie stanno nascoste, ogni mio passo, pur felpato, è un’invasione di Unni. Soltanto un rapace, a quest’ora, con il sole in trionfo, mi è compagno: ruota, resta in stallo, investiga. Forse è una poiana – dopo una decina di minuti, amplia il cerchio, si sposta, svasa, scompare.

Amedeo Giacomini (1939-2006)

*

Il libro pubblicato da Quodlibet raccoglie L’arte dell’andar per uccello con vischio, “che per la prosa è il capolavoro” (Villalta) di Giacomini. Il libro, “in parte frainteso” (idem) fu pubblicato in origine nel 1969, per il marchio di Vanni Scheiwiller “All’insegna del pesce d’oro”; i disegni di Luigi Zuccheri – recuperati in questa ultima edizione – coronavano il testo, di aurorale bellezza. Il libro tiene insieme, in forma indimenticabile, i due tratti di Giacomini: l’atto pienamente culturale – si citano, in esergo, a identificare un lignaggio, Leopardi e Sannazzaro; tanti saranno citati, a convalida di verbo, in corso d’opera, tra gli altri: “il divin Poliziano”, Pietro degli Angeli, Boccaccio, il secentesco Cesare Manzini – e l’estro ferino, la tratta nelle segrete della natura. Il libro, a prima vista, è un trattato che insegna “i modi di praticare l’arte dell’uccellare”; ricorda i codici della falconeria di Federico II, ma ancor più L’astore, opera eccentrica – pubblicata da Adelphi una manciata di anni fa – di T.H. White, stravagante scrittore inglese (ha ridato vita romanzesca al mito di Artù), che racconta il tentativo di addestrare un rapace. Il libro di Giacomini è scritto “In memoria di Ernesto ‘Che’ Guevara”: pur sempre di guerriglia si fa tesoro.

*

Il libro di Giacomini parla, in sostanza, di un mondo perduto: è un sonoro atto d’amore verso il reame alato. La parussa – meglio: cinciallegra – è descritta così:

“Bellissima, intelligente, crudele, la parussa è la regina del bosco, di ogni siepe profonda. Chi la pensò doveva esser maestro di grandi eleganze. Ha il capo imberrettato di nero velluto; le guance color della calce. Anche il soggolo ha nero e da esso si parte una lucente cravatta che va fino al centro del ventre, appena un po’ mossa sulla camicia citrina da bellimbusto. Reca, sul dorso, un mantello di seta ulivigna; anche le gambe ha vestite di seta, e, angelo azzurro dei boschi, le allunga, le ostenta, le stira. Ma provatevi un poco a toccarla: schizza di lato nervosa, l’occhio come una brace lucente, vi guata di bieco tra i rami e gli stocchi, fischiandovi in volto uno stridio di vipera irata!”.

Si dice, dunque, di solitudine, di ‘poste’ che hanno il senso di una mistica attesa, di abbacinanti silenzi. Di alati più particolareggiati dell’uomo.

*

Uno dei capitoli più belli del libro racconta il genio di andare ad uccelli con la civetta. Si squaderna un mondo fatato e crudele, quale quello delle fiabe. Addestrare il rapace notturno – “occorrerà scegliere tra i nati quello con il capo più piccolo e gli occhi più imbambolati ed accesi” – è già d’incredibile difficoltà; lascerà increduli, nel nostro tempo in cui la sera è assente e il crepuscolo crepato dal livore di luci innaturali, ovunque, leggere di moine, confidenze e ardori che legano l’uomo al suo strigide, piccola Atena dalla fame sapienziale. Ricorda Giacomini: “è meglio che chi non ha virtù di maestro neppure s’attenti a meditarla” tale caccia, che chiede “abilità grandissima… e amore e certosina pazienza”. Tutti caratteri obliati nell’era della velocità, dell’approssimazione e del disamore.

Frammenti dalla casa nel bosco

*

Ad ogni modo. Il libro di Giacomini – pur piluccando frase per frase – è, insieme, vigorosamente ‘antimoderno’ e dolorosamente ‘postmoderno’. Il poeta, infatti, s’inventa una lingua regolata sull’italiano del Seicento, con trafitture leopardiane – il ricordo va, dicono tutti, alle Operette morali – che piacerebbe, per dire, a un Gadda. D’altra parte, è un levigato totem al tempo andato, di cui tale manuale – non certo ‘d’uso’ ma d’abuso estetico – è di fatto il requiem. Certo, il libro, all’epoca, risultò fuori tono, fuori luogo, forse molesto, maldestro ai modi dominanti – per capirci, nel ’69 lo Strega andava a Lalla Romano, con Le parole tra noi leggere, e il Campiello a Silone con L’avventura d’un povero cristiano. Oggi la sua estraneità è corroborante.

*

Dunque: mi sono portato Giacomini nella casa nel bosco. Ho immaginato che quella sedia, che albeggia sul camino e ha in sé il futuro remoto – sedia-lupercale, sedia-lupacchiotto –, fosse adatta a lui, a questo libro. Da bambino, mio figlio disegnava gli uccelli e li riconosceva tutti, in campo aperto, dalla livrea e dal fischio – poi queste cose si dimenticano, non si crede più nella possibilità di abitare sugli alberi e di spezzare il sole, come il pane. I sogni sono radura che non appaga, le parole hanno il greto secco, pieno di lucertole. Riconosci, ovunque, l’opera al nero delle cornacchie – le mani che imitavano la stella ora sono una gabbia.

Gruppo MAGOG