Nel 1930, con lucida frenesia, Roman Jakobson scrive, a Berlino, il piccolo saggio Una generazione che ha dissipato i suoi poeti. Vladimir Majakovskij si è ucciso in aprile. L’articolo esce a giugno. Majakovskij che si spara al cuore è l’emblema del poeta che colpisce al cuore la Rivoluzione, il simbolo dell’eclatante fallimento delle sorti progressive comuniste. “Neppure il futuro ci appartiene”, chiude Jakobson il suo micidiale requiem russo, “quando i cantori sono uccisi, e le canzoni trascinate al museo e attaccate con uno spillo al passato, ancora più deserta, derelitta e desolata diventa questa generazione, nullatenente nel più autentico senso della parola”. In quel testo decisivo, che racconta lo sterminio della più formidabile messe di poeti mai sorta nella Storia, nello stesso tempo e nello stesso luogo, Jakobson compie un errore di prospettiva. “Splendidi sono i libri di Pasternak e, forse, quelli di Mandel’štam, ma sono poesia da camera, che non accenderà una creazione nuova. Le loro parole non sono di quelle che mettono in movimento e inceneriscono i cuori delle generazioni”. Estranei all’incendio della Storia, i versi di Pasternak e di Mandel’štam, al contrario, sono, ora, un fuoco inestinguibile: ciò che brucia anche sotto il dominio delle tenebre. A differenza di Majakovskij, che “cominciò a essere imposto con la forza, come le patate al tempo di Caterina – e questa fu la sua seconda morte” (Pasternak), oggi proprio Pasternak ci pare il poeta ‘decisivo’ del Novecento e Mandel’štam, “che morì in un campo di concentramento di transito in Siberia durante la deportazione nel lager, probabilmente nel 1938 (il corpo non è mai stato trovato), dopo una vita sempre più stentata e solitaria, con l’unico conforto della moglie, Nadežda Mandel’štam” (Gianfranco Lauretano), quello più rappresentativo. Iosif Brodkij, il grande poeta Premio Nobel per la letteratura nel 1987, in un saggio formidabile, Il figlio della civiltà, ha elevato Mandel’štam a icona dell’indipendenza della poesia contro le strettoie di ogni regime: “Il canto è una forma di disobbedienza linguistica, e le sue note gettano un’ombra di dubbio su ben altro che un concreto sistema politico: mettono in discussione tutto l’ordine esistenziale. E il numero degli avversari cresce in proporzione”. Ora, dopo le antiche traduzioni di Angelo Maria Ripellino (memorabile la sua definizione: “Mandel’štam ci appare come un poeta greco o latino che scriva in russo… le sue metafore rapprese e compatte, somigliano a quinte simmetriche, le sue città si stendono come antiche arene. Trascinato dal culto del mondo antico, egli osserva la sua epoca come da altri secoli, e il tempo stesso sembra in lui pietrificato”), Serena Vitale, Remo Faccani, da qualche tempo Mandel’štam è tornato ‘di moda’ nell’editoria italica. L’anno scorso Adelphi ha pubblicato i delicati epigrammi di Quasi leggera morte (per cura della Vitale), mentre l’editore Giometti & Antonello ha iniziato la pubblicazione dei Quaderni di Voronež (per cura di Maurizia Calusio). Quest’anno, che sono gli 80 dalla morte del poeta, il Saggiatore rimanda in libreria La pietra (pp.190, euro 18,00), la prima, clamorosamente matura, raccolta di Mandel’štam. Tradotta per mano di un poeta, che ‘traffica’ in Mandel’štam da tempo. Gianfranco Lauretano (tra le raccolte in versi ricordiamo Occorreva che nascessi, Marietti, 2004 e Di una notte morente, Raffaelli, 2016). Cercare di capire il cuore di un poeta è come lanciare un mucchio di ossa al vento, sperando che si animino. Ne assaggiamo il linguaggio, allora.
Quando accade il tuo incontro con Mandel’štam? Cosa porta nella sua poesia questo piccolo uomo in una generazione di giganti (Pasternak, Majakovskij, Esenin, Achmatova, Cvetaeva, Chlebnikov…), qual è il suo cuore lirico?
Il mio incontro con Mandel’štam è avvenuto tardi. Ricordo che negli anni dell’università, al corso di Letteratura Russa presso la Facoltà di Lettere di Bologna, il suo nome non era molto citato. Erano la prima metà degli anni Ottanta. In realtà già nel 1972 Serena Vitale aveva curato le sue Poesie per Garzanti, e quello fu la lettura della scoperta del poeta, assieme alle memorie della moglie Nadežda, che riportano in maniera mirabile la loro esistenza comune, dentro la terribile vicenda di persecuzione che li vide coinvolti. Il cuore della poesia di Mandel’štam è il suo essere relazione col mondo, il quale, a sua volta, è composto di fenomeni tutti egualmente importanti perché, per il fatto stesso di esistere, si oppongono al non essere, al vuoto. Mandel’štam criticava la formula del massimo teorico del simbolismo, Vjaceslav Ivanov: «a realibus ad realiora». Al contrario, per Mandel’štam nel mondo c’era già tutto, anche i “realiora”. La sintesi del suo sguardo poetico sul mondo sta in questa sua frase: «Amate l’esistenza della cosa più della cosa stessa e il vostro essere più di voi stessi». Questo, diceva, «è il più grande concetto dell’acmeismo», cioè del movimento a cui diede vita assieme ad altri poeti, come la stessa Anna Achmatova.
A dire di Ripellino, Mandel’štam è un poeta alessandrino, greco, trapiantato in Russia. Ritieni sia corretta questa indicazione? Mandel’štam era un poeta fuori tempo, fuori tono?
Come sempre Ripellino ha non solo il genio del pensiero, ma anche quello dell’espressione. La sua sintesi è esatta: accosterei ad essa quello che scrisse Sergej Averincev, proprio a proposito delle poesie di questo libro: “Le poesie del 1908-1910 costituiscono un fenomeno pressoché unico nell’intera storia della poesia mondiale: è molto difficile trovare da qualche altra parte una tale combinazione tra psicologia immatura di un giovane, poco più che adolescente, e una così perfetta maturità nell’osservazione e descrizione poetica proprio di quella stessa psicologia”. In quell’epoca di futurismi, simbolismi e sperimentalismi di tutti i tipi, cosa mai avvenuta prima o dopo, il tono di Mandel’štam è classico, alto, eloquente, e questa è la maturità a cui accenna Averincev. Tutto sommato, una cosa del genere sarà sempre fuori tempo. D’altronde Mandel’štam diceva che il classico deve ancora venire.
Mandel’štam pone il problema del rapporto del poeta con il potere. Lo dice Iosif Brodskij: Mandel’štam, che mette in crisi non tanto un ordine politico ma un sistema esistenziale, è l’agnello sacrificale della Russia sovietica. È così? Perché quest’uomo si è messo in difficoltà, perché l’hanno voluto morto?
La vera poesia pone sempre il problema del rapporto tra il poeta e il potere. Non è così forse anche per Orazio (tanto amato da Brodskij), il quale pranzava con l’imperatore e a lui doveva tutto, anche la casa? Mandel’štam, in quanto agnello, fu particolarmente candido: per lui l’indipendenza dell’artista era indiscutibile. Così, quando in Russia si impose il clima descritto nel suo epigramma su Stalin (“Viviamo senza neanche l’odore del paese/ a dieci passi non si sentono le voci/ e ovunque ci sia spazio per mezzo discorso/ salta sempre fuori il montanaro del Cremlino”), iniziò per lui il pericolo più grosso. In realtà praticamente tutti i poeti di quell’epoca sono stati sacrificati, uccisi o suicidati: ma chi altri avrebbe scritto un epigramma simile, così candido come gesto? Il fatto è che in Russia, dopo gli anni Venti e soprattutto nei Trenta del Novecento, andò al potere una forma di pazzia ideologica particolarmente disumana e diabolica.
Oggi Mandel’štam, lentamente, torna a essere letto e tradotto. Forse, ora, la sua docenza lirica supera quella di Majakovskij, che abbiamo letto, fino a un decennio fa, in tutte le salse. Come mai? Cosa ci dice, oggi, il piccolo, stralunato Osip?
Mandel’štam è stranamente un poeta politico senza ideologia politica. Majakovskij è stato più facilmente letto perché più facilmente riconducibile all’ideologia dominante nelle università e nella cultura italiana, quella di sinistra. Quando anche Majakovskij si sarà liberato di questo fardello, lo riscopriremo nel suo essere diversamente ma altrettanto stralunato e geniale. Mandel’štam no, anzi: apparirebbe a prima vista più aristocratico, persino reazionario, coi suoi riferimenti al medioevo, all’antichità classica, al sacro nella parola (ma anche questo è sbagliato: Mandel’štam ebbe il suo periodo socialista, durante la prima rivoluzione del 1905 andava ad arringare gli operai). Il fatto è che egli non deroga mai all’assoluto presente nella realtà e nella parola. E oggi, in un’epoca in cui l’attacco del potere è concentrato proprio contro lo spirito e i confini delle tradizioni, è ancora una volta divergente e attualissimo.
Che rapporto c’è – in Mandel’štam, ma anche nel tuo lavoro poetico – o deve esserci tra etica ed estetica?
Poiché è opinione corrente nelle spompate accademie e istituzioni culturali l’assenza di questo legame, iniziamo a dire che, invece, un rapporto tra etica ed estetica c’è. Basti pensare che per Mandel’štam la parola poetica è l’unione di molti elementi che ne costituiscono la particolare «densità» e il significato cosciente (logos), e che essa deve permettere di accedere, come diceva lui stesso, a una «gioiosa interazione con i propri simili, come le singole pietre in una cattedrale gotica» (e come le parole in ogni singolo testo). L’autonomia dell’arte non è disimpegno verso la ricerca del bene, come la bellezza è anche contributo alla costruzione della polis. In ciò Mandel’štam è una lezione anche per me e, a mio parere, per chiunque oggi scriva. Come si vede, una lezione classica, politica e avveniristica insieme; certo tutto, fuorché nichilista.