08 Luglio 2023

“I lupi”. Intorno a una poesia di Allen Tate, il re reietto della letteratura americana

The Wolves, i lupi, è una delle poesie più belle dello sconfinato canone americano. Allen Tate pubblica The Wolves nel 1931, sulla rivista “Poetry”: accolta in Poems. 1928-1931 (Scribner, 1932), appare in tutti i repertori antologici dell’autore. È una poesia di feroce esattezza, elaborata a lungo, secondo l’etica lirica di Tate: la tensione narrativa è temperata dall’epos ‘morale’, l’estro poetico si amalgama con la protervia del pensiero, l’astratto s’innesta nel concreto, senza sbavature. Il simbolico – i lupi nella stanza –, cioè, non prende il sopravvento sull’avvenenza del tangibile: la poesia di Allen Tate non rischia di virare nel merletto mitico, tipico di un Borges, resta torsolo intriso di sangue. Il gioco di equilibri – nella poesia ricorrono le parole wolves e man, in uno scontro con pazienza ritardato – è fitto di unghie: la tensione tra selvaggio e quotidiano, bestiale e civile, umanità e homo homini lupus, è sempre al punto di infrangersi. Estremo esempio di poesia-licaone.

Nel 1931 Allen Tate – lontano discendente di George Washington – ha già scritto il supercelebre poemetto, Ode to the Confederate Dead, in cui consolida il proprio credo lirico: rigore del verso, immagini indelebili, rapporto con la Storia, arte della sprezzatura e della nobiltà. Questo è l’incipit, tonante, nella traduzione di Alfredo Rizzardi:

Fila dopo fila con stretta impunità
Le pietre tombali cedono il nome all’elemento,
Il vento soffia senza memoria;
Nei trogoli spaccati le foglie appiattite
S’ammucchiano, sacramento fortuito della natura
All’eternità stagionale della morte;
Poi tratte dal violento esame
Del cielo alla elezione nel grande respiro,
Sussurrano la voce della mortalità.

Licenziato dalla Vanderbilt, aveva fondato, insieme Robert Penn Warren, John Crowe Ransom e Donald Davidson, i “Fugitives”, con l’intento di spostare l’asse lirico statunitense dall’egemonia nordista al Sud, dal dominio metropolitano alle aree rurali dell’America soleggiata, depressa, dimenticata.

“Il fuggitivo”, diceva Allen Tate, “è semplicemente il Poeta: l’Errante, icona dell’ebreo errante, il fuggiasco, il Sommo Emarginato, l’uomo che porta la propria misteriosa saggezza per il mondo”.

Aveva già sposato Caroline Gordon, da cui avrebbe divorziato nel 1945, per risposarla l’anno dopo; la prima delle tre mogli – l’ultima, Helen Heinz, la portò all’altare nel 1966, poco prima di compiere 67 anni. Poeta dal talento indefettibile, critico letterario dall’intelligenza sgargiante – una selezione dei suoi Saggi sono tradotti nel 1957 dalle Edizioni di Storia e Letteratura –, Allen Tate è stato ‘poeta laureato’ nel 1943, ha ottenuto il Bollingen Prize for Poetry – quello vinto anche da Ezra Pound – nel 1956. Negli anni Cinquanta, guidato dall’amico Jacques Maritain, si convertì al cattolicesimo. Nel 1924, a New York, aveva conosciuto Hart Crane, il grande poeta, di cui diventò, in sostanza, l’unico amico, curandone, nel ’26, un’edizione dei poems, White Buildings. Con Ernest Hemingway preferiva andare a vedere le corse di ciclismo.

Non è un mistero la ragione per cui Allen Tate – come, per altro, i poeti sodali, “fuggitivi” – è un problema per l’odierna cultura americana ed è un paria, editorialmente, sulle nostre sponde. Ai motivi sostanziali – una poesia ‘aspra’ e ‘difficile’: non diversa, però, da quella di Derek Walcott o di W.H. Auden, per dire – fanno specchio quelli ‘politici’. A dettare la norma letteraria statunitense sono le metropoli, le ideologie del Nord. Un capitolo della densa nota biografica pubblicata su Wikipedia, per intenderci, si occupa di sviscerare le “Attitudes on race” di Allen Tate, il suo fatuo razzismo, per ventidue, per lo più inutili, righe.

Allen Tate, piuttosto, amava Emily Dickinson, sentiva una particolare sintonia con Edgar Allan Poe a cui, nel 1949, dedicò un saggio insuperabile, Our Cousin, Mr. Poe. “Da ragazzo fissavo per ore il celebre, disperato, asimmetrico ritratto fotografico di Poe: speravo di potergli assomigliare, un giorno”. Secondo Christopher Benfey – che ha curato l’edizione dei Collected Poems di Tate edita da Farrar, Straus and Giroux nel 2007 – così è stato: “Tate ha realizzato, in modo sinistro, il suo desiderio. Nel suo saggio, Tate sostiene che Poe, bersaglio perenne degli strali della critica, merita un posto al desco dei grandi scrittori americani. ‘Per la maggior parte degli uomini moderni, Poe è il cugino reietto: possiamo assegnargli un ruolo, ma non possiamo escluderlo dal nostro consesso’. Pressappoco, è lo stesso rapporto che la critica ha oggi con Tate: ‘collocato’ come poeta e critico ‘meridionalista’, reazionario, prima voce dei Fugitives, lo vorrebbero dimenticare ma non possono farne a meno”.

Autore di un unico, identitario romanzo, The Fathers (1938; 1960; “il ponderoso romanzo… di uno dei massimi esponenti delle lettere contemporanee”, lo idolatrava la bandella dell’edizione Feltrinelli, intitolata I nostri padri, era il 1964, ora è irreperibile), Allen Tate, per sintetizzare, è il William Faulkner della poesia americana. Medesimi i temi, i tratti, le atmosfere e il sibilo da uomini al confine di tutto. La differenza sostanziale, semmai, sta nell’ombra dei maestri: Faulkner opta per James Joyce, di cui rivede i monologhi sotto l’afa di Yoknapatawpha; Tate è l’erede diretto di Thomas S. Eliot. Nell’unica edizione italiana delle poesie di Allen Tate – Ode ai caduti confederati e altre poesie, Mondadori, 1970 – viene ribadito il legame con Faulkner – “Non diversamente da quella di un suo grande contemporaneo, il romanziere William Faulkner, la visione poetica di Tate è legata nel modo più spontaneo e profondo al mito e alla realtà del Sud” – e la grandezza assoluta del poeta nell’ambito della poesia occidentale del Novecento. Le stagioni dell’anima, poemetto di terrea bellezza, è, secondo Alfredo Rizzardi – già traduttore di Ezra Pound, William Carlos Williams e Herman Melville – “una delle vette della poesia americana del Novecento, degna di stare accanto alle pagine più ispirate di William Butler Yeats e di Paul Valéry”.

Autore di una vita improntata all’elitario etilismo, agli amori esasperati, Allen Tate era elegantissimo, principesco, teso a una propria carismatica solitudine, alla picaresca gioia di chi ha conficcato una croce nel cuore del caos, felice di essere fuori tempo, oltre il tempo, ai margini. Eve Zibart, nell’ottobre del 1978, lo va a trovare nel suo ricovero, per scrivere un lungo reportage, edito dal “Washington Post”. Il titolo è esemplare: The Literary Kingmaker. Allen Tate sarebbe morto pochi mesi dopo, nei primi giorni di febbraio del ’79. L’attacco è memorabile:

“La luce decapitata della casa di riposo, a Nashville, non è tenera con Allen Tate. Prosciuga il residuo pallore del suo viso, di carta, i capelli radi, e rende latteo il tubo di plastica della bombola d’ossigeno. A 78 anni, a Tate resta lo sguardo periferico, di lato, sulla vita. ‘Non sono ciò che avrei voluto essere’, dice, con esasperata lentezza, ‘ma non mi dispiace’. Allen Tate, l’uomo che ha articolato il modernismo per gli scrittori modernisti, che ha definito il ‘sudismo’ per il rinascimento della letteratura sudista americana, è come un grande attore che recita Shakespeare in un teatro vuoto. Considerato un tempo tra i maggiori letterati degli Stati Uniti d’America – ancora venerato da diversi scrittori, molti dei quali hanno sollecitato il Comitato per l’assegnazione del Nobel di ricordarsi di Tate – oggi è praticamente sconosciuto al grande pubblico, mera materia universitaria. Viene spesso descritto come una ‘figura seminale’ e la sua influenza è stata determinante per molti autori. In un certo senso, è stato un poeta per poeti. Una fama tanto peculiare è una specie di sconfitta per quello che Robert Penn Warren ha definito ‘uno dei personaggi più importanti della letteratura americana’. Allen Tate, il sovrano della letteratura”.

I lupi di Allen Tate mi ricordano El tigre di Eduardo Lizalde, il poeta messicano: “C’è una tigre nella casa/ che lacera da dentro chi la guarda”. Un bestiario analogo, forse, accomuna gli uomini del Sud, e non è un caso se Hart Crane sia andato in Messico a stordire l’ultima belva, la morte. Eppure, l’americano non ha miti che lo sorreggano: la bestia è la bestia, o la uccidi o ti uccide. I lupi di Allen Tate vanno meditati insieme al ferino Agnus Dei di Jan van Eyck, vanno affiancati alla lupa catturata e amata da Billy Parham, protagonista di Oltre il confine, il dolente romanzo di Cormac McCarthy, scrittore del Sud, del lignaggio di Tate.

Forse è lì, la poesia, feto in braccio all’uomo, a riferire l’ultima frattaglia di coraggio – nella stanza di lato, si azzannano i lupi.

***

Lupi

Ci sono lupi nella stanza accanto: aspettano,
la testa bassa, famelica, che respira
presso il niente della notte; tra loro e me
c’è una porta bianca, maculata di luce, sul corridoio:
sembra che nessun uomo (tanto muta è la casa)
abbia mai camminato dalla porta d’ingresso alla scala.
Così è da sempre. Le bestie artigliano il pavimento.
Ho meditato su angeli e arcidiavoli
ma nessun uomo si è mai seduto di fianco
a una stanza che brulica di lupi, e per onore dell’uomo
affermo di non averlo mai fatto prima. Ora, mentre
cercavo la stella della sera, dalla finestra gelida,
e fischiavo e Arturo spargeva la sua luce,
ho udito i lupi lottare e mi sono detto: Dunque, è questo
l’uomo; dunque – non vedo miglior conclusione –
il giorno non seguirà la notte e il cuore
dell’uomo ha una ben misera dignità, ottusa pazienza
rispetto al lupo, più opachi sensi, incapaci di percepire
il sentore della cosa che muore. (Queste e altre
meditazioni saranno esatte in altri tempi
dopo che il silenzio testa di cane avrà ululato il suo epitaffio).
Ora, rammenta il raduno del coraggio e recati alla porta,
aprila e guarda se raggomitolata a letto
o lungo la parete, tremante, c’è la selvaggia bestia
magari ha i capelli dorati, gli occhi profondi
come un ragno peloso sul pavimento scosso dal sole:
ringhia – e a un uomo non è concessa la solitudine.

Allen Tate

Gruppo MAGOG