“Cuori puri e cuori marci”. Le detenute mettono in crisi la Biennale di Venezia
Arte
Fabrizia Sabbatini
Ora che nella libreria sto dando un’altra disposizione ai libri, tutto è più incauto. Li osservo, come ipnotizzato, dentro a un nuovo incanto, mentre i colori più o meno vivaci si alternano tra verticalità e orizzontalità. Oltre alle svariate sfumature di tono, spicca ogni tanto qualche nome in stampatello, a imprimermi nella testa e negli occhi storie leggendarie. Chissà cos’è stato per davvero, per ognuno di loro, vivere la vita. Ora sono incastonati in copertine mirabili, e le loro opere sono diventate classici della letteratura universale. Ma, agli inizi, nel mentre, durante quel che gli accadeva, cos’era per davvero la vita? Indubitabilmente, fatica.
Eppure, cosa provavano dentro di loro fino a sentir male? Questi poeti e scrittori di altri tempi, invaghiti da muse e lasciati per sempre, affinché il destino li accompagnasse per mano in avventure strabilianti, cosa tacevano nel frastuono del mondo che attraversavano? Perché bisogna veramente tacere fino all’inverosimile, occultare, nella realtà, il segreto di ogni sguardo, come il gesto o il guizzo di uno sconosciuto, o la smorfia di un sorriso improvvisato. Occorre un’omertà discreta che ci accompagni alla pagina bianca, l’unica sulla quale riversare ogni dolore del mondo. Che poi questo dolore si trasformi in euforia, quasi a simulare un disturbo bipolare, o rimanga tristezza attaccata alle nostre mani, è soltanto, più che affar nostro, affar di letteratura.
Proprio ora che i miei libri mi abbagliano in un silenzio cosmico, in quell’immobilità presente e costante, a voler simulare ‒ se vogliamo ‒ infinite zattere che falsamente galleggiano nell’oceano della mente a noi più lontano, il mio sguardo esterrefatto e ubriaco si posa su due di loro: una raccolta di racconti, e un’altra di poesie, di un certo Boris Vian, che Sofia, colei che fu la mia musa, mi prestò un giorno. Non so bene per quale motivo lo fece. Ma non li volle mai indietro. E adesso che ciò che poteva essere non è più, i libri di Vernon Sullivan stanno lì, piazzati in alto, a ricordarmi qualcosa che nemmeno io so bene che cos’è.
Tuttavia, cos’è per me la vita, oggi? Cosa prova un poeta che scrive racconti, romanzi, articoli funambolici o strampalati per Pangea, mentre là fuori, al di fuori della stanza-studio, tutto si sfalda e si smembra nella lotta per un posto a sedere? Avevo dimenticato di aver messo proprio lì quei libri. Forse che per un attimo speravo addirittura di dimenticarmi ciò che è stato. Ma i ricordi, lo sappiamo, ti arpionano a tradimento, nel momento peggiore e inopportuno, quasi a rinvangare il loro potere assoluto sull’uomo. Quasi che più della vita, valga il ricordo.
Se proprio devo provare qualcosa, allora, rammento che Sofia mi disse, come a confessarmi un segreto, che non avrebbe passato il resto dei suoi giorni in quella valle immacolata che porta il nome di una Trinità. Ricordo che presto o tardi si sarebbe spostata su un lago. E in una sera di inizio settembre, tra la musica jazz che impazzava, mi raggiunse in una piazza che dava proprio su un lago. E rammento molte altre cose ancora, che irrimediabilmente si fanno lacrime di cristallo, tra i miei occhi inappagati.
Fu la sera più bella della mia vita. Ma non tornerà. Provo, semmai, un senso di poesia, a inondarmi il cuore affamato, pieno di rivalsa, verso un destino che quella volta mi ha voltato le spalle, simile a un drago che fugge. Ci sono molte cose ancora che vorrei e dovrei scrivere su Sofia, sulla musa e il suo poeta, eppure, se nuovamente li fisso, i miei libri stanno sempre lì, impassibili, senza biasimarmi; bramando soltanto di essere finalmente letti, per non restare “lontani a vista” come soprammobili di un arredo che non avrebbe alcun senso, per uno scrittore.
Si è quindi scrittori, per quel senso inappagato che non ci è stato dato il tempo di vivere. Si è dunque poeti una volta e per sempre, dentro a un bacio rubato, dentro a quel libro che ancora dobbiamo scrivere, ma che è già nella nostra testa, e aspetta solo il momento opportuno per essere creato. Come quel ricordo, pronto ad azzannarci, nel buio livido di una sera qualunque.
Giorgio Anelli