25 Gennaio 2021

“La testa gli giaceva aperta come una bara dalla quale strisciavano animaletti primordiali”. Alfred Kolleritsch, un outsider

Riordino alcuni volumi della mia esigua biblioteca: scorgo, incastonato tra un Duden e Orkus: Reise zu den Toten di Gerhard Roth, Die Grüne Seite di Alfred Kolleritsch (1974), timidamente scortato dalla sua traduzione italiana Il lato verde (Polistampa 2009). Ho un sussulto, penso all’autore ormai anziano e in sedia a rotelle ma sempre “con questo sguardo cattivo per lo stato di cose intorno a sé e con un senso di amicizia per le singole persone”, eloquente immagine fissata dall’amico Peter Handke e riportata nei risguardi della sovraccoperta de Gli Ammazzapeschi (Marsilio, 1995), versione italiana del primo romanzo dell’autore, l’intrigante Die Pfirsichtöter: Seismographischer Roman (la frase originale, in realtà, compare sul retro della copertina di Der letzte Österreicher, raccolta di racconti ancora inedita in Italia). Una decina di giorni – siamo a maggio dello scorso anno – e il nostro passa a miglior vita.

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Impossibile per me non volere bene a questo outsider della letteratura contemporanea di lingua tedesca: per quanto assai di rado il suo nome riecheggi al di fuori della «Grazer Gruppe» e sia stato sovente relegato al ruolo di “Literaturfunktionär” da molti addetti ai lavori, fra i quali se stesso – “in un attimo di debolezza”, come ammesso in un’intervista a Eberhard Büssem per la Bayerische Rundfunk: è noto, infatti, per essere stato uno dei fondatori del Forum Stadtpark (1959), sinergia tra vari gruppi di artisti e letterati attivi nella città di Graz e, soprattutto, come editore dei manuskripte, rivista tuttora in pubblicazione – è (soprattutto) poeta e romanziere di spessore. Lo stiriano, infatti, ha saputo pervenire ad una delle espressioni più personali e concrete del concetto di «grammatica politica» espresso dal poeta Helmut Heißenbüttel nei suoi studi sui rapporti tra società e lingua, forte di una scrittura capace di coniugare periodi brevi e strutture essenziali a descrizioni impressionistiche di evidente matrice rilkiana e immagini di peculiare crudezza desunte da certo espressionismo (nella fattispecie, il Gottfried Benn di Morgue und andere Gedichte e quello di poco successivo). Asperità ed eccessi esistenzialistici – heideggerismi suggestivi ma oltremodo pronunciati – tuttavia, limitano il formidabile impatto di non poche delle immagini anarco-liberatorie proposte nella prosa lirica di Die grüne Seite: con tale opera, Kolleritsch si protende definitivamente alla neue Innerlichkeit, una forma di intimismoattraverso la quale persegue la salvaguardia di un’identità non precostituita in grado di emanciparsi da qualsivoglia stereotipo sociopolitico.

Alfred Kolleritsch (1931-2020)

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Die grüne Seite resta l’opera in prosa meglio calibrata di tutta la produzione kolleritschiana, o perlomeno quella in cui l’interazione tra istanze filosofiche e dominio dell’esperienza risulta più convincente; è anche uno dei principali romanzi della terza fase del movimento di Graz (cf. Zmegac 446), nella quale emerge un approccio che si slega dallo sperimentalismo precedente (desunto dalla «Wiener Gruppe» e influenzato poesia concreta e residui dada), per vertere con risolutezza sui moti della coscienza: “Innewerden”(cf. Handke, Die Abwesenheit, 185) o Innehalten che indica una presa di coscienza interiore che genera vigore proprio nell’atto in cui il singolo interviene nei ciechi avvenimenti del mondo, in netta antitesi con le proposte di Michael Scharang ed Elfriede Jelinek, in bilico tra marxismo e dispute inerenti a sistemi linguistici e semiotici.

Il microcosmo nel quale si muove Kolleritsch, oltretutto, è una questione intrinsecamente privata, una trasfigurazione per larghi tratti lirica della storia della sua famiglia, nonché un romanzo di autentica resistenza interiore, come rimarca Helmut Moysich nell’illuminante premessa, “all’insegna del titolo di una raccolta di poesie di René Char, membro della Résistance e poeta: “Fureur et mistère”” (5). Questa corrispondenza, nonostante bagagli esperienziali quasi agli antipodi, non sorprende se si ha dimestichezza con l’autore, il quale ha palesato un alto grado di devozione per la poesia di Capitaine Alexandre a più riprese, in particolare nel finale della sovramenzionata intervista concessa alla Bayerischer Rundfunk, che chiude con la lettura della sua poesia “Lobgesang nach René Char” (11).

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La lingua attraverso la quale Kolleritsch persegue i suoi scopi è de facto la metalingua che sperimenta da alcuni anni e che verrà poi riproposta, scarnita, nei cicli di poesie pubblicate fin dalla fine degli anni ’70. La sintassi di Die grüne Seite non presenta periodi caratterizzati da troppi livelli di subordinazione, anzi, talvolta registra preponderanza di strutture paratattiche. Metalingua, in quanto linguaggio che riflette su se stesso, pur proiettandosi in una concezione della letteratura  includente le dinamiche del pensiero e dell’esperienza concreta: scorie della «Wiener Gruppe», più che altro mediate da altri autori affini quali Andreas Okopenko, Ernst Jandl e Friederike Mayröcker (imprescindibili autori-raccordo tra l’oltranzismo linguistico dei viennesi e la ritrovata interiorità di buona parte degli autori del consorzio stiriano), ma soprattutto affinità con la lingua utopica di Ingeborg Bachmann e una riappropriazione del linguaggio avversa a quelle forme di espressione che alludono a modi di dire prestabiliti, a “quel gergo canagliesco che è l’unico linguaggio disponibile per chi non voglia restare completamente isolato” (Il trentesimo anno, 37) e attraverso il quale “non troverai mai la parola giusta né la soluzione dei problemi del mondo” (ivi, 41). Kolleritsch paga anche un pegno evidente ai modelli letterari dei grandi classici della letteratura austriaca, tra i quali spiccano non solo i sempiterni Rilke e Kafka, ma anche autori a lui praticamente coevi, tra cui l’inarrivabile Thomas Bernhard (assieme ad Hans Lebert uno dei padri concettuali di pressoché tutti gli autori della «Grazer Gruppe»).

Bello il ritratto dell’autore in copertina eseguito dalla traduttrice Beatrice Donin, buona ma non eccelsa, a mio avviso, la traduzione, talvolta troppo ridondante e distante dalla sostanza del pensiero kolleritschiano, denso di slanci filosofici eppure proteso alla laconicità. Una lettura comunque necessaria: sinfonia di immagini in cinque movimenti, dalla trama all’apparenza priva di distinzione, con una consecutio temporum affatto aggrovigliata, eppure torrenziale nel fluire magmatico delle coscienze dei protagonisti e dei loro dialoghi.

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L’emblematica metafora del lato verde esprime la tensione di coloro che cercano la beatitudine nella cognizione immediata e diretta. In essa è auspicabile il pervenire ad una natura selvaggia e incontaminata che, tuttavia, considerando l’incipit del romanzo, sembra non potersi manifestare se non in illusorie forme surrogate (“Alla parete di fronte alla porta era appeso un fondale con sopra dipinto un paesaggio boscoso. Davanti c’era un parapetto in legno di betulla. Un tappeto erboso color verde era steso per terra”, 13). Gottfried, alter-ego del padre di Kolleritsch, è presumibilmente appena adolescente quando viene portato da suo padre presso lo studio del fotografo Krampl, affinché la sua immagine venga fissata in una fotografia: questi ha già deciso, infatti, di farlo studiare alla scuola forestale, perché un giorno possa diventare l’amministratore del castello di Brunnsee (mai nominato nel testo). Il resto della vita del ragazzo, in questo modo, risulterà segnato dal tentativo paterno di condurlo nei sentieri di un’esistenza servile atta a sclerotizzare le fiumane di immagini che lo conducono reiteratamente alla fantasticheria brada (“Al castello ti ho fatto riservare un posto” […] “sarà lì che dovrai costruire la tua vita un giorno, lì regnano ordine e disciplina, devi baciare la mano alle persone, puoi imparare le buone maniere”, 62).

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Kolleritsch dà, diversi anni dopo la pubblicazione del romanzo, una risposta ancora più complessa circa la controversa scena iniziale durante una conversazione tenuta con Rüdiger Wischenbart, nella quale svela i motivi che lo hanno condotto a scrivere Die grüne Seite. Il Wischenbart, nel saggio “Ein Bild fürs Leben, Die vieldeutige und die eindeutige Grüne Seite von Alfred Kolleritsch” contestualizza storicamente il romanzo e parla di una vera e propria «Enklave» (42), nella quale i tre personaggi principali del romanzo tendono all’isolamento resistenziale, a partire dal padre di Gottfried, un insegnante il cui atteggiamento di base è, come ammette lo stesso Kolleritsch, l’anarchia, sorta di fase intermedia e “espressione vivida” avversa alla “solidificazione delle forme” (mia traduzione; passo da Wischenbart, “Gespräch mit Alfred Kolleritsch” riportato in “Ein Bild fürs Leben”, 40). I tre protagonisti vivono tale condizione portandosi dentro una «Wunde» (ibid.), ferita che è proiezione di un’intima sofferenza interiore che, ad esempio in Gottfried, si è aperta nel momento in cui il padre gli ha imposto l’immagine fissa della foto e che gli ha causato un malore con momentanea perdita della parola – “[…] masse simili a rossi meloni gli si spaccavano davanti incominciando a girare”, 20, visione di supergiganti rosse? –, allusione ad una scissione della percezione e ad un conseguente smarrimento d’identità, presto sostituita da un’altra preformulata ad hoc per l’omologazione. Gottfried viene portato a visita da un neurologo, al quale prova a descrivere il suo malessere per iscritto prima di un breve deliquio (“Prima che la testa di Gottfried cadesse in avanti sul tavolo, la curva terminante della L si richiuse in un grande cerchio e Gottfried credette di precipitarvi dentro”, 24); una volta risvegliatosi, racconta di “una nevicata di immagini”, un turbine catastrofico che rimanda vagamente a certa poesia di Aleksandr Blok (“Aveva avuto la sensazione di scomparire sotto a questi fenomeni. La testa gli giaceva aperta come una bara dalla quale strisciavano animaletti primordiali. Era conficcato tra la neve che cadeva, che più tardi si era trasformata in pioggia, e la sua stessa schiena”, 25).

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In queste prime pagine emerge una variante più accessibile della prosa sismografica già sperimentata ne Gli Ammazzapeschi, che assume consistenza soprattutto nei discorsi del padre di Gottfried, studioso di geologia e vulcanologia: “se qualcuno perde l’uso della parola, è uno dei suoi strati a spostarsi, un segno che gli altri strati non aderiscono in modo molto compatto gli uni agli altri” (26), dice al neurologo in uno sfoggio di metafore non richiesto. Il professore è ossessionato dai suoi studi e non vede una risoluzione al di fuori di essi, ma, quantomeno a parole, si ostina nel considerare il movimento come il principio cardine dell’esistenza, “l’unica modificazione adeguata”, nella quale le immagini tendono a svilupparsi, “uno strato, sopra e sotto e intorno al quale le cose devono proseguire” (31). Siffatta geologia dello spirito si ripercuote su molte pagine del romanzo – le agognate immagini vengono definite dal professore “la fuga all’interno del vulcano” (40) – ma viene talvolta smorzata da altre immagini di pregnante levità, anch’esse vincolate alla terra: questa tensione tra registri narrativi è, per Moysich, una “dialettica fruttuosa” (9) esaltata da immagini come quella, paradigmatica, delle pietre di tufo, apparentemente “così pesanti” eppure “leggerissime” (34).

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In questo Bilderflut memore della poesia benniana si instillano motivi e tòpoi tradizionali della letteratura austriaca, tra i quali emerge il castello, che in Kolleritsch riveste un’accezione per lo più negativa, sulla falsa riga dei lavori di Kafka e Bernhard: non vi è alcuna traccia di nostalgia, né di idillio, bensì uno sguardo impietoso sull’oppressione e sui suoi conseguenti modelli coercitivi, sulle dinamiche di una dicotomia servo-padrone consolidatasi da secoli e foriera di conseguenze nefaste sulla mentalità dei contadini. Una tematica, a dire il vero, già affrontata ne Gli Ammazzapeschi con una lingua ulteriormente astratta e filosofica, piuttosto distante dai moduli della prosa lirica di Die grüne Seite:il castello incarna quindi l’ordine gerarchico che Kolleritsch combatte mediante la lingua, un dominio che da principio pare incontrovertibile, un ordine che lo stesso autore equipara a forme di platonismo (cf. l’intervista alla BR, 5). Anche i protagonisti de Il lato verde tentano di opporsi alla “Unsterblichkeit des Dienens” (“immortalità del servire” – dalla poesia di Kolleritsch Denn wovon man spricht, das hat man nicht, vv. 12-13, in: Abstürz ins Glück) che ammorba le persone che gravitano attorno al castello, nel quale il domino e la subalternità costituiscono i valori cardine dell’intero sistema, la “bestia primordiale” che “spinge gli uomini ad adattarsi” e “fa della loro forza creativa una grazia” (64). Il castello si pone, di conseguenza, come contraltare platonico di una ricerca del lato verde connaturata a quella che Moysich, ispirato da Ilse Aichinger, definisce “paradosso di una speranza” (7): un’esistenza libera dalle pastoie della coercizione pare possibile attraverso la razionalizzazione delle immagini in una poetica redenta, a più riprese lambita dal professore e dallo stesso Gottfried e infine risolta dall’insicuro Josef, emanazione diretta dell’autore.

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Il secondo capitolo del romanzo introduce il giovanissimo Josef, il quale è affetto da anomalie del linguaggio che tuttavia rivendica in quanto espressione di libertà individuale (“[…] se ne andava in giro solo con ragazzi che parlavano come lui. Ne divenne il capo e riuscì ad imporre che si limitassero ad un linguaggio mimico”, 74). Affetto da catarro bronchiale, viene spedito dalla famiglia al mare presso Venezia alla fine dell’anno scolastico, ma le divergenze linguistiche coi suoi coetanei contribuiscono al suo isolamento (“La lingua degli altri era divenuta di nuovo più minacciosa. Cercò di ripetere le loro frasi. Si interruppero, lui le dimenticò, non comprese il loro contesto. La lingua straniera alla stazione gli era sembrata più familiare.”, 85). Le riflessioni libertarie del ragazzo, tuttavia, mostrano anche i segni del servilismo a cui la sua famiglia è ormai avvezza: giustifica il padre che, talvolta, “lo bastonava per amore, per il senso di inferiorità sociale”, perché “doveva dimostrare che […]  era più libero di quanto non si vedesse” (92), quel padre che pare così distante da lui, ma col quale condivide le stesse inquietudini e lo stesso balenio incessante di immagini, “come un’esecuzione” (101).

Il terzo capitolo è incentrato soprattutto sugli ultimi dialoghi di Gottfried con suo padre, prossimo alla morte per un’infezione: i due intavolano discorsi che si direbbero scevri di filtri, ma anche colmi di contraddizioni insanabili. Il professore, nel pieno delirio della malattia, parla con  trasporto e collera (con scorie sensoriali che picchiettano qua e là le immagini evocate): ulteriori riferimenti alla “terra vulcanica” (104) squarciata dagli ultimi combattimenti della guerra, e un flusso di immagini ascrivibili ad una dimensione materiale, di venatura spesso nichilista (“La morte di quella signorina fu per me la morte in assoluto, la morte come un’informazione di tipo particolare, come un terzo elemento, accanto alla materia e all’energia”, 106). L’imminente dissolutio del professore estende la gittata delle immagini proposte, connesse a una terra che pare ora carne viva, ora substrato della coscienza. La stratificazione kolleritschiana è qui totalizzante e si inserisce in un discorso ulteriormente ampio, che inerisce allo svolgimento della storia. Il professore abbraccia i motivi della coscienza dal suolo per biasimare l’idea di una mera distruzione improduttiva: “Dopo si potrà rifare la terra, scoprire nuove immagini, impedendo che assumano durata e potere” (107). La terra assume le sembianze e la consistenza della coscienza umana, o, tutt’al più, quelle del luogo dove gli strati della coscienza interagiscono fra loro cercando compattezza. Il professore è ormai lanciato in un monologo bernhardiano, in cui incita alla deferenza nei riguardi della mente, che dovrebbe essere atta alla preservazione di “vecchie immagini fluenti”, dalle quali il “nuovo” eromperebbe in virtù del suo essere pensato “in maniera nuova” (117). Il substrato di immagini e ricordi viene così soppiantato da uno strato che pare frutto di una memoria introdotta ex novo, ma che in realtà viene influenzata in maniera determinante proprio dal sostrato sul quale finirà per prevalere: il microcosmo della coscienza individuale e intenzionale, parallelo al macrocosmo della storia. La contaminazione – esacerbata dal motivo del nido da sporcare, smaccatamente austriaco – è indicata come “una forma sincera per mantenersi puri” (117), poiché legarsi, vincolarsi alle rappresentazioni, altro non porta che smarrimento. Il professore muore lasciando Gottfried in balia di elucubrazioni inerenti a una deragliata sfera percettiva: il disagio fisico che Gottfried prova al cospetto di certi pensieri, la sua inadeguatezza sensibile, il suo ricondurre certe reazioni fisiologiche ad eventi psicologici, quella “traccia di nostalgia e di forza” (125) tipica dell’eiaculazione, che trascende la sua dimensione meccanica e corporea per sfilacciarsi in derive chimeriche, costituiscono l’ennesima metafora di un mondo interiore che non può ricomprendere il vecchio in senso attivo.

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Circa un lustro dopo la fine del conflitto, Gottfried si trova sul monte Aramon con gli altri dipendenti della tenuta, alcuni amici ed un prete, l’unica persona con la quale può parlare per immagini senza doversene vergognare. Dopo un breve discorso del prete sulla Zaunmentalität contadina, di cui anche Gottfried è in una certa misura affetto – meglio “mentalità da recinto” (Moysich, 6) che “mentalità limitata alle proprie quattro mura” (135) –, si appella, sulle istanze paterne, alla geologia, affinché il tema della sua famiglia possa trovare una giustificazione (140). Gottfried pare inoltre confermare che le sue idee sulla storia della terra si sovrappongono ai suoi moti interiori (“Le mie idee sulla storia della terra animano quelle del mio intimo”, 141). Pochi istanti prima (138), il prete ha rievocato l’immagine dellato verde” cara a Gottfried, causando in lui un perturbamento emotivo che tracima nel fisiologico (“Ancora una volta un discorso si interponeva tra lui ed i suoi organi sensoriali” e “I suoi muscoli rifiutavano il gioco”, 139): egli stesso è cosciente che la soluzione potrebbe essere “ottenere la sensualità con la forza” e “indossare una veste verde” (139). Gottfried, agevolato dal clima di cordialità e dal vino, proferisce parole non riconducibili ad alcuno schema, fluide, affrancate dalle categorizzazioni vigenti: tutto il capitolo è pregno di riferimenti e tematiche di grande attrattiva – penso ai richiami sotterranei alla poesia di Bachmann o al Faust (nell’evocata immagine del “benessere cannibalesco”, 147), o alla riflessione sui libri di cucina in cui “si trova la forma pronominale del ‘tu’,” (147), altra cifra stilistica della poetica kolleritschiana (cf. Zmegac 447), o, ancora, alla filosofia del secondo Wittgenstein –, ma l’acme è il prodigioso aneddoto raccontato dal prete, un episodio che forse consegna Kolleritsch alla storia della letteratura tedesca contemporanea. Un astruso figuro, ospite del signore di una tenuta, vuol mostrare una nuova forma d’arte, “ridestando la tradizione della carne e del sangue” (152), e con alcuni stratagemmi retorici riesce a coinvolgere alcuni dei turbati astanti in un rituale di carnalità esacerbata che non è mera riproposizione di una celebrazione pagana, bensì mimesi attiva di una performance art di chiara ascendenza azionistica (o forse una sua parodia): imbrattati di sangue e ricoperti di viscere, provocano lo sdegno di un esteta che a un tratto brandisce “una Madonna dipinta nello stile dei Nazareni”, incitando alla bellezza e destando l’ilarità dei presenti (“Gli intestini, il sangue, il pollo morto, l’agnello sgozzato, i corpi imbrattati, la brutta faccia e la figura della Madonna offrivano un quadro assai eccitante, dando a tutti una sensazione di liberazione o di annullamento di contraddizioni inconciliabili.”, 153). Finalmente affrancata dagli echi dell’ontologia heideggeriana, la prosa di Kolleritsch si libra definitivamente verso il dominio sensibile: magnifica la realtà corporea, la sola maniera che abbiamo di esistere e percepire la bellezza, che “non deve essere meno reale” (153). Il sangue convoglia così la corporeità e ne è la sua espressione più fertile, il topòs lirico entro il quale la poetica di Kolleritsch – ancora una volta influenzata da Benn – si innalza fino allo zenit: nonostante una sottile dialettica tra corpo e spirito, l’autore sembra propendere per il primo in quanto cifra di una Auflösung necessaria per una (Wieder-)Schöpfung. Il prete trae così le sue conclusioni, pervenendo ad un’idea dell’arte che “non spiritualizza niente” e tende al “desiderio creativo di sangue e carne”, mera “Ausscheidung”, “escremento” ed evacuazione.

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L’ultimo capitolo affronta in maniera definitiva il concetto di disfacimento: tracce di Auflösung sono presenti in tutto il romanzo, ma lo Zwiespalt che corrode l’ego dei suoi protagonisti non è stato ancora risolto. Qui viene descritto in maniera impietosa il decorso della malattia di Gottfried –  potrebbero esserci analogie con il coevo Der Wille zur Krankheit (1973) di Gerhard Roth –, lo scioglimento di tutti i suoi conflitti interiori ed il passaggio del testimone al figlio Josef, al quale spetta il compito di riordinare “la massa repellente ed attraente della sua famiglia” (192) attraverso la parola poetica. A Josef sovviene un’incisiva immagine paterna una volta che apprende per telefono del suo ricovero a causa di un collasso circolatorio e una paralisi del lato sinistro del suo corpo (“le convinzioni affrettate mi sembrano uccelli che lasciano il nido troppo presto”, 189), poi ne osserva una fotografia e, dopo aver preso il blocco degli appunti, scrive per associazioni di idee quello che gli viene in mente. Dopo sei anni, la malattia di Gottfried ha raggiunto uno stadio terminale e quanto scritto, “paragonato agli effetti terribili e raffinati della malattia […] fu come leggere una fiaba” (190): il testo di Josef sembra riproporre in maniera ciclica lo stesso rapporto che Gottfried aveva con suo padre, costellato di dubbi e immagini soverchianti. Inizia anche a dubitare della classificazione esperienziale dei manuali di psichiatria da lui consultati, cerca di escogitare una maniera per risolvere “la dissociazione dell’identità” di suo padre, il cui ego emerge “in lotta anarchica” (192) per la propria emancipazione. In questa occasione, Josef inizia a trasfigurare la storia della sua famiglia in senso poetico, conscio che solo l’arte può sciogliere i disaccordi e gli squilibri interiori di suo padre, prodigandosi di smascherare le immagini fisse e il platonismo nel nome del quale ci si aliena “su uno degli innumerevoli scalini e scalette del generale” (193). Gottfried pare non avere più confini, in lui la malattia diviene la marca dell’abolizione di qualsivoglia barriera: la Zaunmentalität che ne ha contraddistinto gran parte delle azioni compiute nell’arco della sua esistenza lascia spazio alla percezione di cose che prima aveva respinto o che aveva cercato di cristallizzare in immagini rassicuranti (“Quello che la vita gli aveva rifiutato si insediò nei suoi organi, lo assalì un desiderio acuto e vivace di incontri sensuali con il mondo”, 194). A decorso avanzato, in colmo delirio, Gottfried tenta di riscrive la sua storia attraverso Josef, in un processo di osmosi lirica (“nella tua testa […] ci sono migliaia di bestiole primordiali, che aspettano di poter scrivere qualcosa su di me” e “Josef sentiva come il padre penetrava dentro di lui, descrivendo se stesso nel figlio”, 203).

L’ultimo discorso di Gottfried implica uno scioglimento di immagini che va di pari passo al suo scioglimento fisiologico, immagini che non contemplano una lingua in atto (206). Il suo volto non riesce a filtrare più alcunché, in lui collimano “essenza interiore ed aspetto esteriore” (207 – cf. anche Mixner, 23). Il nichilismo di questi passaggi viene comunque parzialmente riscattato da Josef, il quale, durante il funerale, percepisce il padre come “una storia futura” (209), in un Innewerden in fase di compimento, le cui immagini riflettono la declinazione più convincente della personale mistica della terra dell’autore stiriano.

Michele Manca

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Riferimenti bibliografici

Bachmann, I., Il trentesimo anno, Adelphi, 2006

Bartsch, K., Melzer, G., (a cura di), Dossier 1: Alfred Kolleritsch, Literaturverlag Droschl, Graz, 1991 (contiene i saggi di Mixner, M., Die Zeit ist das Ende der Wahrheit. Notizen zur Prosa von Alfred Kolleritsch, pp. 17-26, e Wischenbart, R., Ein Bild fürs Leben, Die vieldeutige und die eindeutige Grüne Seite von Alfred Kolleritsch, pp. 39-47; Wischenbart riporta anche un passo da “Gespräch mit Alfred Kolleritsch”, Graz, 6.2.1981, poi pubblicato come Ich habe mich immer als Oppositioneller gefühlt, in: Neue Zeit, Graz, 8.4.1982, p. 4)

Handke, P., Die Abwesenheit, Suhrkamp, Frankfurt/M. 1987

Kolleritsch, A., Abstürz ins Glück, Residenz, Salzburg und Wien, 1983

Kolleritsch, A., Die grüne Seite, Literaturverlag Droschl, Graz, 2001 (prima edizione per Residenz Verlag, Salzburg 1974; passi citati dalla trad. it., di Beatrice Donin, Il lato verde, Polistampa, Firenze, 2009)

Kolleritsch, A., Die Pfirsichtöter: Seismographischer Roman, Residenz, Salzburg und Wien, 1972 (trad. it. di Riccarda Novello, Gli Ammazzapeschi, Marsilio, Venezia, 1995)

Zmegac, V., (a cura di), Storia della letteratura tedesca dal Settecento a oggi. Vol.III. Tomo II:1945-1990, (ed. it. a cura di G. Schiavoni e R. Cazzola), Einaudi, Torino, 1991

BR-ONLINE, Das Online-Angebot des Bayerischen Rundfunks, α Forum, Sendung vom 17.02.2006, 20.15 Uhr, Dr. Alfred Kolleritsch, Lyriker, im Gespräch mit Dr. Eberhard Büssem, alla pagina web: http://www.br-online.de/alpha/forum/vor0602/20060217.shtml

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